Da tempo pensavo di invitare a varcare la soglia del mio Salotto letterario l’amico Felice Pozzo, conosciuto quando mi occupavo della Biblioteca De Amicis. Oggi, a distanza di tanto tempo rimpiango di non averlo incontrato quando, nel lontano 1971, la DEA fu inaugurata  con una mostra di cimeli degli eredi di Salgari.

 Senza conoscerci Felice ed io avevamo un comune una “amore  letterario” per il padre dei pirati della Malesia, dei corsari delle Bermude, degli indiani dello sterminato West, dei molteplici  esploratori  e avventurieri che popolano le pagine dei suoi romanzi. Il mio lavoro consisteva nell’alimentare nei giovani che frequentavano la DEA l’amore per il libro attraverso gli autori che avevo amato nella mia infanzia e che, ne ero certo, avrebbero interessato anche  la generazione che venne dopo di me. Felice, invece, con una pervicacia da certosino, si dilettò a scendere nel particolare analizzando la genesi, lo sviluppo, la crescita delle opere salgariane, ricercando notizie e curiosità. Oggi lo ringrazio per l’ultima “chicca” che mi ha inviato. E non solo per aver riacceso lo spirito dell’avventura che in ognuno di noi non muore mai, neppure se ha varcato la soglia degli ottanta. Ma anche perché è entrato nel Salotto presentandosi un biglietto su cui è scritta una parola che fa parte dei miei  hobby preferiti: quello dell’enigmistica e offrendomi del nostro Salgari un aspetto nuovo della sua opera.

 

 

UN POEMA E UN ENIGMISTA PER GLI ORFANI DI EMILIO SALGARI

 

Il Re della Montagna (1895) è senza dubbio uno dei romanzi di Emilio Salgari che può vantare una importante fortuna editoriale, pari quasi a quella dei suoi capolavori. Ottenne infatti un successo enorme e immediato e persino lusinghiere recensioni, circostanza non sempre scontata per Salgari, purtroppo.

Su “L'Italia Reale – Corriere Nazionale” del 9 maggio 1895, ad esempio, si legge:

Lo svolgimento dell'azione che si fa leggere, come suol dirsi, tutto d'un fiato, ha luogo nel regno di Persia e si intreccia con alcuni fatti storici, dando occasione all'erudito autore di descrivere gli usi, i costumi di un paese così ricco e meraviglioso e così da noi poco conosciuto.

La circostanza segnalata in quella recensione non è trascurabile, tanto più che si pone alle radici dell'intera opera salgariana, apprezzata, tra l'altro, appunto perché ha saputo portare nelle case degli italiani l'intero globo terracqueo quando era molto problematico conoscerlo altrimenti.

La Persia, in quel fine Ottocento (e non solo) rievocava i motivi fiabeschi delle Mille e una notte, mentre Salgari si era documentato a dovere, come sempre, così da poter descrivere Teheran nei minimi particolari e poi l'abbigliamento, le abitudini, le usanze, il folclore dei Persiani.

Gli Speirani, editori torinesi del fortunato romanzo, dopo averne annunciato la pubblicazione su “Il Novelliere Illustrato” del 30 dicembre 1894, non lesinarono segnalazioni sui loro periodici e ribadirono questo aspetto accendendo la curiosità dei lettori di ogni età. Si legge, ancora su “Il Novelliere Illustrato” del 21 aprile 1895:

Il sottotitolo di romanzo persiano apposto da Salgari al suo nuovo volume giustifica e spiega certi ardimenti di situazioni che nella civiltà europea avrebbero dell'inverosimile e gli porge modo a gustose descrizioni di usi e costumi pressoché ignorati.

Ho già illustrato altrove le seduzioni di questo romanzo[1] che, pochi mesi dopo la pubblicazione, e precisamente nell'agosto del 1895, ottenne una seconda edizione, cui seguì la terza nel 1896, la quarta nel 1897, la quinta nel 1898 e così ogni anno sino al 1901; nel 1903 si pubblicò la nona edizione e poi ancora una ogni anno sino alla dodicesima nel 1906, quando l'opera fu ceduta ad altro editore[2] e poi ad altri ancora, per iniziare una rinnovata, frenetica sequenza di riedizioni per lungo tempo.

