LA CAPRA E LA PARTITA A TAROCCHI

 

          Se qualcuno avesse domandato quale fosse il suo vero nome, nessuno avrebbe saputo rispondere con sicurezza. In paese e nei dintorni era conosciuto con un soprannome, affibbiatogli  dopo il suo ritorno dall’Africa dove era andato, attirato da chissà quale miraggio. Dall’Africa era ritornato portando con sé due sole cose: una scimmietta, morta in seguito di tisi,  e la sete, una sete cronica che riusciva a smorzare con frequenti puntate all’osteria.

Tutti lo conoscevano col soprannome di Negro.

 Anche il mal d’Africa gli era rimasto nel sangue. Parlava continuamente delle sue avventure e i compagni d’osteria non lo ascoltavano più perché le conoscevano ormai tutte. Di fronte alla loro indifferenza, il Negro, vedendoli distratti, batteva il pugno sul tavolo facendo sobbalzare i bicchieri e, alzandosi traballante, se ne ritornava a casa a smaltire i fumi dell’alcool.

 In Africa non era più tornato. Sposata la Gigia e allevati i figli, si era adattato ai lavori dei campi, all’allevamento dei conigli, delle galline e  a prendersi cura della Bianchina, la capra alla quale si era affezionato.

Nei momenti di riposo (ovviamente trascorsi in osteria) si dedicava al suo hobby preferito: il gioco dei tarocchi in cui era considerato un esperto.

  Ogni giorno, terminato il lavoro, le mani in tasca, la pipa incrostata tra i denti, un berretto lercio a ricoprire la calvizie, varcava la soglia dell’osteria.

L’ambiente non era per nulla accogliente:   semibuio, i muri trasudanti umidità, d’un colore incerto nonostante la mano di calce messa annualmente a copertura delle sottostanti magagne. A terra, intorno ai tavoli, un leggero strato di segatura era pronto a ricevere il vino versato, la cenere, gli sputi e le cicche delle sigarette.   Decisamente un ambiente poco accogliente, ma nessuno ci badava. E lì, durante le giornate piovose, Negro passava ore e ore a covare le carte sudice e bisunte, quasi fossero biglietti da cento euro; e come sapeva spendere questi con accortezza, con altrettanta oculatezza giocava quelle, pronto ad avvertire una fitta al cuore se l’avversario riusciva a carpirgli qualche punto.

  Giocava meglio dei professionisti e come questi non amava sentirsi gente alle spalle o attorno e occhi pronti a controllare ogni sua giocata. Se qualche spettatore poi si sedeva al suo fianco, cominciava a sbuffare fino a sbottare nella sua frase preferita:

- Tutti quelli che siedono alla mia destra sono degli imbecilli e quelli alla mia sinistra dei rimbambiti.

  Gli amici d’osteria non ci facevano più caso. Gli estranei e i forestieri sì. Una volta un monegasco, sedutosi alla sua destra, si inalberò e, guardandolo di brutto, rispose seccato:

- Monsieur, je ne suis pas un imbécile! (1)

  Negro, che prima di andare in Africa, aveva lavorato sulla Costa Azzurra e masticava un poco di francese, dopo averlo squadrato, con un ampio gesto della mano, disse:

- Alors, monsieur, passez a ma gauche. (2)

  Per fortuna ci fu qualcuno che calmò il suddito del Principe Ranieri e tutti finì.

  Durante il gioco era raro che Negro si distraesse o dimenticasse se una carta era già stata giocata, fosse pure un due di bastoni o un dieci di coppe (3). Il suo maggior dolore, corrispondente alla massima goduria  per gli spettatori, era quando gli capitava di giocare in coppia con un novellino e di dover subire, senza poter riparare, gli sbagli dell’occasionale compagno. In quei momenti, seduto sul bordo della seggiola, con gli occhi fissi sul compagno che, titubante, rosso in viso, impaurito e indeciso sulla carta da giocare, Negro cominciava a grugnire per poi sbottare apertamente, inveendo e insultando il malcapitato il quale,  per paura di sbagliare… giocava proprio la carta sbagliata.

  E quel sabato pomeriggio il malcapitato era uno studentello cui era venuta la malaugurata idea di sedersi al tavolo del Negro per fare il quarto in una partita.

-  Non sono molto in gamba – si scusò subito il giovane.

-  Non importa – aveva risposto uno dei giocatori. Bisogna ben imparare una volta o l’altra.

