(Flash biografici)

 

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.

Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente,

nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo,

che anche quando non ci sei, resta ad aspettarti.

(Da La luna e i falò di Cesare Pavese)

 

 

Come omaggio per i miei 80 anni, un gruppo di amici,vollero dedicarmi un dossier all’interno della rivista di Letteratura Giovanile “LG ARGOMENTI” della Biblioteca “Edmondo de Amicis” del Comune di Genova. Tra i tanti, un articolo molto gradito fu quello dell’amico Fernando Rotondo, il quale mi fece conoscere alcuni versi di Kostantinos Kavafis, preceduti da una visione poetica che richiamò alla memoria ricordi sopiti, sepolti tra le rughe che gli anni lasciano e che tendono a soffocarli.

 

Fernando (per me semplicemente Nando) scrive:

Cassini ritorna spesso alla sua Isolabona che ha assunto i mitici e pur così realistici contorni dell’isola non trovata da Gozzano, della Islabonita di Nico Orengo, per ritrovare la sua Itaca dove pure Argo, il cane di Ulisse, è morto. Nell’isola-rifugio che consente solo brevi viaggi nel mar giallo del gioco poliziesco ed enigmistico, là dove l’odore del mare risale fino ai paesini delle Alpi Marittime mescolandosi ai profumi del basilico e delle altre piante ed erbe che danno i gusti ai piatti di ravioli, di coniglio con le olive, di capra e fagioli, c’è un sospetto di disincanto, di pessimismo che però trova conforto nella scrittura: in fondo restiamo sempre quelli che siamo nati e dove sempre torniamo, come scrive Kavafis:

 

“Itaca t’ha donato il bel viaggio

Senza di lei non ti mettevi in via.

Nulla ha più da darti.

E se la ritrovi povera, non t’ha illuso.

Reduce così saggio e così esperto,

Avrai capito che vuol dire un’ Itaca.”

 

Versi che mi hanno dato l’input per iniziare la mia nuova avventura nel mondo di internet, attraverso una breve biografia, per presentarmi al lettore. Il momento è quello adatto: ottant’anni sono ormai alle spalle e i ricordi possono riaffiorare.

Molti di questi sono sparsi a piene mani nei libri che ho scritto per i giovani, in particolar modo Tempo d’odio e tempo d’amore, I ricordi di Cirò e Vacanze movimentate.

Non intendo certo sostenere che ricordo quel 29 maggio del 1931, quando aprii gli occhi sul mondo.

Quello che accadde il giorno della mia nascita mi fu raccontato con dovizia di particolari anni dopo. Mentore fu la madre di mia madre, Nonna Finetta. Nonna Finetta, rimasta presto vedova, con tre maschi e una femmina da accudire, riversò su di me, il primo e unico nipote, tutto l’affetto possibile, dandomi a piene mani quello che aveva tolto, o meglio che non aveva potuto riversare sui suoi figli, perché impossibilitata dalle necessità familiari. Per questo Nonna Finetta è sempre stata presente nei miei pensieri, tanto da diventare una dei protagonisti dei miei romanzi autobiografici I ricordi di Cirò e in Tempo d’odio e tempo d’amore.

Durante la prima infanzia mio padre e mia madre erano assenti per buona parte dell’anno dal paese. Il lavoro li costringeva a lunghi soggiorni in terra di Francia. Fu nonna Finetta a seguire i miei primi passi, a udire le mie prime parole, ad asciugare le mie prime lacrime. Mi ha seguito quando all’asilo ebbi il mio primo contatto con altri bimbi della mia età, e quando alle elementari cominciai ad imparare l’abc. La sua presenza reale o immaginaria era costante. Si è idealmente seduta al mio fianco quando, sui banchi della scuole medie, leggevo i versi del Carducci che parlavano di una nonna “alta, solenne, vestita di nero”; sui banchi del liceo, quando mi appassionavo nella lettura di racconti e leggende e quando, all’università, studiando letteratura per l’infanzia, ricostruivo attraverso una visione più razionale e logica le fiabe che mi aveva raccontato vicino al focolare, nelle notti d’inverno. Fiabe paesane di vita in cui fate, gnomi e principesse dai capelli biondi non esistevano, ma erano invece presenti personaggi più veri, più sanguigni, più vitali, sempre alle prese con i misteri della sopravvivenza e della vita.

Quando, annualmente, torno alla mia Itaca per trascorrere una vacanza, la prima visita è al Campo Santo dove, per me, esiste la tomba più bella, la sua. O meglio: dove non esiste nessuna tomba perché nel luogo dove fu sepolta non c’è alcuna lapide e non c’è alcun vaso in cui porre un fiore. Sulla sua

sepoltura, col passar dei decenni sono nati due alberi, oggi alti una ventina di metri. In quelli c’è lei. Quale miglior riposo all’ombra di due cipressi sempre verdi!

