PARTE QUARTA

 

La tradizione e i racconti

                                                                                                                

Quando si parla della Val Nervia, quel lembo di terra che si estende da Ventimiglia alle falde del monte Toraggio, si è soliti citare i borghi di Dolceacqua, di Apricale, di Pigna, dimenticando quasi sempre Isolabona,

Isolabona è un  borgo medievale  nato probabilmente intorno all'anno 1000. Il primo riferimento 'databile' si ricava da un documento del vicino comune di Apricale risalente al 1220, nel quale  veniva definito col  toponimo di Castellum. Più sicuro è, invece, il documento del 3 gennaio del 1287 in cui Isolabona legò, temporaneamente, le sue sorti al comune di Apricale.

Il borgo, sorto alla confluenza di due torrenti, il Nervia e il Merdanzo, nome che tanto piacque a Italo Calvino da eleggerlo a torrente personale di un suo famoso personaggio, quel Cosimo di Rondò, protagonista di Il Barone rampante, ha maturato nel corso dei secoli tradizioni che si sono tramandate sino ai primi decenni del Novecento per poi perdere vitalità e rimanere solo come ricordo nella memoria di qualche vecchio.

Radici che, dal punto di vista folkloristico si sono spezzate e, forse, non si annoderanno mai più, ma delle quali è pur sempre possibile salvarne almeno il ricordo attraverso l’uso della penna. Di molte ormai si sono perse le tracce, ma cinque  di esse possono ancora essere ricostruite sul filo della memoria.

Mi riferisco alla singolare manifestazione legata alle seconde nozze (ciaravügliu); alla particolare processione del Giovedì Santo; a quella ancor più singolare di San Sebastiano; alla strana tradizione del primo giorno di Quaresima, conosciuta col nome di scürotu e ad una tradizione, peraltro comune a tutti i paesi della valle, nata dopo l’annessione della Liguria al Regno Sardo e oggi totalmente scomparsa, conosciuta sotto il nome di “andä a tirää”.

Di queste cinque tradizioni forse la prima, quella legata alle seconde nozze, può considerarsi ancora vitale, sebbene per la sua sporadicità e con l’introduzione del divorzio tende sempre più a sbiadire nella mente degli  isolesi.  

Le altre quattro sono state completamente dimenticate: un oblio che, quale figlio di quella valle, non mi sento di avallare Quindi, è mio intendimento richiamarle alla memoria in un modo del  tutto particolare: innanzitutto dando  per ognuna di esse,  e per  quanto sia possibile, una spiegazione logico-storica circa la sua  genesi e, poi, dedicandole  un racconto (di sapore umoristico)   che  ruoti  attorno  a quel pezzo di folklore dimenticato.

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                U CIARAVÜGLIU

  

Se è vero quanto scrive Tacito a proposito dei Germani e cioè che presso quel popolo solamente le vergini si sposavano e una sola volta si compiva la speranza e il desiderio di maritarsi  (De Germania, cap. XIX), dobbiamo ammettere che anche presso i Liguri, seppur a distanza di tempo, tale legge ha avuto una parte preponderante nell'ambito dell'istituto familiare se, ancor oggi, in alcuni paesi si riscontra l'avversione per le seconde nozze.

Lo sfavore per le seconde nozze trova analogie in altre parti d'Italia e anche in altre parti del mondo. Presso le caste indiane dei Kurmis e dei Bant, ad esempio, le vedove che si risposavano perdevano diversi diritti tra cui quello di assistere alle cerimonie religiose. Una ragione di tale comportamento è forse da ricercarsi nel sentimento religioso che vede nei binubi degli “adulteri speciosi". Fortunatamente la legge mosaica della lapidazione per adulterio è  caduta in disuso ed è stata sostituita da una azione  giudiziale-pubblica che si conclude invariabilmente con una elargizione da parte dei due sposi di un quid in natura (vino, cibarie, leccornie...) quasi a risarcimento di un ipotetico  danno morale alla società.

Come tale uso si sia diffuso nella Liguria occidentale è assai problematico precisarlo; con ogni probabilità fu importato nel Medioevo da qualche  Albigese buontempone al quale non andavano affatto a genio le teorie manichee dei catari-patari molto affini a quelle dei Germani descritti da Tacito. 

Nella Val Nervia questa azione giudiziale-pubblica prende il nome di "ciaravüglio", un nome, direbbe Manzoni, eteroclito e bisbetico, la cui etimologia si può far risalire al francese  “charivari", che, a sua volta, come sostiene Van Gennep nel suo Manuel de folklore français, potrebbe etimologicamente risalire al  greco 'carà (testa) e 'barùs' (frastornato) cioè 'stordimento mentale provocato da frastuono'. E, per la verità, durante il 'ciaravügliu' di frastuono ce n'è parecchio.

Tutta l'operazione avveniva la sera stessa delle nozze oppure al ritorno dal tradizionale viaggio, poco dopo l'imbrunire.

