PRIMO APPUNTAMENTO

 

Si continua a parlare di uguaglianza e non ci accorge che, in seno alla natura e in ogni manifestazione della cosiddetta civiltà esiste una disparità enorme, una grande differenza.

Posso dire di aver vissuto in due mondi diversi il giorno in cui lasciai il mio paese, Isolabona, per andarmene a vegetare  in città. Lì per lì tra quegli enormi palazzi moderni, in mezzo al frastuono delle automobili allo sferragliare dei tram, non pensai più a quelle  quattro case tetre, scure,  incollate al suolo dalla mano di un  gigante e divise tra loro da viuzze strette, lastricate, in cui ancor oggi risuona solamente il passo dei muli.

Solo dopo un certo tempo avvertii il bisogno di rivederle, di risentire l’odore di muffa e di antico che esalano quelle mura secolari. E dopo quella prima volta il desiderio di evadere dalla città diventò una malattia, una idea fissa che mi condusse sempre, anno dopo anno, là dove avevo cercato di fuggire. Il ritornare poi spesso al paese, il riprendere il contatto con il passato, acuì sempre più l’idea di quei due mondi diversi tanto che, oggi, essa è per me una realtà incontrovertibile.

Per uno che abbia sempre vissuto in una città o in un paese, la differenza non esiste: conosce solo il suo mondo e se pensa all’altro è solo per disdegnarlo o per invidiarlo; ma per uno che conosce i due mondi, avverte nel paese più chiaramente la mano di Dio e sente molto più profondamente la differenza fra il bene e il male, l’onesto e il disonesto, il giusto e l’ingiusto.  Sarà forse perché in un più piccolo perimetro, qual è quello di un paese, tutto è più concentrato, più fuso, più unito, mentre in una città tutto risulta più sfuocato.

Tra i muri di poche case tutti si conoscono e non solo per nome: gioie, dolori, ambizioni, passioni, tutto è palese, tutto risulta in comune. In città è diverso: a volte non ci si conosce nemmeno tra inquilini dello stesso caseggiato. In paese è la monotonia che crea il problema e fa sì che tutte le gioie e tutti i dolori siano ingigantiti appunto per la totale partecipazione di una comunità che vive fase per fase gli avvenimenti quasi accadessero ad ognuno individualmente.

Isolabona, il paese di cui ho seguito la vita per anni, non ha storia, se non quella documentata dalla storia della valle in cui sorge.

Si trova alla confluenza di due torrentelli e all’ombra di una collina ricoperta di pini.  Case vecchie, tetre, con mura spessissime. Nell’interno scalette tortuose, anguste, dai gradini sbrecciati e umidi; locali con volte a crociera o simili a gallerie che danno un senso di oppressione. E’ raro che le finestre siano ampie e attraverso esse entra una luce scialba che rende tutto indistinto e penoso. Anche i mobili rispecchiano il grigiore del luogo.

Sovrastate da molteplici archetti antisismici che collegano muro a muro e sembrano puntellarli, le strade sono incassate tra case addossate le une alle altre, non ricevono la  luce del sole se non sul mezzogiorno, quando i raggi a fiotti si riversano in esse inondandole di uno sfacciato chiarore che mette a nudo tutte le miserie che l’ombra ha sempre protetto, Solo col sole ci si accorge di quei vasi di gerani striminziti o di fiori dai colori opachi e di quei panni tesi tra casa e casa i quali, rattoppati e lisi, indicano una povertà antica quanto il paese. Sembra quasi che il sole stesso avvera la pietà che da essi emana perché si allontana subito, lasciando che l’ombra rimetta ogni cosa al suo giusto posto. Allora la vita in esse riprende e i soliti  rumori accompagnano il lento trascorrere del tempo.

Solo d’estate nell’ora della siesta non si ode rumore alcuno; tutto tace perché il paese si è vuotato il mattino, di buon’ora e non c’è più nessuno, nemmeno i vecchi che sono andati nei dintorni a vedere le campagne, quelle più vicine, perché le più lontane le hanno affidate ai figli già da un pezzo e nelle quali hanno lasciato una parte della loro vita.