 

 

 

“Deh come bella, o nonna, e come vera

è la novella ancor! Proprio così.

E quello che cercai mattino e sera

Tanti e tanti anni in vano è forse qui,

sotto questi cipressi, ove non spero,

ove non penso di posarmi più:

forse, nonna è nel vostro cimitero

tra quegli altri cipressi ermo lassù.”

(Giosuè Carducci- Davanti San Guido)

 

Con nonna Finetta trascorsi gli anni della primissima infanzia, quando mi portava a Mentone dove mia madre e mio padre lavoravano come impiegati nell’Hotel de Venise, un Hotel, oggi si direbbe, a cinque stelle, frequentato da VIP, da signore ingioiellate che guardavano con occhi stupiti quella donna austera, ammantata di nero che teneva tra le braccia una minuscola mummia vivente. Infatti, seguendo gli usi del mio paese, gli infanti sino all’età di tre anni venivano fasciati in lunghe bende odorose di lavanda e somigliavano a minuscole mummie, impossibilitati com’erano di sgambettare e capaci di esprimersi solo con gli occhi e col sorriso.

Continuò a portarmi in Francia ogni mese affinché trascorressi una giornata con i miei e continuò anche nel periodo in cui i Francesi cominciarono a odiare Mussolini e a chiamare gli italiani con l’epiteto di “Macaronì”.

Vi racconterò un episodio. Avevo circa quattro anni. Eravamo alla stazione di Mentone in attesa di un treno per Ventimiglia. Attorno a noi un via vai continuo di passeggeri, di gente con valigie, di facchini, di agenti di frontiera. Stavo in silenzio vicino a nonna Finetta e osservavo. Ad un tratto, senza una ragione, mi misi a gridare ad alta voce “Evviva Tulini! Evviva Tulini!” Lei mi diede un pizzicotto al braccio che mi lasciò il segno e con voce irata mormorò in dialetto: “Sta chiato, brùtu porco. A semu en Fransa, nu a l’Isura. ” (Sta zitto, porcellino, qui siamo in Francia e non a Isola). Una signora che mi aveva udito, disse al marito: “Et voilà. En Italie a quattre ans les enfants commence dejà a crier : Vive Mussolini!”

 ( Trad. Ma guarda un pò, in Italia a 4 anni i bambini cominciano già a gridare : W Mussolini!).... )

In seguito rimasi in Francia con i miei sino all’età di sei anni. Vivevamo ad Antibes dove, volendo tentare la fortuna nel commercio, mio padre aveva rilevato un negozio di commestibili. Sembrava che la mia famiglia avesse imboccato una via giusta.

Frequentai la prima elementare alla Scuola “Paul Aréne”; parlavo francese. Ma il momento non era propizio per gli italiani perché i rapporti politici, burrascosi, tra Italia e Francia costrinse i miei a ritornare a Isolabona nel 1938, poco prima che scoppiasse la guerra, e a riprender l’antico mestiere del contadino. Gli anni dal 1938 al 1945 furono duri. Anni che lasciarono ricordi poco piacevoli, convulsi dal punti di vista politico e da quello bellico. Tutti ricordi che in seguito fissai in episodi sparsi in alcuni libri. Frequentai in quel periodo la Scuola media “Regina Margherita” a Ventimiglia e poi il ginnasio, il liceo ad Alessandria e, infine, l’università a Genova, Facoltà di lettere moderne.

Per me quelli furono anni di formazione, di intense letture, di conoscenze … ma anche anni di goliardie con gli amici. Fu nella loggia dell’Università di Via Balbi che conobbi Marisa, la mia futura moglie. Si era iscritta inizialmente alla Facoltà di Medicina, che subito abbandonò per passare a Lettere. Legammo subito, anche perché, come seppi in seguito, era rimasta colpita piacevolmente dalla mia sciatteria. Mi confessò che a colpirla era stato il fatto che quando ci incontrammo la prima volta indossavo una calza di un colore e una di colore totalmente diverso. Forse la considerò una stranezza. Io so solo che non facevo caso a quello che indossavo. In seguito, per caso, incontrammo suo padre, un ragioniere che lavorava presso la Banca San Paolo di Torino. Vedovo da pochi mesi, viveva con la figlia e con la suocera. Era piccolo, stempiato, rotondetto, sempre allegro e pronto alla risata; ma era miope peggio di una talpa. Mi colpirono i suoi occhiali le cui lenti erano spesse come il vetro di un bicchiere di birra. Come facesse a vedere non lo so. Un giorno mi raccontò che alla fermata di un tram una vecchietta gli aveva chiesto se il tram che stava arrivando era il numero 18. Le rispose che lui, pur indossando gli occhiali, il tram non lo vedeva neppure! E si fece una risata.