Mentre le finestre di fronte o adiacenti a quelle della casa  degli sposi si riempivano di gente schiamazzante, sulla piazza principale del paese si formava un corteo, capeggiato da un banditore, u gran ciaravüglièè, cui era demandato il compito di leggere agli sposi l'accusa (il bimatrimonio per uno di essi o raramente, per entrambi),  la sentenza (la fase interlocutoria del processo era inutile perché la prova era palese)  e di specificare la pena che consisteva in una pubblica distribuzione di vino, cibarie, biscotti  e focaccia. Per dare più solennità alla cerimonia il gran ciaravüglièè, parato a festa, si presentava a dorso di un mulo o di un asino essi pure bardati con gualdrappe.  Al suo seguito uomini, donne, giovani e ragazzi armati di campanacci, padelle teglie, cembali, tamburi, trombe, barattoli vuoti e altri arnesi rumorosi con i quali davano vita ad un baccano infernale dirigendosi sotto le finestre degli sposi. Lì giunti, veniva letta la sentenza e veniva pattuita con lo sposo l'entità della condanna. Nella maggior parte dei casi le condanne venivano subito scontate, poiché i due sposi facevano buon viso a cattivo gioco; altre volte, invece, le finestre rimanevano ostinatamente  chiuse, nonostante il frastuono crescesse. Se nulla veniva concesso, a mezzanotte tutto cessava per riprendere la sera appresso con clamori ancor  più ampi e con un aumento delle pene da pagare.

Non c’era via di scampo: la manifestazione cessava  solo quando  gli sposi concedevano al paese quanto veniva loro chiesto. Solo allora tutto si acquietava quasi d'incanto; il frastuono cessava e con esso cessavano anche i canti 'di fescennini  ricordi’.

Gli ultimi ciaravügli di cui si ha notizia sono quelli di una coppia di due vedovi e di un cittadino di Dolceacqua  la cui  vicenda finì persino  sui giornali locali. Il vedovo si rifiutò per alcune serate di 'pagare' l'ammenda, ma alla fine dovette cedere e offrì i frutti del suo lavoro a tutti gli intervenuti. Poiché  si trattava del farmacista, l’offerta consistette in emetici e lassativi, olio di fegato di merluzzo e supposte varie. L’offerta fu, ovviamente, respinta. Il farmacista ricorse allora ad un cavillo legale. Essendo divorziato e non vedovo, come prescriveva la tradizione, non riteneva che gli si dovesse fare il ciaravügliu, essendo questo limitato ai soli vedovi o vedove. La vicenda tra il divertimento generale andò avanti per alcuni giorni. Alla fine dovette piegarsi alle esigenze della tradizione.

 

Se nei paesi e nelle borgate liguri il processo popolare si risolveva in un simposio all’aperto, nella città di Nizza, nel 1600, il Comune pensò di tassare addirittura i vedovi e le vedove che si risposavano.

Nell’Archivio comunale della città esiste un regolamento della locale polizia risalente all’8 giugno 1614 il quale disciplina la materia in occasione di feste popolari come il carnevale e altre feste o manifestazioni casuali che si verificavano durante l’anno.  Il regolamento è riportato per esteso in un protocollo del Notaio Maria-Aureliano Milonis di Nizza. Nel documento si precisa che  per ordine dei Consoli venivano nominate quattro classi di Priori e Abbati incaricati di vegliare sul buon ordine cittadino, sia in città che nei paesi, in occasione di feste, danze, nozze e festini. Esisteva, quindi, una classe di tutori per la nobiltà, una per la borghesia, una per gli artigiani e una per la plebe.

A proposito del ciaravügliu (chiamato  nel documento notarile charivari) si legge:

“Il diritto del charivari è così fissato:  Il nobile che passi a seconde nozze pagherà agli Abbati  quattro scudi d’oro; per la dispensa dal charivari un borghese ne pagherà tre; un artigiano due; un operaio o un paesano uno.  Le vedove che sposino un giovanotto sono sottoposte allo stesso pagamento.

Se i due sposi sono entrambi vedovi, il pagamento sarà raddoppiato; in caso di rifiuto gli Abbati di ogni classe sono autorizzati, col permesso del Governatore e dei Consoli, ad effettuare il charivari per tre giorni consecutivi, controllando affinché non si verifichi alcun disordine.

Ogni straniero che sposi una signorina, o una vedova, della città o del paese, non potrà condurre con sé la moglie senza avvertire, tre giorni prima della partenza,  gli Abbati della classe alla quale appartiene, affinché questi provvedano a far accompagnare gli sposi con gli onori dovuti,  In tal caso gli Abbati radunano la gioventù e nel giorno indicato, in abiti festivi, muniti di strumenti, si recano presso la casa dove alloggiano gli sposi , per accoglierli e accompagnarli in corteo fuori città, attraversando la porta designata a ciascuna classe: la Porta della Marina per la nobiltà; la Porta del Ponte per la borghesia; la Porta Pairoliera per gli artigiani; la Porta di Saint Eloi per la plebe.  Il corteo ha un percorso prestabilito:  sulla strada verso Villafranca, sino al mulino di Riquier; per la strada verso Cimiez e S.t Barthélemi, fino al Mulino del Bosco; sulla strada verso il Piemonte fino al Monastero di S.t Pons e su quella verso il Var sino all’Abcurator.  La riva del mare servirà come limite in caso di partenza via mare.

I diritti di accompagnamento sono stabiliti nella stessa misura di quelli per il charivari, in proporzione cioè ad ogni classe.