E’ lì che sono nato ed è lì che ho imparato a vivere e a pensare, tra quelle case, tra quelle vie, tra quel grigiore. Ogni giorno era uguale al precedente e rispecchiava quello che sarebbe seguito. Sempre le stesse cose, le stesse facce, gli stessi giochi. In quei tempi mi era amica la natura che inconsciamente seguivo in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue manifestazioni. Sapevo molto sulla vita delle piante, sulla vita degli animali, molto più di quanto non sapessi sulla vita degli uomini  e sui loro desideri. Ma dei loro desideri non m’importava o almeno non me ne curai  finché non sentii che anche in me c’era qualcosa che voleva erompere, che voleva fiorire. Fino ad allora avevo solo vegetato guardando gli altri e non curandomi di me stesso. Ma un giorno…

 

Quegli ultimi giorni d’estate erano stati molto caldi e l’aria stagnante pesava come una cappa di piombo facendo impregnare in un attimo i vestiti di sudore. Quasi come ad un rito quotidiano mi recavo al laghetto della Madonna sulle cui rive crescevano solo canne e giunchiglie oltre a qualche raro cespo di oleandri.  In prossimità dell’acqua un piccolo greto sassoso serviva da spiaggia. A rivederlo ora quel minuscolo specchio d’acqua acquista toni e caratteristiche particolari che allora non notavo: oggi mi sembra, infatti, un luogo tranquillo, pieno di poesia, allora era semplicemente un laghetto.

Alcuni ragazzi sui cinque sei anni facevano il bagno nudi, diguazzando allegramente nell’acqua. Di ragazze nemmeno l’ombra. Quel fatto mi dispiaceva un poco; l’anno prima non avrei fatto caso alla loro presenza, anzi se ne avessi visto una mi avrebbe dato fastidio, a meno che non si fosse messa a giocare con me come un maschiaccio.

Quell’estate, invece, la pensavo altrimenti.

A condizionare i miei nuovi pensieri erano stati i discorsi di Giulio con cui ero amico da tempo, anche se lui, che si dava le arie da uomo vissuto, mi trattava da ‘pivello’.

Dai gesti e dalle parole si vedeva in Giulio il gagà di provincia. Sempre azzimato, coi capelli lunghi, impomatati di brillantina, che si faceva curare da un barbiere di Sanremo perché di quello del paese non si fidava. Portava cravatte chiassose, giacche e  pantaloni assai stretti, che servivano a mettere in evidenza le sue forme da atleta. Un bel ragazzo, insomma, che doveva piacere molto alle ragazze.

-Vedi, Mario, - mi diceva – la cosa essenziale nella vita è la caccia e le donne sono sempre alla caccia di un uomo, così come noi uomini  siamo in continua caccia delle donne Tutto sta ad incontrarsi in questa ricerca e ti assicuro che è molto facile, basta saperci fare. Ci scommetto che tu non hai mai fatto la corte ad una donna, che non ne hai mai baciato una o sbaglio?

-Sì, -  ammisi timidamente, arrossendo.

-Ecco il tuo difetto – aggiunse notando il  mio rossore. – Tu sei un timido e non puoi fare  a meno di arrossire neppure davanti a me. Questo nei rapporti con una donna è un punto a tuo sfavore perché esse vedono subito che sei un timido, un impacciato e ti lasciano cadere con noncuranza. Bisogna essere audaci, alla donna piace un pizzico di brutalità, è felice quando si sente stretta da due forti braccia, quando la tratti con fermezza. Tu, invece, arrossisci e rovini tutto.- E mentre parlava mostrava con gesti tutta la sua prestanza fisica.

Da quel giorno i nostri discorsi si erano fatti più frequenti e sempre sullo stesso motivo; si erano approfonditi e avevano toccato argomenti che mi avevano fatto arrossire, ma che avevo ascoltato con strano piacere.