Sicuramente trapela da quelle pagine anche un po' di amore paterno. Quando scrisse Il Re della Montagna Salgari aveva due figli: Fathima, nata a Verona l'8 novembre 1892[3] e Nadir, nato a Torino il 18 gennaio 1894. Sono i nomi dei due protagonisti del romanzo: Nadir è appunto “il Re della Montagna” e Fathima, giovanissima fanciulla, ingenua, timida e dolce, vale a dire assolutamente priva delle sfumature erotiche che contraddistinguono numerosi altri personaggi femminili salgariani, è la sua innamorata.

Questa premessa è per motivare in qualche modo la scelta di un dimenticato autore, proclamatosi “amico” di Salgari, che da Il Re della Montagna trasse un poema drammatico e lo diede alle stampe a beneficio degli orfani dello scrittore.

L'avvenimento è tra i meno noti ed è perciò tale da destare curiosità, anche se Salgari non viveva più. L'amicizia proclamata potrebbe anche essere una millanteria – come dirò dopo- ma è in ogni caso interessante approfondire le cose e fare la conoscenza con l'autore del poema.

Si tratta di Carlo Galeno Costi e l'opera in trattazione, pubblicata nel 1912 dalla Tipografia degli Operai – Società Anonima Cooperativa di Venezia, ha per titolo Il Re della Montagna – Poema drammatico in 4 atti, tratto dal romanzo omonimo di Emilio Salgari e reca, sia in copertina che sul frontespizio, la dicitura Prima edizione straordinaria a beneficio degli Orfani Salgari.

Conta 152 pagine e fu posta in vendita al prezzo di lire 2,50. Non ebbe, che si sappia e fino a prova contraria, altre edizioni né le rappresentazioni teatrali che l'autore auspicava.

Il Costi pubblicò una lunga dedica a stampa e una non breve Prefazione. Trascrivo entrambe, per completezza. La dedica, datata “XXV aprile MCMXII”, è la seguente:

Alla memoria d/ EMILIO SALGARI che la sorgente intellettica della fantasia/ nelle menti giovanili/ per l'amore dello studio trasfuse/ nel primo anniversario dalla tragica fine/ come tributo di affetto e conforto/ fra i solchi profondi di caduca materia/ per gli orfani derelitti/ al loro dolore ineffabile/ che il volgere degli eventi non affievolisce/ con pietoso rimpianto/ auspice il venerato ricordo.

Pomposa, per la verità, specie per un lettore di oggi. Occorre però sapere che Costi era un poeta e soprattutto uno che per mestiere giocava con le parole allo scopo di inserirvi messaggi nascosti, come vedremo. Non so se ve ne siano in questa dedica e, dico subito, se ve ne siano nei quattro atti del dramma, perché non sono un esperto in materia. Dico subito, anche, che non mi addentrerò nel commento del dramma, ritenendo sufficiente la Prefazione dell'autore, per quanto intrisa di quella leggenda che all'epoca era molto diffusa (Salgari che sfida la morte durante i suoi viaggi!!) e piena di retorica, per non dire della prosa antiquata. A questo proposito è interessante notare quanto più attuale, nei limiti consentiti, fosse stata la prosa salgariana nei lustri precedenti.

E la Prefazione è questa:

Con questo dramma non intendo di presentare al pubblico un'opera veramente letteraria, né teatrale nel più chiaro senso della parola. La composizione in versi semplici e piani, ho preferito pel mio lavoro; così pure, per lo svolgimento dell'azione scenica, la semplicità e naturalezza, che scaturiscono evidenti da tutto il romanzo omonimo di Emilio Salgari.

L'opera di moltissimi anni, spesa unicamente per il bene educativo di un'intera generazione, costretta e sacrificata – per il pane- a solo vantaggio degli altri; la fama universale, che attorno a quest'opera d'intelletto prodigiosa si era formata; la tragica fine dello sventurato Salgari, fanno melanconicamente riflettere come sieno ben poca cosa anche la forma più fine di parola, o di verso, e l'iniziativa di questo, o quello, per rendere adeguato onore a chi tanto ha scritto ed è caduto vittima dello stesso suo lavoro.