  Nell’estrazione a sorte, allo studente era toccato far coppia proprio con il Negro e questi, per nulla contento, si era limitato a tirar dentro le labbra e a soffiare forte dalle narici.  I primi due giri erano andati bene. I guai cominciarono col terzo.  Ad un potente ‘BUSSO!’ (1), accompagnato da un pugno sul tavolo, il giovanotto aveva giocato una scartina per cui, alla successiva giocata, Negro era uscito con una carta bassa, ritenendo che il suo compagno non avesse carte alte in quel seme. Quando, invece, lo vide giocare una donna, sentì una vampata di calore salirgli al viso.

‘ Calma – si disse – calma, Negro!’ – E, riunite le sue carte, le posò sul tavolo, poi, agitando la mano davanti al viso del compagno, gli domandò:

- Quando la mano precedente ho giocato il Re, cosa ho detto?

-   Ha detto ‘busso’ – rispose il malcapitato, tirandosi indietro nel timore di ricevere un pugno sul naso.

- E che significa ‘busso’?

- Che avrei dovuto giocare la mia carta più alta, cioè la Donna.

- E perché, porco mondo, non l’hai giocata?

  E, presa di mira la Donna giocata in ritardo, l’andava martellando quasi volesse appiattirla maggiormente.

- Non l’ho giocata perché pensavo di fare una presa anch’io.

- Ma che presa d’Egitto! E ora che me ne faccio di queste carte? – disse, stendendo sul tavolo il Cavallo e il Fante. – A che cosa mi servono, eh? Sono tutti punti che andranno agli avversari. Carte con questo seme loro non ne hanno più, ma ce le prenderanno con i tarocchi, porco boia, mondaccio cane! Ma proprio a me dovevi capitare…

- Nonno, - lo interruppe una vocetta gentile, - nonno! La nonna mi manda ad avvertirti  che la capra Bianchina ha partorito un bel capretto. Devi venire subito nella stalla a vederlo.

 Interrotto nel suo sproloquio, il vecchio rimase col braccio a mezz’aria a fissare il nipote di sei anni il quale, col ditino alzato, continuava a ripetere:

- La Bianchina ha fatto un capretto, nonno, un capretto!

- Va bene, Ginetto, - fece il Negro, ammansito, - va bene! Torna dalla nonna e dille che verrò quando potrò.

Il bambino uscì e il gioco riprese. 

Per altri quattro o cinque giri nessuno fiatò e la partita proseguì alla bell’e meglio.

Sul volto del Negro però si leggeva  la sofferenza quando il suo compagno esitava nel giocare una carta. E la sofferenza era accompagnata da sconforto non appena vedeva la carta cadere sul tavolo. Agli spettatori, attenti alle mosse del Negro, sembrava di osservare l’omettino del luna-park intento a gonfiare i palloncini colorati. Dapprima, quando li tira fuori dalla scatola, sembrano viscidi serpentelli oblunghi e mollicci, poi, una volta infilati nel beccuccio della bombola di  gas, cominciano a prendere forma, ad assumere dimensioni sempre più ampie, ad allargarsi smisuratamente fino a scoppiare se non sono tolti in tempo. Così accadeva al Negro.

Tornato per poco  calmo alla notizia della nascita del capretto, aveva ripreso a gonfiarsi di rabbia repressa. Bastò un nonnulla a farlo esplodere. Avvenne quando si accorse che il suo compagno, avendo molte carte di coppe, avrebbe potuto, una volta liberatosi delle scartine inutili, far sue tutte le prese. Gli sarebbe bastato, al suo turno, giocare una carta di coppe. E, invece, quando il Negro sogghignava nel vedere le smorfie degli avversari, accortisi pure loro della situazione, lo studentello buttò sul tavolo l’asso di bastoni.

-   Ma porcaccio mondo schifo! – urlò il Negro, balzando in piedi, paonazzo in volto. – Io mi aspetto coppe e tu mi vieni fuori a bastoni! Perché hai giocato bastoni? – E, raccattata la carta sul tavolo, l’andava sbattendo con colpettini rapidi sul naso del giovane, urlando nel contempo: - Ecco, te lo sbatto sul grugno l’asso di bastoni! Pezzo di rimbambito! Ma accidentaccio…

- Nonno, nonno, un altro! La Bianchina ne ha fatto un altro! – lo interruppe Ginetto tutto trafelato, entrato di corsa nell’osteria, incurante delle urla del nonno. Attaccato alle brache di fustagno del vecchio e tirandole con forza, gridava anche lui.-Un altro, nonno, un altro!

- Un altro cosa? – fece burbero il Negro. Tra tutti quei bastoni e coppe per la testa, s’era dimenticato che la sua amata capra stava partorendo.