Ecco perché quel giorno avvertivo la mancanza di ragazze in riva al laghetto.

Il sole era alto e bruciava la pelle. Farfalle, api, libellule dalle ali argentate, insetti  d’ogni specie volavano e ronzavano tutto attorno, ubriachi di luce. Il loro lieve ronzio e il mormorio dell’acqua lungo le rive mi misero addosso uno strano sopore tanto da farmi addormentare o meglio assopire. Mi pareva di dormire, ma ero cosciente di ciò che accadeva intorno.

D’un tratto avvertii in lontananza il rumore di ciottoli smossi e di passi che si avvicinavano: forse si trattava di altri bagnanti attirati pure loro dalle acque fresche del laghetto. Non mi mossi perché troppa era la fatica, persino ad aprire gli occhi. Poi, più vicino, intesi due voci.

-Alors, tu viens?

-Non, je m’arréte içi -  rispose una voce calda che faceva rotolare  la ‘erre’.

-Mais içi c’est minable; ecoute moi, on va plus haut, il-y-a una plage meilleure. - La seconda voce era più profonda e anche un po’ rauca. Non mi piaceva.

-Va ou tu veux, moi je reste.

Passi che si allontanano, rumore di sassi scostati. Poi tutto tacque.

Non mi ero nemmeno mosso durante il breve colloquio e il silenzio ristabilito mi immerse maggiormente nel sonno, Fu forse un movimento brusco o un sasso un po’ appuntito che mi si ficcò in un fianco, che mi svegliò completamente. Mi alzai a sedere aprendo gli occhi a fatica e battendo le palpebre per abituarmi alla luce. A due metri da me stava una ragazza nera di capelli, dalla faccia rotonda, con occhi marcati e profondi quali quelli di una gitana, il corpo aggraziato anche se un poco rotondetto. Indossava un costume da bagno a due pezzi, di quelli che si vedono in abbondanza sulle spiagge di Juans-les-Pins o di Saint-Tropez e se ne stava assorta nella lettura di un libro.

La conoscevo di vista Josette. Viveva a Nizza con la famiglia e ogni anno veniva d’estate a trascorrere una settimana presso i nonni, due vecchietti bizzosi e irascibili che non le perdonavano quei modi ‘parigini’, quei vestito scollati e corti che mettevano troppo in mostra le gambe e le sue forme decisamente sviluppate. Ora poi se l’avessero vista, avrebbero gridato allo scandalo e avrebbero tentato di metterci di mezzo il prete – questo era il loro chiodo fisso, la loro arma segreta – per ricondurre la nipote sulla retta via. Poveri ingenui! Avevano cieca fiducia in quel giovane prete ancora inesperto, venuto da poco dalla città, la stessa cieca fiducia che avevano avuto nel  vecchio parroco di ceppo paesano il quale, ogni mattina, dopo la prima messa, partiva per la vigna di proprietà della chiesa e zappava tutto il giorno.

-Ciao, Josette.

-Bonjour, Mariò, – disse alzando gli occhi dal libro, due occhioni rotondi, sensuali che ti si ficcavano addosso e sembravano leggerti dentro e mettere a nudo  tutti i tuoi pensieri. Nei miei poi, a quell’epoca, si poteva leggere apertamente.

Dopo quel breve saluto, non seppi più che  cosa dire. Mi aveva insegnato tante cose Giulio, ma non sapevo trovare il modo di iniziare il discorso. Ero confuso oltre ad essere impacciato. Lei no. Aveva chiuso il libro, l’aveva posto al suo fianco e si guardava attorno con noncuranza, di certo aspettando che io dicessi qualcosa. Ma che cosa? Passai velocemente in rassegna un mucchio di argomenti, ma uno mi sembrava sciatto, l’altro fuori posto o sciocco. Sarebbe stato facile dire “Bella giornata, non trovi?”, ma questa frase la trovavo completamente cretina, nonostante Giulio mi avesse detto che funziona sempre. Mi vennero in mente i miei studi; in quel tempo infatti studiavo, seppur di malavoglia, ma non tanto da non essermi formato qualche idea anche sugli autori francesi e il libro che Josette stava leggendo mi sarebbe venuto in aiuto.