Emilio Salgari, l'autore di cento e più romanzi che hanno formato e formano ancor oggi la gioja della gioventù; l'ideatore di mille terribili imprese, di mille sensazionali avventure, che ai più sembrerebbero inverosimili, se egli medesimo non ne fosse stato- in parecchie- l'audace protagonista; l'uomo dall'animo aperto e mite, avea sfidato più volte la morte; l'aveva cercata nel cimento insano, colla fierezza del forte, ma l'uomo eccezionalmente forte di coraggio e volontà, non aveva saputo resistere ai dolori morali d'una vita travagliata.

La pazzia della diletta compagna diede il tracollo all'anima ormai sanguinante e, perduto l'ultimo guizzo di luce all'inaridito cervello, estenuato, scoraggiato, travolto, per di più, agli ultimi momenti, nella tempesta di una torbida miseria, volle sopprimere sé stesso piuttosto che continuare per quella strada dalla quale non sapeva che escire che stremato e vinto.

E lo seguì il compianto generale, ma quello dell'innumere schiera de' suoi piccoli ammiratori, i quali- pure in mezzo alle futilezze della vita- avevano attinto alla limpida sorgente, fatta nuova palestra di studio e serena ricreazione, delle opere del popolare romanziere. Il povero Salgari ha chiuso così la sua pagina di dolore; si è spento dimenticato, forse, dai più, sovratutto da chi gli aveva destinato l'eredità di una condizione meschina, a prezzo avvilente del suo fecondo ingegno e del suo indefesso lavoro. Ma tronco un argomento, che sarebbe troppo doloroso, e torno a' miei passi.

La tenue trama del romanzo Il Re della Montagna , le sue situazioni talora impetuose, tragiche, talora ingenue e soffuse di un profumo sentimentale, ma passeggiero, come una meteora, qua e là fiero e selvaggio, m'obbligarono a non iscostarmi troppo da loro, da non imprimere al dramma una forma diversa dal chiaro concetto del romanzo.

Direi, anzi, che – in molti punti- volli attenermi alla lettera, alle medesime frasi del Salgari, ma il proposito di rimanere in istretta correlazione con tutto il romanzo, mi suggerì tuttavia l'inclusione (poco importante del resto) di un personaggio non citato dallo scrittore, anche per aprire convenientemente il secondo atto senza soliloqui, mezzi troppo vieti e vecchi pel teatro moderno.

Se il poema avrà il battesimo sulle scene col giudizio benevolo del pubblico, avrò la grande soddisfazione di non aver perduto inutilmente il mio tempo e d'essere stato anch'io di qualche ajuto agli orfani di Emilio Salgari, pei quali esclusivamente l'ho scritto e pubblicato.

Intanto, fin d'ora, sarà da me devoluto a beneficio loro il ricavato dalla vendita della prima straordinaria edizione, cedendo pure i diritti d'autore che mi spettassero, per le prime venti rappresentazioni del Poema in Italia.

Questo mi suggerisce il cuore e col cuore offro, per la memoria dello sventurato romanziere ed amico e per quel po' di conforto, che non abbandonerà- sia pur brevemente- i derelitti suoi figli, sapendosi ricordati.

 

L'iniziativa si aggiunge a quelle, numerose, che furono realizzate dopo la morte del papà di Sandokan. Ricordiamo le trasparenti raccolte di offerte tra i lettori organizzate da molti giornali, ma anche la meno trasparente (nel senso che non ne conosciamo l'esito) e repentina pubblicazione di opere salgariane effettuata da personaggi non entusiasmanti quali Antonio G. Quattrini, anch'essa a favore degli orfani Salgari.

In questo caso, invece, si assiste ad una utilizzazione di romanzo salgariano, che già solo per questo avrebbe dovuto comportare un pagamento agli eredi. Purtroppo non sappiamo se ciò avvenne – nessuno, tanto meno Costi, ne ha fatto cenno- né (anche in questo caso) conosciamo l'esito, in tutti i sensi, dell'iniziativa. Può anche darsi che Costi, così come pubblicizzò  la sua opera, abbia poi resa pubblica allo stesso modo la donazione del ricavato agli orfani, ma non sono ancora riuscito a trovare nulla in proposito.