In caso di rifiuto di pagamento gli Abbati, dopo aver esaurito ogni procedimento di convinzione, preso ordine dal Governatore e dai Consoli, hanno il diritto di inchiodare le porte dei renitenti e di impedire la loro uscita etc.,etc.  “ Che cosa si nasconda dietro i due eccetera non è specificato

 

 

IL RACCONTO:  ONORE’ E LE DONNE

 

 

In quella tiepida sera di maggio l’Osteria da Ercole, di solito affollata di contadini che intendevano concludere il magro pasto con un bicchiere di rossese o che  si rinfrescavano  la  gola dopo un'aspra e urlata partita a morra bevendo direttamente dal fiasco, era insolitamente semideserta. La gente preferiva starsene seduta sulla soglia delle case a chiacchierare un po' di tutto, in attesa che la stanchezza del giorno la inducesse a rientrare. Solo  qualche donnetta, tra le più vecchie, continuava a sferruzzare con la  poca lana ricavata da  quello che un tempo  era stato 'il bel maglione comprato a Nizza', ora ridotto ad un piccolo  gomitolo tutto nodi e completamente stinto.

Gli  uomini, seduti sui  gradini delle vecchie,  brutte case parlavano  di  viti,  di ulivi,  di  semine, di sarchiature e di nient'altro. Eterni discorsi, immutabili, sempre uguali, monotoni come  monotono, sempre uguale, immutabile  nel tempo è quel  paese   con  le case ammonticchiate a grappolo, abbarbicate ad uno sperone  roccioso,  sovrastate dal castello sbrecciato dei Doria di cui rimangono in piedi solo le enormi mura ricoperte d'edera,  inutili  anche  se  servono  tutt'ora  ad  ospitare  qualche  coppietta che sommette volentieri la ragione al desiderio. In ogni caso sono inutili anche per questi  amanti clandestini  dato che  i vari  orti  che circondano  il paese offrono, dopo il tramonto,  posti altrettanto tranquilli ed appartati.

Onorato,  da  tutti  ormai  chiamato  Onoré,  non  aveva  mai   frequentato il castello, se non per curiosità e gli orti gli eran sempre serviti per la raccolta di pomodori e di zucche e null’altro.

Di  statura  non molto  alta,  alquanto rotondetto,  con  una andatura un poco traballante dovuta ai suoi enormi piedi  piatti indizio  di un  lavoro particolare  (faceva il  valet  de  chambre all'Hotel  Miramar di Beaulieu),  Onoré sino all'età  di trentasei anni  si  era mantenuto  puro e illibato,  tanto che gli  amici lo avevano soprannominato Onoré il Casto. E sì che materia  di  prima scelta ne aveva avuta molta in quell'hotel della Costa Azzurra  dove  ogni estate migravano frotte di fanciulle nordiche a cui non  importava tanto la bellezza fisica quanto il fascino latino.

Ma  Onorato  non  aveva  nulla  del  latin  lover  per   cui  essendogli  preclusa  ogni  avventura galante,  si  era  rifugiato nell'idea  di una avventura unica,  quella che lo avrebbe  portato direttamente all'altare. Ma qui sorgeva un problema.

Onorato  aveva  del  matrimonio  un  concetto  particolare  e strano.  Non avendo mai conosciuto le donne in senso biblico e non  potendo  quindi valutare le loro  reazioni, si era formato  alcune idee  originali  dalle quali  non  intendeva derogare  per nessuna ragione  e che -  forse per ottenere  una conferma -  stava quella sera esponendo agli amici nell'osteria semivuota . - Fratelli,  - aveva esordito all'improvviso in una pausa di silenzio, - fratelli, ho deciso di prendere moglie.

Per  un attimo erano rimasti  tutti  basiti,  poi,  quasi  all'unisono, tutti i presenti avevano sbottato

- Ma va!

- Ma no!

- E con chi?

- Quando?

- Ma sei matto! Alla tua età? Chi te lo fa fare?

- Che ti è saltato in mente?

- Se mi lasciate parlare risponderò ad uno per volta.  Dunque,  ho deciso  di sposarmi e  presto, forse a  fine mese. La  prescelta è Finetta...

- Chi? Finetta la vedova? - lo interruppe uno.

- Sì, Finetta  la vedova e non mi sembra di essere  affatto ammattito - aggiunse rivolto a chi lo aveva tacciato per tale.

-  Scusa, Onoré, ma fra tutte le belle ragazze che ci sono a Isola  proprio la Finetta sei andato a pescare.

-  Alludi forse al fatto che è vedova?

-  E già, proprio a quello.

- Allora ti dirò che io ho scelto Finetta proprio perché è vedova. Se non lo fosse, rinuncerei al matrimonio.

Per un attimo tutti erano rimasti in silenzio per digerire la   precisazione.

‑  Se lo fai  per i soldi  - riprese poi  uno - non  ti biasimo. Carlin,  buon'anima, gliene ha lasciati molti, ma in  quanto  alla Finetta, beh, non è il mio tipo. 

- Non puoi negare che abbia un bel corpo e un bel paio di gambe, - disse un altro.