-Che stai leggendo ?-  chiesi interessato.

-Un libro di Colette, Claudine va a scuola-.

Purtroppo a quel tempo non sapevo neppure chi fosse Colette.

-E’ bello?

-Sì mi piace la protagonista, specie il suo modo di pensare così moderno, così… così audace. Conosci Colette?

-No. Mi piacerebbe leggerlo.

-Se vuoi te lo presto. Ne ho ancora poche pagine.

-Grazie. - E tacqui.

Fu lei a riprendere il colloquio poco dopo

-Ma non ti annoi in questo paese? Che fai in tutto il giorno? Ti diverte questa vita?

-Beh, ci sono nato e ci abito.

-Ah, non ti invidio! Non c’è assolutamente niente, non una sala da ballo, non un cinema.

-A che servirebbe? Il paese è tanto piccolo che se anche ci fosse, proietterebbero un film alla settimana e allora tanto vale andare a Ventimiglia, per lo meno laggiù c’è da scegliere tra due o tre locali.

-E alla sera che fate?.

-Niente: si passeggia, si va sino alla segheria, quella poco fuori del paese, poi si ritorna indietro e si ricomincia, Così ogni sera.

-E ti diverte?.

-Che avrei potuto rispondere.

-Ti ho visto l’altra sera in compagnia di Giulio? Parlavate fitto, fitto: di donne, vero?-  aggiunse con un sorriso malizioso.

Arrossii, lei se ne accorse e non insistette sull’argomento, anzi voltò il capo altrove forse per non mettermi a disagio. Probabilmente si era fatta su di me un giudizio molto più chiaro di quanto non fosse il mio su di lei. Comunque le fui grato di questa premura.

Quella mia timidezza aveva però interrotto il colloquio ed io non sapevo come riallacciarlo. Avevo paura che lei se ne andasse e mi sarebbe spiaciuto. Josette mi piaceva enormemente molto più delle ragazze del paese, alcune delle quali non avevano nulla da invidiarle. Ciononostante era lei che mi attirava, lei col suo profumo francese, con quello strano modo di pronunciare il mio nome rotolando la ‘erre’ e accentuandolo in fondo, lei con quel nome così diverso dalle solite Maria, Lucia, Gilda, Rita. Il suo nome, Josette, unito alla sua figura, sapeva di morbido, di sensuale, di delizioso. Era una bella statua di carne viva, palpitante; mi stava vicina e non ardivo toccarla né sfiorarla e Dio sa se non ne avvertivo un desiderio intenso. Ma in me atto e pensiero erano due cose estranee l’una all’altra, divise da una eccessiva timidezza.

-Che ne diresti di un bagno? Io ho caldo, guarda come sudo!-  E così dicendo mi si fece vicina, troppo vicina, pericolosamente vicina. Mi alzai di scatto.

-Andiamo, - dissi - ci rinfrescheremo un po’.

La precedetti in acqua saltando da un grosso masso che fungeva da trampolino, poi mi voltai a guardarla.

Oh, non aveva fretta lei! Entrava in acqua dolcemente, lasciando che quella la coprisse la accogliesse dolcemente, a poco a poco. Mi dava l’idea che godesse della frescura che risentiva e che volesse prolungare il piacere il più a lungo possibile.

Solo ora mi chiedo se non ci fosse stato in quell’atteggiamento un secondo fine; sapeva che la guardavo e forse era di questo che godeva, forse il mio desidero l’appagava, la faceva sentire completamente donna.