- Un altro capretto, nonno!

Dopo un attimo di esitazione, tanto da riprendere la trebisonda, sbottò:

- Almeno quella mi esce con la carta giusta! Oste, porta una bottiglia di rossese. Bianchina merita un brindisi.

  Una breve pausa, il tempo di finire la bottiglia e di brindare alla capra e poi il gioco riprese.

  Intorno al tavolo si era radunata una piccola folla per assistere alla partita e ai lati del Negro, nonostante avesse già pronunciato la sua frase preferita, si trovavano alcuni contadini ai quali non dava alcun fastidio l’essere considerati imbecilli o rimbambiti. Il vecchio, però, si trovava a disagio e continuava a dimenarsi sulla seggiola quasi fosse seduto su un cespo di ortiche.

D’un tratto, dovendo giocare una carta decisiva ai fini dello svolgimento della partita, un grido argentino proveniente dalla porta lo distrasse:

- Nonno, nonno, ancora uno, ancora uno!   

Negro, frastornato, confuso, non sapendo se pensare ai capretti o ai tarocchi, giocò una carta e sbagliò.

- Schifosissima miseria! – prese a urlare rivolto al suo compagno tutto sorridente in volto quasi a voler significare “Vedi che non sbaglio solo io!” – Boia ladro, se mi giocavi quel Re di Spade che tieni nascosto, invece di tirare quel tarocco, non sarei stato costretto a giocare così.

- Ah, perché è colpa mia se lei ha giocato male?

- Sì, taci e gioca!

Si riprese in una atmosfera alquanto arroventata. Le mani succedevano alle mani e non ce n’era una che non venisse sottolineata da una serqua di parolacce da parte del Negro. La fortuna sembrava essersi definitivamente allontanata da lui. Ciononostante, coerente col principio che una partita iniziata deve essere portata a termine, continuava imperterrito a giocare e a invelenirsi.

Raramente gli capitavano buone carte; ma quando si trovò in mano i tarocchi più importanti, il  Matto, il Bagatto e un discreto numero di tarocchi minori (tutte prese quasi sicure) pensò subito: “Il Matto vale quattro punti, il Bagatto cinque e fanno nove punti sicuri. Carte di spade non ne ho e quindi se l’avversario esce col Re  di spade glielo frego e son altri cinque punti”.  La faccenda prometteva bene.

Quando, finalmente, toccò giocare al suo avversario di destra e quello buttò sul tavolo il Re di Spade, il Negro, preso il suo Bagatto, si alzò e lo sbatté con forza sul tavolo addosso al Re.

- Toh, boia d’un mondo ladro, è mezz’ora che ti aspetto! 

La sua euforia fu di breve durata. Senza scomporsi, con gesto calmo e pacato, accompagnato da un sogghigno, l’avversario di sinistra, anche lui privo di carte a bastoni, posò con tutta delicatezza un tarocco maggiore sul Bagatto e raccattò tutte le carte. Cinque punti sfumati per il Negro!

 Nel silenzio assoluto venutosi a creare attorno al tavolo, si udirono stridere i denti del vecchio e si videro i suoi occhi cisposi affossarsi. Quando la tensione si allentò e il Negro si accingeva a dar fuori in uno sproloquio di contumelie, si avvertì di nuovo la vocetta sommessa di Ginetto. Intrufolatosi tra le gambe dei presenti, tutto affannato per l’ennesima corsa, disse:

- Nonno, nonno, non ne posso proprio più; sapessi come sono stanco! La Bianchina ne ha fatto un altro! Nonna dice che devi venire.

E mentre tutti scoppiavano a ridere, il vecchio, cupo in volto, si alzò, scaraventò sul, tavolo le carte che ancora teneva in mano, sputò per terra e disse:

- Basta! E’ meglio che vada a far visita alla Bianchina. Se quella capra non mi vede arrivare subito è capace di non fermarsi più!

E, preso per mano il nipotino, se ne andò.

 

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1)           – Signore,  io non sono un imbecille.

2)           – E allora. Passate alla mia sinistra.

      3)  - Sono le carte meno importanti nel gioco dei tarocchi. Le più alte (quelle che danno punti) sono il RE, la DONNA, il CAVALLO e il FANTE, oltre ai tarocchi: il MATTO, il BAGATTO e l’ANGELO.

      4) La parola “BUSSO” pronunciata da un giocatore è l’invito dichiarato al compagno e significa: “Gioca la carta più alta che hai in questo seme.”