Ed è ora di conoscere Carlo Galeno Costi. Devo premettere che non mi è stato facile, di primo acchito, ottenere notizie su di lui. Ancora nel 1999 non avevo che la notizia, gentilmente fornitami da Stefania Rossi Minutelli dell'Ufficio informazioni bibliografiche della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, circa due altre sue opere. E precisamente di opere in versi: Muse moderne (Venezia 1903) e Marcella, canti d'amore (Venezia 1904). Solo recentemente ho rintracciato su una rivista del maggio 2003 (“Penombra”) un “asterisco d'annata” a firma “Zoroastro” in cui si legge quanto segue:

Carlo Galeno Costi (La Fata delle tenebre), prendendo spunto dalla morte della Cartolina enimmistica, inviò a tutti gli appassionati un foglio che annunciava per il 15 gennaio 1914 la nascita de La Sfinge ligure[4], definendola molto simile alla defunta e redatta con “criteri intesi principalmente a incoraggiare quelli che muovono i primi passi nel campo di Edipo”. Peccato che il promesso mensile non vide mai la luce.

Avevo dunque a che fare con un enigmista! Siccome ho il privilegio di conoscere ben tre  illustri enigmisti, ho scritto loro in contemporanea per chiedere lumi ed in breve tempo ho ottenuto tutte le notizie che cercavo, tanto più che uno di loro mi ha messo in contatto con un quarto. 

Carlo Galeno Costi, nato e morto (prematuramente) a Venezia (1885-1923), è stato attivissimo collaboratore di riviste di enigmistica quali la suddetta “Cartolina enimmistica”, la “Corte di Salomone”, la “Palestra Enigmistica”, “Gymnasium”, nonché curatore di rubriche di enigmistica su importanti periodici quali “L'Illustrazione Italiana” e “Il Secolo Illustrato della domenica”[5].

Ha effettuato questa attività (tranne che sull'ultimo giornale citato) usando diversi pseudonimi (come è d'uso in enigmistica), eccentricamente tutti femminili: Con. Clelia Sorgato (evidente anagramma), La Fata Arancina, La Fata delle Tenebre, Piccarda, Principessa di Cambaia.

Illustri enigmisti del passato e studiosi enigmografi, quali Tolosani e Santi, non ne ebbero stima, ma secondo un altrettanto illustre enigmista del presente, Franco Bosio- il cui giudizio è importante- “presenta prove valide per l'epoca, sia nel campo poetico sia nel campo crittografico”, che sono le due sezioni principali dell'enigmistica classica italiana.

Ed è proprio sulla “Cartolina enimmistica” che, in quel 1912, è possibile rintracciare la seguente anticipazione, contenuta nella rubrica “Nuove pubblicazioni” a cura del direttore Giulio Zangarini:

Il collega nostro Carlo Galeno Costi, l'inesauribile scrittore che nelle principali riviste dell'arte enimmistica dedica da tanti anni il suo fecondo contributo, al 20 di aprile darà alla luce un Poema drammatico, Il Re della Montagna, tolto dal noto romanzo omonimo dell'infelice Cap. Emilio Salgari, miseramente suicidatosi lo scorso anno a Torino.

Vivissima è l'attesa per questo nuovo lavoro, che il Costi ha scritto unicamente pei figli del defunto romanziere ed ai quali egli, con intento nobilissimo, devolverà a beneficio il ricavato netto della vendita del suo volume e i diritti d'autore per le rappresentazioni del precitato poema sulla scena.

I più importanti giornali hanno già parlato molto benevolmente dell'iniziativa di Galeno Costi. Noi, quantunque alieni dal destinare lo spazio ristretto della Cartolina per qualsiasi avvenimento, lieto o triste e di indole affatto diversa da quella del nostro periodico, pure desideriamo fare uno strappo alla massima nostra, appunto perché tale iniziativa è intesa ad uno scopo filantropico e siamo sicuri avrà il successo che si merita la fama del giovane autore[6].

Del lavoro se ne dice molto bene, sia come fattura poetica, essendo il dramma in endecasillabi sonanti, sia come fattura teatrale. L'azione è in quattro atti e un intermezzo e si svolge fra il lusso e le bellezze orientali della corte di Teheran.

Intanto, lieti di annunciare pure noi questa pubblicazione, avvertiamo che l'edizione del Poema è quasi tutta prenotata e che, per le poche copie ancora disponibili, i nostri assidui potranno mandare la loro adesione allo stesso autore (Venezia, Palazzo Falier, 2908)[7].