- Non  divagate  - fece Onorato - non la sposo per i soldi perché col mio lavoro a Beaulieu guadagno quanto voglio; e non  la  sposo  neppure  per la sua bellezza,  ché, poverina, non ne  ha molta. La sposo proprio perché è vedova e nient'altro.

-  Non ti capisco, Onorè. Spiegati meglio.

- Vi  spiegherò  il  mio  punto  di  vista  -  cominciò  Onorato, affrontando e confutando, senza per altro rendersene  conto,  il problema che aveva interessato Tacito, i Germani, gli Albigesi e i  Catari-Patari. E, sebbene la sua preparazione culturale  fosse di  gran lunga inferiore a quella dei suoi predecessori, si accinse a  esporre  il problema con altrettanta serietà e coscienza.

- A mio giudizio  - iniziò -  una signorina illibata,  quando si sposa,  raramente sa che cosa in effetti sia la vita matrimoniale,  quali  siano i suoi doveri  di padrona di casa  e di moglie e  per moglie  intendo dire... l'atto...  il dormire nello  stesso letto pur  stando svegli. Mi capite, no? La soluzione della prima notte di nozze è, a mio parere, fondamentale: o non le piacerà stare   sveglia  o  le  piacerà: ecco  il  punto.  Nel primo  caso accadrà inevitabilmente che il marito se ne andrà per una strada -  e  per meglio  spiegare il suo concetto mise da un lato il fiasco di vino       che  stava sul tavolo,  - e la  moglie per un'altra,  - e mise  il  bicchiere sul lato opposto. - Lui potrà, o meno, frequentare altre donne per tutta la vita; lei, invece,  rimarrà per tutta la vita  'una moglie-zitella’.  Siete d'accordo?

- No,  -  fece uno - potrebbe non piacerle il marito e trovare invece gradevole dormire, come hai detto tu, 'stando  sveglia',  con un altro.

Lo escludo categoricamente - gli rispose Onorato - e  mi  spiego meglio  facendoti un esempio. Un salame comperato alla Cooperativa può essere meno gustoso di quello che comperi nel negozio che sta in piazza, ma sempre salame è. O ti piace o non ti piace.   

- Ma che razza di ragionamento è il tuo! Se quello della Cooperativa  è  meno  buono, ci  rinuncio  e  vado a  servirmi nel negozio che sta in piazza.

-In  linea  di massima  ti  do  ragione; ma  putacaso il negozio  rimanesse  per un po' di  tempo senza salame, ti  asterresti forse dal mangiarne se te ne venisse la voglia? Credo di no.  E  allora vuol dire che il salame ti piace sempre, buono o no. Se, invece, mi rispondi  sì,  vuol dire  che a te  il salame non  piace affatto e quindi,  concludo, puoi farne a meno sempre. Così è per la donna a cui  non piaccia l'uomo: distinguo,  l'uomo in genere, non  il suo uomo.

Lì per lì colui che l'aveva contraddetto non trovò  nulla  da ribattere e Onorato riprese: -  Nel caso, invece, il matrimonio piaccia alla donna,  allora esso può essere felice solo se lei - e così dicendo avvicinò il bicchiere, - e lui -  prese il fiasco e versò il vino nel bicchiere - vanno d’accordo.

Bevve e poi riprese:

- Non mi sto ora a dilungare sul  problema del  tradimento  perché questo  non è  certo il  momento  più  adatto: sto,  infatti,  per ammogliarmi.  Voglio, invece, dimostrarvi perché  io, scapolo fino  ad  oggi, abbia deciso di  unirmi proprio ad una  vedova. Vedete - fece  scandendo le parole - io ritengo che la vedova sia la moglie ideale sotto tutti gli aspetti.

-  Oh questa sì che  mi piace! -  fece stupito Mumin che  fino ad  allora se n'era stato in silenzio.

- Ti spiego subito: prendiamo l'argomento famiglia, una vedova sa già  quale ne  sia l'andamento,  come farla  funzionare, come  far quadrare  i conti di casa  e questo perché il  suo tirocinio ormai    l'ha  fatto. Prendiamo l'altro aspetto, il letto cioè. Se quella donna non si è divisa dal marito, vuol dire, e qui ritorno a quanto ho detto prima, che il dormire con un uomo le piace;  di conseguenza,  e questo è per  me il fatto che  taglia la testa  al toro, una vedova è già collaudata .

- Bella roba! - fece uno.

- Perché? - lo rimbeccò Onorato - Quando acquisti  una  lampadina  il commesso prima te la prova e mica ti secca. Anzi,  vedendo  che funziona, sei tranquillo e contento.

- Ma che razza di paragoni fai? Mica ci dormi con una lampadina!

- Comunque, io la penso così. A me piacciono le  cose  collaudate; ostacoli sulla mia strada non ne ho mai tollerati e non ne voglio. Non mi piace fare l'eroe o il pioniere. Preferisco entrare in una galleria quando le mine sono scoppiate, non mi importa di essere colui che va ad accendere la miccia.

- Allora ragionando così, - gli fece notare Mumin, - invece di una vedova potresti sposare una ragazza già collaudata  o  addirittura una prostituta.

 - Ah no! Questo mai! E' contro i miei principi.

- A me sembra la stessa cosa: che sia stata a letto con uno o con molti, che fa? Ormai...