I miei rapporti con sua figlia si erano stabilizzati su una base goliardica, sebbene la vicinanza e lo studio comune agissero lentamente sui nostri sentimenti senza che ce ne accorgessimo. Chi se ne accorse fu il padre, il signor Saettone, col quale ero ormai in confidenza e mi stimava come un figlio.

Un giorno, mentre lo accompagnavo sino a casa, la figlia non c’era, mi disse che sua suocera doveva assentarsi per lungo tempo e che in casa rimanevano solo lui e sua figlia. E poi accompagnò la notizia con una inattesa proposta che non mi aspettavo. Sorridendo disse: “Allora, come la mettiamo con mia figlia? Mia suocera se ne va per non so quanto tempo. Vedi, io non sono un padre all’antica e non voglio certo diventare un cerbero che vigili continuamente. Ho capito che fra voi due c’è più che amicizia. Perché non vi sposate?”. Trasecolai. “Signor Saettone, – gli risposi – io mi laureo tra un anno e poi devo ancora fare il servizio militare. Non ho arte ne parte, come farei a pensare a sua figlia?

Mi rispose ridendo: “Se il problema è tutto lì è bello che risolto, perché dove si mangia in due si mangia anche in tre!”. Io ribattei: “Ma sarebbe come se io venissi a vivere in casa sua, appendendo semplicemente il cappello all’attaccapanni!”. (Solo adesso mi accorgo che stavamo usando entrambi modi di dire comuni).

Quell’estate, con il beneplacito dei miei, li invitai a trascorrere le loro ferie a Isolabona, dove il signor Saettone (quanto odiava essere chiamato così, lui che solitamente con gli amici amava essere chiamato Pippo!) ebbe occasione di parlare con i miei. Che cosa si dissero non lo so. Il risultato fu che dopo tre mesi ci sposammo! Continuammo entrambi a studiare con grande divertimento degli amici e dei professori che, dopo un esame (che ovviamente affrontavamo in contemporanea), discutevano con noi sul voto da darci. Conseguita la laurea, venne il periodo del richiamo alle armi. Credevo di poterlo evitare, essendo sposato, ma, nulla da fare. Fui inviato a San Benedetto del Tronto per un periodo di addestramento in un corso per allievi ufficiali di complemento; poi, nominato sottotenente, trascorsi dieci mesi in un reggimento di fanteria di stanza a Palmanova nel Veneto. Ero addetto al reparto collegamenti e avevo a disposizione voluminose macchine rice-trasmittenti, delle quali conoscevo solo le funzioni più semplici. Io e la tecnologia non eravamo molto affiatati … e ancora oggi alle prese con Pc e telefonini mi trovo sempre in difficoltà … e dire che ho scritto per i giovani, racconti e avventure di fantascienza dove la tecnica è sovrana! Un conto è la fantasia, altro è la realtà.

Tutto sommato fu un periodo piacevole anche perché il grado di sottotenente mi permetteva di poter ricevere visite frequenti da parte di mia moglie, la quale, quando in seguito ricordava quel periodo era solita usare la frase: “Quando facevo il militare”, con grande stupore di chi l’ascoltava . Quel periodo, in fondo spensierato, durò poco. Dopo il congedo militare mio suocero morì improvvisamente di edema polmonare e io, con la sola laurea in lettere e nient’altro in tasca, iniziai a cercar un lavoro qualsiasi. Cominciai con un incarico serale presso l’istituto privato “Giacomo Leopardi” di Via XX settembre a Genova. Non mi dispiacque. I corsi erano frequentati da studenti lavoratori che, dopo aver faticato mattino e pomeriggio, cercavano di prepararsi per ottenere un diploma. Ricordo che ogni sera, dalle otto alle undici, qualcuno di loro reclinava la testa sul banco e si addormentava … non per quello che spiegavo, ma per la fatica! Avevo preso l’abitudine di preparare degli appunti che consegnavo loro al termine della lezione … quando si svegliavano. Poi il direttore del Leopardi mi affidò anche un lavoro mattutino con ragazzi delle scuole medie. Quelli però non dormivano, tutt’altro. E fu allora checapii di aver preso all’università un indirizzo sbagliato. Ero perfettamente negato a svolgere il compito di educatore di giovani perché non riuscivo a mantenere la disciplina. Non avevo alcun carisma. Diversamente dal giornalista Mosca, non avevo una fionda a portata di mano, né avrei mai potuto centrare un insetto fermo sul muro per ottenere rispetto e considerazione. Tra me e Guglielmo Tell c’è un abisso! Ripiegai su un concorso per entrare in Comune … e fu la mia fortuna. Lo vinsi … bastava avere la licenza media! Fui assegnato alla segreteria dell’Istituto Universitario di Magistero “Adelchi Baratono” e, qualche anno dopo, quando il Comune riassorbì tutti gli impiegati di segreteria, venni inviato alla Ripartizione Istruzione - Settore Biblioteche, diretto dal Prof. Giuseppe Piersantelli.