A proposito di enigmi, rimane quello relativo alla conclamata amicizia con Salgari. Considerata la differenza di età (oltre vent'anni), riesce difficile immaginarla, anche se è possibile, naturalmente. Mi vengono piuttosto in mente quei tanti giovani appassionati lettori di romanzi avventurosi, alcuni divenuti noti, che ebbero qualche contatto con lui, magari epistolare, e che perciò si sentirono autorizzati a definirsi “amici”. Me ne sono occupato diffusamente in passato: ricordo ad esempio Augusto Piccioni (1874-1926), Americo Greco (1888-1948), Emilio Fancelli (1892-1971) e altri.

Né si può pensare a Salgari appassionato di enigmistica, salvo prova contraria, per quanto si tratti di un'arte estremamente affascinante, tale ad esempio da coinvolgere non poco Jules Verne, che si è sbizzarrito nella sua opera[8]. Per non dire di numerosissimi altri importanti scrittori, e per rimanere in qualche modo nei dintorni salgariani va citato almeno Victor Hugo, con i suoi numerosi giochi di parole contenuti, tra l'altro, in Notre-Dame de Paris (1831)[9]. Se citiamo quest'opera è perché vi si rintraccia nel primo capitolo la descrizione di lazzi e sberleffi da parte di studenti al loro rettore, e sono pagine che ricordano molto da vicino quelle della Bohème salgariana di cui stiamo per occuparci brevemente, dove i bohèmiens di turno se la prendono con il frate che li costringe a lavorare lesinando vino e tabacco. Anche l'uso del latino maccheronico usato dagli scherzosi ed esuberanti  contestatori è rintracciabile in entrambi i romanzi.  

Non so se esiste uno studio riferito all'enigmistica nella letteratura; certo è che l'argomento si presenta particolarmente intrigante.

Conosco solo, invece, un paio di incursioni di Salgari nel settore, entrambe contenute nel giocoso romanzo autobiografico La Bohème Italiana (1909). Vi troviamo infatti un anagramma (Alfonso che diventa Falnoso) e un calembour (“Mi guardi e non favelli” che diventa “Mi favi e non guardelli”). Magari, a cercare meglio, chissà che non salti fuori altro.

In compenso qualche enigmista del presente si è occupato di Salgari. Ad esempio in Anagrammi e giochi di parole (Oscar Giochi, Mondadori, 1989) Francesco Adami e Roberto Lorenzoni hanno anagrammato Emilio Salgari in “gloriai malesi”. Nel novembre 2011 Marino Cassini[10] , amico carissimo da lunga data, me ne ha comunicato uno oserei dire su misura: “simile a gloria”, facendo un triplo salto mortale, se posso usare questa espressione. Si tratta infatti di un omen-nomen che inquadra bene tutta l'opera salgariana ed è contemporaneamente un accenno a chi scrive (mia figlia si chiama Gloria), nonché all'amore che nutro sia per mia figlia che per Salgari: due sfumature diverse, ma sempre amore è.  Va da sé che si tratta di un bell'anagramma in ogni caso, indipendentemente dagli intenti amichevoli.

Lo stesso Cassini, che naturalmente è anche un appassionato di Salgari, ha inventato e pubblicato in due suoi volumi alcuni rebus che, risolti, diventano titoli di romanzi di Salgari: I pescatori di balene[11], Il tesoro del presidente del Paraguay[12] e I naufragatori dell'Oregon[13]  e poi ancora Il tesoro del presidente del Paraguay, ma con rebus modificato[14] , e Cartagine in fiamme[15].

Chissà cos'altro c'è in circolazione, al riguardo?

 

 Ringraziamenti: Esprimo tutta la mia gratitudine ai noti enigmisti Franco Bosio, Antonio Cadoni, Marino Cassini e Franco Diotallevi (in arte Tiberino) che hanno reso possibile la stesura di questo articolo, in men che si dica, dopo anni di mie vane ricerche. A loro devo infatti tutte le notizie biografiche riferite a Carlo Galeno Costi e inerenti la sua attività di enigmista. Ringrazio ancora Marino Cassini per avermi fornito i libri contenenti i suoi rebus salgariani e per l'anagramma citato.

 

Felice POZZO

 


[1]  Felice POZZO, L'officina segreta di  Emilio Salgari, Vercelli, Mercurio, 2006, pp. 16- 22.