- Niente affatto. Guarda un po' la legge. Le prostitute sono sotto  controllo  della  polizia;  hai  mai  visto  tu  la  polizia controllare le vedove?

-  E allora sposati una vedova!

- Questo è assodato e mi dispiace che non la pensiate come me. Non  potrete  mai capirmi  finché sarete legati a questa mentalità - concluse Onorato facendo col braccio un ampio  gesto  circolare.

- Senti, Onoré, lasciamo perdere  questi argomenti - disse  Mumin dopo un breve silenzio.- Voglio solo mettere bene in  chiaro  che nonostante   la  nostra  amicizia,   io,  in  qualità   di   Grän ciaravüglièè,  non tralascerò di farti  il ciaravügliu, anzi il più  grande ciaravügliu' che mai  sia stato visto. Il fracasso arriverà dalla cima del Toraggio alla spiaggia di  Ventimiglia. Questo te lo prometto.

- Credi forse di impaurirmi? - lo rimbeccò Onorato sorridendo. - Ho  già pensato a tutto e quella sera non mancheranno damigiane di vino  da cinquanta e chili di focaccia e biscotti, francesi per la precisione. E se poi chiederete altro, vi sarà dato. Ti  piace  la proposta?

- Ritengo di sì - rispose Mumin dopo aver visto cenni  di  assenso da  tutti  i  presenti. Poi,  rivolgendosi  al  futuro  sposo  gli disse: - Però sei un tipo strano, Onoré. Sono anni  che  organizzo ciaravügli  e  non mi  è mai capitato  di trovare un futuro marito che  accetti   così   sportivamente che  tutto  un  paese  vada a schiamazzare sotto le sue finestre la sera delle nozze. Per lo più gli sposi si vergognano, cercano di tirarsi indietro, si arrabbiano addirittura,  pur sapendo che alla fine devono  cedere.

-  Ecco dove ti volevo, Mumin. E' proprio perché tutti   pensano  di  aver  acquistato una cosa  già usata che  si vergognano di  fronte  agli  altri. Io no. Io,  se indosso un vestito  nuovo, mi sento  a      disagio.  Nei panni usati ci  sto come un re. Il vostro ciaravügli'  sarà per me  il riconoscimento ufficiale  della mia teoria.

Onorato avrebbe forse  continuato a parlare se un vecchietto, che  aveva ascoltato in silenzio  tutti i discorsi, non  vi avesse   messo termine con queste perentorie parole:

- Unuré, ti  äi cuntau  ciü musse  tü staseira  che Mussulini  en vint'äni.  

 

 

                                                                              *************

 

 

Il due di giugno Onorato e Serafina convolarono a  nozze.  Lo sposo aveva fatto le cose in grande nonostante la moglie lo avesse pregato, supplicato quasi di non dare pubblicità alla cerimonia. Niente da fare: Onorato aveva fatto di testa sua e quel mattino, accompagnato da un largo stuolo di parenti, amici e alla presenza di quasi tutto il paese, aveva impalmato Finetta  nella chiesa piena  di sole e   fiori.

Prima di partire per il viaggio di nozze, Onorato aveva preso da parte Mumin e gli aveva detto:

‑ Oggi  è  il due,  tra  dieci  giorni esatti  saremo di ritorno. Prepara  quindi  il ciaravügliu per  la  sera  del  dodici,  mi raccomando!

- Ma, Onoré, così mi togli tutto il gusto di farlo!

‑ Te ne prego,  se mi sei  amico, devi fare  tutto per me,  anche l'impossibile. Voglio il miglior ciaravügliu che sia  mai  stato fatto nella vallata.

- Va bene. Sta tranquillo e goditi la luna di miele.        

Poi  Mumin, dato uno sguardo a Serafina tutta impettita nel suo tailleur grigio-perla, col viso sorridente e accaldato, aveva alzato le spalle e si era allontanato.

I giorni erano passati veloci e la sera del dodici giunse per Mumin quasi inaspettata. Non ci teneva più ad  organizzare  quella cerimonia,  sia perché la cosa non veniva improvvisata, sia perché c'era troppa arrendevolezza dalla parte opposta.

Il  bello  di  un ciaravügliu  è  quando  gli  sposi  sono contrari, quando fanno resistenza e si tappano in casa cercando di sottrarsi all'ammenda pubblica. Allora sì che c'è gusto! La gente si scalda, cominciano a correre le parole a doppio senso, quelle a senso unico, il paese ride, sghignazza, si scompiscia  dalle  risa  sotto  le finestre dei  due malcapitati e  il frastuono sale  alle stelle  per continuare, se gli sposi tengono duro, per più sere di seguito  fino alla capitolazione. Ma così!  Consenziente Onorato, indifferente Serafina, la cosa non aveva più sugo.

Ma  tant'è,  verso le  otto di sera, la piazza della  chiesa  brulicava di folla. La voce che gli sposi erano ritornati  si  era  sparsa,  anche  se  nessuno li aveva  veduti,  e tutto il paese,    consapevole che la tradizione andava rispettata, si era armato degli strumenti necessari e attendeva solo l'arrivo di  Mumin,  il Gran Ciaravüglièè per incominciare.