Immersasi, cominciò a nuotare con calma, quasi con pigrizia. Di tanto in tanto si sdraiava sul dorso e rimaneva  immobile finché le gambe, in quell’acqua dolce, non venivano trascinate verso il fondo. Solo allora con un leggero movimento risaliva a galla. Io la guardavo stupidamente e pensavo alle sirene che, secondo gli antichi attiravano i marinai. Josette era in quel momento la mia sirena, ma non osavo avvicinarmi a lei per timore di subire qualche delusione; mi limitavo a guardarla divertirsi in quell’acqua verdastra e sonnolenta. Ad un tratto stanca di quel gioco, mi disse:

-Mariò, je suis fatiguée, lasciami appoggiare a te.

Lo disse così, con noncuranza; mi sentii avvampare, ma mi avvicinai. Mi posò una mano sulla spalla. Premendo dolcemente. Se fosse stata veramente stanca non era certo quello il modo migliore di dimostrarmelo, ma in quel momento il pensiero non mi sfiorò affatto. Sentivo il suo corpo nell’acqua sfiorarmi dolcemente, eppure quella mia maledetta inibizione mi lasciava completamente allocchito. Se ci fosse stato Giulio al mio posto, avrebbe saputo cosa fare!

-Alors, à quoi pense tu?- disse usando la sua lingua abituale, senza accorgersene.

-A te , Josette.

-Perché?

-Perché sei così… così bella.

Oh, finalmente l’avevo detto, avevo fatto il primo complimento ad una ragazza! In fondo non era così difficile come sembrava. Lei non rispose nulla, sorrise soltanto e con una bracciata si allontanò.

Nuotammo ancora un poco, poi risalimmo sull’argine per asciugarci. Mentre mi  strofinavo con l’asciugamani la testa mi ribolliva, le chiesi un po’ titubante:

-Josette, ci vediamo questa sera?

Lei sorrise di nuovo con uno strano movimento delle labbra, poi disse:

-Se vuoi. Dove?

-Alla Torre, alle otto e mezza.

-Va bene. A stasera. Au revoir. - E indossato un accappatoio, si avviò lentamente ancheggiando.

La seguii con lo sguardo finché non svoltò l’angolo di un  frantoio che sorgeva proprio in riva al fiume, a cento metri dal laghetto. Io mi fermai ancora un poco sia per farmi asciugare completamente al sole, sia per mettere a fuoco le mie idee. La sera era ancora lontana mentre avrei desiderato che le ore passassero veloci. Che avrei fatto? Che cosa le avrei detto? Lì per lì non lo sapevo. Mi sarebbe comunque stata compagna l’ombra – non per niente avevo scelto per l’appuntamento la Torre, un luogo completamente buio - e anche se fossi arrossito secondo il mio solito, lei non se ne sarebbe accorta. Dovevo, però, ora che lei era lontana e che potevo pensare tranquillamente, fare un piano d’azione, tracciarmi una linea da seguire. Lo feci  e me ne ritornai a casa.

Erano le venti quando dissi a mio padre.

-Pà, esco.

-A quest’ora! E dove vai?

-M’aspettano da Ercole per la solita partita a  ‘belote’.

-Non fare tardi: domattina dobbiamo andare nella vigna.

-D’accordo, pà. Ciao.

Una volta uscito presi una stradicciola fuori mano. Non volevo attraversare le vie del paese per non essere visto, specialmente da Giulio che avrebbe capito tutto dal mio atteggiamento.

Giunsi alla Torre in anticipo e mi sedetti su un muricciolo ad aspettare. Tutto attorno era buio, solo un vago chiarore lunare filtrava attraverso nubi di vapore e dava al paesaggio aspetti strani, contorti. In basso si sentiva il mormorio di un torrentello, ma non si vedeva nulla. Le ultime case del paese, cupe, scure, si ergevano come enormi massi granitici. Qua e là si intravedevano, attraverso le occhiaie delle finestre, luci tremolanti. In un altro momento quel buio mi avrebbe dato fastidio, ma non quella sera; il pensiero di Josette era troppo forte perché altri lo sommergessero.