[2]  Fu acquistata dai fratelli Quattrini che la pubblicarono con la sigla editoriale “Roma di Como”. Vivente Salgari fu ancora pubblicato a più riprese dalla Società Editrice Milanese. Secondo la bibliografia di Vittorio Sarti, nel 1921 fu pubblicato contemporaneamente da tre editori diversi: la Gloriosa di Milano, Ghelfi di Piacenza e Celli di Milano. Stessa situazione nel 1922: Ghelfi di Piacenza (ristampa), Bietti di Milano e Quattrini di Firenze (che dunque, qui con nuova sigla editoriale, ne effettuava ristampe dal 1906!).  Arriveranno poi Sonzogno (1925) e avanti ancora sino a Carroccio e Corbaccio (entrambi 1945) con ristampe a tamburo battente per decenni. La cessione in contemporanea a editori diversi lascia perplessi, ma sarebbe interessante poter quantificare il guadagno complessivo che fruttò a tanti editori solo questo romanzo, che Salgari, a suo tempo, cedette per poche lire e che solo intorno al 1928, salvo errori, poté tornare di proprietà degli eredi del romanziere.  E non si comprende come, ancora oggi, si possa affermare che Salgari era ben pagato.

[3]  E' sempre stato impossibile rintracciare questa data (giorno e mese, voglio dire) nella pubblicistica e saggistica salgariana, così da far nascere sospetti sul concepimento della primogenita, visto che un tempo i rapporti prematrimoniali erano guardati con  deplorevole bigotteria.  E' bastata, ovviamente, una visita agli uffici anagrafici per togliere ogni dubbio. Salgari si è sposato il 30 gennaio 1892. La data completa compare  dunque nella Cronologia/Bibliografia, compilata da chi scrive con Franca Viglongo, in calce al volume di Arpino e Antonetto Emilio Salgari il padre degli eroi, Torino, Viglongo, 2010, pag. 178. E' stato durante quella ricerca anagrafica a Torino che ho appurato come il nome sia registrato con la “th” (salvo errori del compilatore comunale) e da allora mi sono uniformato, dopo aver scritto anch'io “Fatima” numerose volte.  Resta il dubbio sulla pronuncia, visto che Omar Salgari, nelle registrazioni filmate che si conoscono, pone sempre l'accento sulla “i” anziché sulla prima “a” come facciamo tutti.

[4]  Benchè residente a Venezia, dove abitava in Palazzo Falier 2908, Costi aveva evidentemente frequentazioni liguri, tant'è che risulta anche un suo recapito in Via Carlo Alberto, 135 R. a Genova.

[5]  La sua collaborazione a questo importante settimanale edito a Milano da Sonzogno è l'unica scoperta, del tutto casuale, che ho poi effettuata personalmente e l'unica che non risultava dalle notizie ottenute.  La scoperta, d'altronde, mi è stata possibile perché Costi ha firmato (nel 1907) la sua rubrica con le esatte generalità.

[6]  Costi aveva 27 anni,

[7]  Devo copia di questo testo a Franco Diotallevi.

[8] Cito soltanto due casi , peraltro piuttosto noti, riferiti a suoi personaggi: Ardan è anagramma di Nadar, pseudonimo di Félix Tournachon, amico di Verne, mentre Servadac è la parola “cadavres” scritta al contrario. Michel Ardan compare in De la terre à la lune (1865) e in Autour de la lune (1869) ed Hector Servadac è il protagonista dell'omonimo romanzo (1877). Anche il suo nome, Hector, è anagramma di “torche”.

[9]  Hugo cita ad es. un gioco verbale con costruzione chiastica basato sui termini “mur murante” (riferito a un muro) e “murmurant” (mormorante), oppure “vieille science” che si pronuncia come “viellie scie anse” che rende l'idea di una vecchia che sega un'ansa. E via dicendo.

[10 Cfr. Marino Cassini – Scrittore per ragazzi, animatore, critico e saggista, a cura di Angelo Nobile, Collana Biografie, Napoli, Liguori, 2011,

[11 Marino CASSINI, Giocare con Edipo – L'enigmistica a casa, a scuola e in biblioteca,  Genova-Recco, Le Mani, 2002, pag. 84.

[12]  Ivi, pag. 88.

[13]  Marino CASSINI, Edo. Sfida alla De Amicis, con illustrazioni di Lucrezia Giarratana, Genova, Erga Edizioni, 2010, pag. 28.

[14]  Ivi, pag. 38.

[15]  Ivi, pag. 51.