Ognuno aveva portato con sé strumenti musicali così inusitati che avrebbero destato  l'invidia di un cultore  di  musica epistaltica.  Latte vuote, lamiere, barattoli di marmellata legati come perle di una collana, padelle, casseruole, tamburi e tromboni prelevati dalla banda musicale, una cornamusa, pifferi, cassette di legno, formavano un complesso musicale eterogeneo,  fuori dal comune. 

Nell'attesa  di  Mumin,  ognuno accordava  il suo strumento  facendo un tal baccano che i passeri, disturbati nei loro nidi volavano perdutamente intorno al campanile, simili a tanti   pipistrelli sorpresi dalla luce.

Finalmente,  preceduto da una frotta di ragazzotti schiamazzanti, il  Gran Ciaravüglièè  arrivò.   Mumin   per l'occasione  aveva indossato un frac  vecchiotto, un po' stinto  e logoro   e   così  lungo   che  le  code   sfioravano  le  scarpe. All'occhiello una grossa rosa rossa, appassita, perdeva  di  tanto in tanto qualche petalo. In testa un cappello a tubo con una piuma  di  fagiano,  gli dava  l'aspetto di un  imbonitore da fiera.  Non aveva  alcuno strumento musicale,  teneva solo in  mano una  corta bacchetta  tutta  intagliata  con  cui  avrebbe  diretto  la banda improvvisata.

Una  salva di fischi,  urla, rumori assordanti  accolse Mumin  non appena fece il suo ingresso nella piazza  gremita.  Camminando  molto lentamente e compenetrandosi nel suo ruolo, si diresse verso il  centro della piazza incurante del frastuono poi, salito su una  cassa,  diede uno  sguardo tutto  attorno e  con un  gesto  calmo,  serafico, sacerdotale, zittì gli scalmanati.

 - O popolo dell'unghia, - incominciò, usando l'epiteto che i paesi vicini  davano, e danno tutt'ora agli Isolesi, forse in memoria di antiche  razzie - questa calma  serata di fine primavera  ci trova  qui  riuniti, unanimi, per far  rispettare una delle più  antiche, delle  più giuste, delle  più convincenti tradizioni  che annoveri  questa valle e in modo particolare questo borgo che ha una civiltà di oltre duecento lustri. Piccolo applauso, prego.

E si scatenò un baccano infernale, sedato per· immediatamente  dall'ampio gesto sacerdotale di Mumin.

- Che il ciaravügliu - riprese - sia una cosa giusta, è pacifico e  non  ci sarebbe  bisogno di spiegazioni  se non vedessi  laggiù alcuni  foresti, nostri ospiti per le vacanze, i quali  ci guardano  stupiti e  pensano  forse  di  essere  capitati tra cavernicoli e trogloditi. Per costoro e per i  più  giovani  del  paese che  ancora  non  si sono compenetrati  nell'essenza  della manifestazione, ma vedono in essa solo il lato  esteriore  e  una  occasione per  far  baccano,  dirò che  recenti  statistiche  hanno dimostrato senz'ombra  di dubbio che  in Italia  vi  sono sette donne per ogni uomo, quindi solo una su sette ha la  possibilità di sposarsi...

‑   Ma io non ne ho trovato nemmeno una! - interruppe un  tale  che  aveva una faccia tonda come un melone e l'aspetto un po' cretino.‑  -  Ma  che  pretendi tu - continuò Mumin - se non riesci nemmeno a  trovare l'umidità nei pozzi! Comunque, ritornando al nostro tema, essendoci  per la donna carenza di materia prima, non è giusto che  una  di esse abbia avuto  a sua completa, totale  disposizione non  uno, bensì due uomini. No, signori, questo non è giusto.

Altra ovazione. 

-  Di conseguenza si  impone, per questo  plus valore ottenuto da Serafina, un pubblico processo sotto la sua finestra e,  dato  che le  parole ben poco possono  in questi casi essendo  il matrimonio ormai...riconsumato,  lasciamo che i nostri strumenti esprimano la nostra chiara, aperta, completa disapprovazione. 

"Bravo!  Bene! Viva Mumin! " scoppiò da tutte le parti tanto che  Mumin  si  sentì   ringalluzzito;  le preoccupazioni precedenti circa la non riuscita dela cerimonia svanirono. Capì in quel  momento di avere tutta  la gente in pugno.  Si pavoneggiò un  poco spostandosi ora su una gamba, ora sull'altra, con i pollici infilati  nel  gilé,  mentre  la  rosa  all'occhiello  continuava a perdere  dei petali. Non appena per· si accorse che la folla stava per avviarsi verso la casa degli sposi, con un gesto  ieratico  li trattenne.

- Fratelli, è ora di  avviarci tutti assieme. Dispongo  che tutti coloro che sono provvisti di strumenti a percussione, si schierino in  testa  al corteo  in righe di  quattro persone. Di  seguito si schiereranno  coloro che  sono forniti  di strumenti  a fiato.  La folla  seguirà alla rinfusa. Io starò in testa e aprirò la marcia.  Per raggiungere la casa degli sposi procederemo a  passo  di  funerale.  La marcia che suoneremo avrà i seguenti tempi: maestoso, solenne e andante calmo. Gli strumenti di testa batteranno tre  colpi  veloci, ma in sordina,  poi una pausa, poi  un colpo forte; gli strumenti a fiato suoneranno, invece, ad  intervalli  regolari sempre  la stessa nota e faranno da sottofondo di accompagnamento Siamo intesi? Ora mettetevi all'opera.