Mi accorsi ad un tratto che la mezza era già suonata da un  pezzo e lei non si era vista. Che se ne fosse dimenticata? Non volevo crederlo. Forse la nonna l’aveva trattenuta. Era probabile. Conoscevo bene la nonna di Josette, una vecchietta piccola, bisbetica che non vedeva oltre quella morale spicciola, ridotta, ristretta che era una eredità della loro  famiglia, tramandata di generazione in generazione insieme alla casa e alle terre. Di certo era stata lei a trattenere la nipote in casa più del solito e chissà se la ragazza sarebbe riuscita a raggiungermi. Decisi, comunque, di aspettare ancora e finalmente avvertii un suono di passi, ma anche un suono di voci.

Preso alla sprovvista, saltai oltre un muricciolo e rimasi nascosto tra l’erba.

-E se fosse venuto?- disse una voce. Era quella di Josette.

-Ma figurati, sono rimasto davanti alla chiesa sino alla mezza e non l’ho visto. Avrebbe dovuto passare davanti a me per venire qui; no sta tranquilla, non c’è. Lo conosco bene Mario. E’ un timido e mi stupisco che ti abbia dato un appuntamento. Però! Si sta emancipando il pivello!

Giulio, l’inconfondibile voce di Giulio. Non se ne lasciava scappare una!

Che dovevo fare? Uscire allo scoperto? Sarebbe stato sciocco, avrei fatto una ben misera figura. Dargliela vinta? Pur con una rabbia maledetta in corpo, presi la decisione di rimanere acquattato  dietro il muretto. Intanto i due, a braccetto erano passati oltre e le loro voci si erano perse nella notte.

Ritornai a casa ripercorrendo la stessa  stradicciola per la quale ero venuto, ponendomi domande su domande. Perché Josette aveva agito così? Che cosa avevo detto o fatto per indurla ad accettare la compagnia di un  altro? Non me lo spiegai. Con Giulio non ce l’avevo: non si accusa il maestro, ma lo si ammira quando dà un saggio della sua arte e quella sera, senza saperlo, mi aveva dimostrato con la sua presenza che si può far cambiare molto facilmente parere ad una donna, purché se ne conosca il modo. Mi preoccupavo anche di come comportarmi, l’indomani, di fronte ai due, ma fu più facile di quanto pensassi.

Incontrai prima Giulio il quale, logicamente, non disse nulla, né avrebbe potuto  farlo. Io parlai d’altro.

Con Josette, almeno per me, fu un po’ più difficile. La incontrai in piazza mentre usciva da un  negozio, mi salutò, poi attese che fossi io a parlare. Mi scusai per non essere andato all’appuntamento e quella ebbe l’impudenza di rimproverarmi, con dolcezza, ma lo fece. Ingoiai la beffa dopo il danno e per la prima volta  mi accorsi di essere un ipocrita. Oh, non solo io, anche Giulio, anche Josette lo erano! Si comincia presto nella vita a conoscere e ad usar l’ipocrisia per nascondere i nostri difetti, le nostre debolezze, i nostri in successi.

Da quell’estate sono passati dieci anni prima che rivedessi Josette.

 

 Non la riconobbi tanto era ingrassata. L’accompagnava la nonna e un uomo dalla pelle molto scura, suo marito, figlio di un esportatore africano di banane che aveva conosciuto sulla Costa Azzurra. Avevano già una bimbetta di due anni e fu lei che con  quegli occhi neri, profondi, resi ancor più accentuati dal colore olivastro della pelle, a ricordarmi la madre, la Josette del Lago della Madonna.

L’unica a non essere mutata, almeno nelle idee, era la nonna più vecchia, più decrepita, più cascante di prima.

Ora alle preoccupazioni che la nipote le aveva dato in  passato e che forse continuava a darle, si aggiungeva un riposto timore verso quell’uomo strano, verso quel marito di colore che, nel guardarlo la costringeva di tanto in tanto a farsi il segno della croce.