Questi, proprio in quel periodo, stava seguendo una sua idea bibliotecaria: la creazione di una emeroteca nei Parchi di Nervi, nella quale raccogliere giornali e riviste italiane e straniere da mettere a disposizione dei turisti che venivano a trascorrere periodi di riposo al sole della Liguria. Un’ idea che il professore “covò” a lungo, fino a quando non incontrò una signora tedesca, Jella Lepman, fondatrice a Monaco di Baviera della Jugend Bibliothek. La Lepman lo dissuase da quell’idea, prospettandogli, invece, la creazione in pieno centro-città di una biblioteca destinata esclusivamente ai ragazzi dai quattro anni all’adolescenza. Un’idea che lo attrasse subito. Venne fondato il CSLG (Centro Studi di Letteratura Giovanile) del Comune di Genova di cui, dopo alcuni anni dalla sua fondazione entrai a far parte. Il lavoro del Centro fu quello di preparare il terreno all’apertura della Biblioteca per ragazzi “E. De Amicis”. Per la sua creazione e direzione, Piersantelli cominciò a pestare i piedi, chiedendo che per la nuova struttura bibliotecaria lui voleva che fosse posto “un uomo” in quanto tutte le Biblioteche genovesi di quartiere erano guidate a donne. E il moderno Diogene in cerca dell’uomo lo trovò nel sottoscritto. Gli feci notare che non avevo nessun diploma di biblioteconomia. L’unico contatto con i ragazzi era la pubblicazione di alcuni libri con la Casa editrice Mursia. “Nemmeno io – mi rispose – sapevo qualcosa del funzionamento delle biblioteche quando mi affidarono l’incarico di dirigerle. Io mi sono arrangiato. Arrangiati pure tu!”

Mi arrangiai “copiando “ il sistema della Jugendbibliothek di Monaco di Baviera e quello della Biblioteca di Clamart-sur-Seine, nella banlieu parigina. Una biblioteca ad uso esclusivo dei Ragazzi.

Furono anni intensi durante i quali utilizzai tutta la mia esperienza per “creare” sistemi a dimensione dei ragazzi perché capii subito che i sistemi utilizzati in una biblioteca per adulti, mal si adattavano alla mentalità dei giovani. Ricordo di aver avuto un ottimo risultato utilizzando i colori per individuare subito i vari generi letterari e introducendo nell’animazione giochi enigmistici per spiegare l’uso dei cataloghi per autore, per soggetto, per titolo, per collane e per abituarli ad un self-service bibliotecario.

Mi venne poi affidata anche la direzione della Rivista di letteratura giovanile “LG Argomenti” (ex “Il Minuzzolo”, creato anni prima da Giuseppe Piersantelli). Nel frattempo continuai a scrivere romanzi per ragazzi. Una passione che era iniziata nel 1964 con un libro di Fantascienza. Ne seguirono una trentina nei quali toccai diversi generi: fantascienza, storia antica e moderna, gialli, romanzi autobiografici, libri gioco, umorismo, mistero e suspence, enigmistica …

A questi si aggiunsero articoli si varie riviste, oltre a quelli che scrivevo su “LG”.

Nel frattempo la Biblioteca De Amicis (la DEA come confidenzialmente veniva chiamata dagli addetti ai lavori) dovette essere spostata, per questioni di spazio, dalla suggestiva Villa Imperiale, in Via Archimede, vicino alla stazione Brignole. Dal verde di un parco, al grigio dei caseggiati. Non fu un passo all’indietro; si trattò solo di una perdita di colore, perché la DEA nel frattempo continuò a crescere, tanto che, dopo la Fiera Internazionale delle COLOMBIADI del 1992, dovette essere nuovamente spostata e trasferita in locali più ampi vicino al mare, nei Magazzini del Cotone del Porto Antico di Genova, restaurati dall’architetto Renzo Piano. Iniziò così il periodo blu.

L’ultimo trasferimento non l’ho seguito. Ormai ero in pensione. Se ne occupò il mio delfino Francesco che sta continuando il mio lavoro in modo egregio e con idee manageriali che io non avevo.

La mia DEA è in buone mani.

Oggi, ottantenne, mi sono trasferito in riva al mare ad Albisola.

Marisa non c’è più. Se n’è andata dopo 57 anni di vita in comune.

Ci sono i ricordi.

(Itaca-Isolabona, martedì 5 luglio 2011)