Dopo un breve trambusto di assestamento il corteo  si  avviò. Mumin in testa camminava lentamente, segnando il tempo col bastone intagliato e sembrava che trinciasse benedizioni a  tutto  spiano. Un lungo codazzo di gente seguiva l'improvvisata  banda  musicale accompagnando con urla e fischi quel singolare concerto.  Anche  i forestieri, divertiti, si accodarono.

L'abitazione   di  Onorato  e  Serafina  si  trovava  in  una graziosa  piazzetta circondata da  case con verande  e poggioletti stracarichi di gente che voleva godersi lo  spettacolo  dall'alto. La  piazzetta  fu  in breve piena di folla che arrivava da tutti i carruggi  circostanti. In quella specie di anfiteatro il frastuono  era  enorme; le pareti  si rimandavano l'eco  che, rimbalzando  di muro in  muro, faceva  rintronare ogni cosa  e vibrare persino  i vetri delle poche finestre rimaste chiuse.

Il  concerto era decisamente cacofonico. Ognuno suonava  per conto suo battendo, picchiando, spaccando ciò che  poteva.  Alcuni avevano aperto la porta di una stalla e con nodosi rami d'ulivo vi battevano  contro  facendola  risuonare  sordamente.  Due  pecore frastornate dal baccano, erano riuscite a scappar fuori e si erano intrufolate in mezzo alla folla, belando disperatamente, mentre il padrone, bestemmiando come un turco, cercava invano di trascinarle     dentro la stalla.

Mumin di tanto in tanto dava una occhiata alla porta di Serafina e Onorato, che rimaneva inspiegabilmente chiusa.

'Eppure eravamo rimasti d'accordo!  - pensava. -  'Perché Onoré tarda ad uscire con le  damigiane?  Che ci abbia  ripensato?  Non è  possibile. Forse  vuole godersi pure lui lo spettacolo. E allora lo accontento io. 

Salito su una scaletta, si mise ad urlare:

-  Dai, popolo dell'unghia, fatti sentire!

Il frastuono salì al cielo, ma la porta rimase chiusa.

Fu allora che si sentì tirare per una manica; si voltò e vide accanto a sé la madre di Onorato, scura in volto  e accigliata.

- Vieni, Mumin, - sussurrò - vieni subito con me.

Mumin  la seguì incuriosito. Si appartarono in un carruggio e la vecchia disse:

-  Mumin, manda via quella gente con una scusa. Di' quello che  vuoi, ma portali via tutti. Finetta ti spiegherà; è una cosa grave e  vorrei che nessuno ne sapesse nulla. Onorato non è in casa; non è nemmeno in paese.

La  vecchietta aveva parlato  tutto d'un fiato  e poi si  era messa a piangere silenziosamente.

- Lo  sapevo  che finiva  male,  me  lo  sentivo  -  disse  Mumin sottovoce. - E va bene: cercherò in qualche modo  di  allontanarli   tutti. Ora rientrate in casa; dopo verrò a trovarvi.

Ritornato  nella piazzetta, riprese il suo posto in cima alla scala e, dopo aver agitato più e più volte il bastone, gridò:

- Amici, un momento di calma. Sono spiacente di dovervi informare che per stasera il ciaravügliu' deve essere interrotto. Onoré non  è  in casa;  è stato  chiamato d'urgenza  a Beaulieu  dal  padrone dell'hotel  dove lavora. Ha lasciato detto che, non appena potrà ritornare,  ci  avviserà,  così riprenderemo  la nostra cerimonia com'è nel nostro diritto.

Vi  furono  mormorii  da  ogni  parte,  qualche  strumento fu percosso,  ma a poco  a poco, a  gruppi, la gente  sfollò  un  po' dispiaciuta che quello spettacolo, così ben iniziato, fosse finito così malinconicamente.

Mumin  era rimasto nella piazzetta con alcuni amici restii ad  allontanarsi  e  desiderosi  di  avere  qualche  informazione  più precisa,  più dettagliata che non le poche parole dette poco prima dal  loro  capo.  Ma lui  non ne  sapeva molto  di più.  Dopo aver   promesso  notizie più ampie, li lasciò e andò a bussare alla porta di  Serafina che, dopo aver sbirciato attraverso un usciolino, gli aprì  e  chiuse  poi di  scatto la  porta dietro  di lui  con fare furtivo.

-  Ma che succede? - chiese Mumin non appena introdotto in un buio salottino dove la vecchia madre di Onorato e la madre di Serafina sedute su una panca, entrambe con la testa tra le mani, piangevano sconsolatamente.

Serafina non rispose; prese dalla credenza una  bottiglia  di grappa e ne riempì un bicchierino che porse al giovane preoccupato e incuriosito.

-  Si può sapere, Finetta, che cosa è accaduto? - ripeté dopo aver bevuto un sorso di grappa.

-  Onoré è scappato - disse Serafina abbassando il capo.

-  Scappato! E dove? E quando?

- La sera stessa del giorno di nozze - rispose la donna arrossendo. - E' ritornato  a Beaulieu e, a parte una cartolina a sua madre, non ha più dato notizie.

-  Ma perché? Vi siete bisticciati? E' accaduto qualcosa?

- No, nessun bisticcio, anzi, abbiamo fatto un ottimo viaggio fino a Genova  dove avevamo prenotato in un albergo. E' accaduto mentre si  stava  per  andare a letto che Onoré è scappato. Si parlava un po'  di tutto e ad un certo punto gli dissi che io ero ancora vergine e allora lui è andato su tutte le furie ed è scappato.

- O  sacramento! -  bestemmiò  Mumin, cadendo a  sedere  su una seggiola  e  guardando Serafina  con faccia da  cretino. - Ma  che balla gli hai raccontato, Finetta!

- E’ la verità, Mumin! Che interesse avrei avuto a raccontargli una cosa simile se non fosse stata vera. Io credevo che ne sarebbe stato contento.

-  Non capisco, - fece Mumin soprappensiero. - Ma come puoi essere illibata se per sei mesi sei stata sposata col Carlin di Apricale. Dico, sei mesi prima che morisse. Non avrete  detto rosari o giaculatorie tutte le notti, no?

-   Carlin  era  impotente, -  disse  la  madre di  Serafina tra le  lacrime.

‑  E’ la verità - ribadì Serafina. - Quando lo sposai, io  non  lo sapevo.  E  siete stata  voi a volere  che lo sposassi  - aggiunse rivolta alla madre.

-  E che ne sapevo io! - gridò quella tirando su col naso. - Sono stati  tutti quei soldi e quelle terre a farmi girare la testa. E' per questo che ti ho consigliato di sposarlo.

-  Bel servizio mi avete reso.

- Sentite, ora lasciamo  perdere i morti.  E' di mio figlio che bisogna  discutere - saltò su la madre di Onorato. - Io non voglio che  in  paese si  sappia che Onoré,  per le sue  strane idee, non vuole vivere  con sua  moglie solo perché è vergine. Altro  che ciaravügliu!  Il  manicomio  farebbero! Non  ci  voglio  nemmeno  pensare. Bisogna che in paese lo vedano a braccetto  con  Finetta.  Bisogna trovare una soluzione e farlo ritornare da Beaulieu. - E così dicendo, andava  battendo  col  pugno  sul  tavolo,  facendo  sobbalzare la bottiglia  di grappa,  mentre con  l'altra mano  si asciugava gli occhi.

- Ma come si fa? - chiese la madre di Serafina. - Se ritorna siamo al punto di prima. Ma guarda che il tuo Onoré é è un bel cretino, sai?

- Lascia stare Onoré e pensa piuttosto a tua figlia.

- Che hai da dire contro Finetta? Non pensi alla sua disgrazia? Prima sposata ad un uomo buono a niente e ora ad un cretino che...

 - Non insultare il mio Onoré, hai capito?  - rispose  l'altra balzando in piedi e mettendosi le  mani   sulle  anche  in atteggiamento aggressivo.

Mumin si mise in mezzo.

- Calma, donne, calma. Se bisticciate me  ne vado.  Cerchiamo piuttosto di trovare una soluzione.

- Di soluzioni ce n'è una sola - fece Serafina che aveva assistito indifferente al battibecco delle due suocere. - Onoré  l'ha  detto ai  quattro venti che lui vuole la roba usata, perché, dice lui,  già  collaudata. - Fece una lunga pausa e poi concluse: - Si  tratta,  quindi, di collaudarmi.-  E  così    dicendo guardò Mumin.

-  Io!! - fece il giovane guardandola esterrefatto.

-  Ma Serafina, che dici?  

- Finetta, sei pazza!

- No che non son pazza. Se Onoré ragiona storto, io ragiono ancora più  storto  di  lui, così la faccenda si raddrizza. E in fondo, a pensarci bene, non c'è nulla di male perché, senza saperlo Onoré stesso ci dà carta bianca.

- Ma che carta bianca! Quello non approverebbe mai! -  disse  la madre di Onorato.

- E  chi  glielo andrebbe  a riferire? Noi  no di  certo. Mumin nemmeno. D'altra parte io mi sono sposata? Sì. Avevo  il  diritto di andare a letto con un uomo? Sì.

-  No,  aspetta  un momento  - troncò  la suocera.  - Tu  avevi il diritto  di andare  a letto  col tuo  uomo, non  con  un  uomo.  La differenza è evidente.

- D'accordo,  ma se  il mio primo  uomo non ha  funzionato perché le  sue cartucce erano  scariche, le mie  no e le  sparo  con  chi voglio. E' un diritto che ho acquisito col precedente matrimonio e se  non  l'ho  fatto valere  non  è  stata colpa  mia; comunque il diritto sussiste sempre. Io a Onoré non ci rinuncio. Nonostante le sue  stupide idee gli voglio bene. Quindi l'unica soluzione è che  tu, Mumin, che gli sei amico, faccia quello che il mio primo marito non fece.

-  Ma  qui  stiamo  diventando  tutti  matti!  -  sbottò  il  Gran Ciaravüglièè,  che  si  era  tolta  la  tuba  di testa  e  sudava abbondantemente. - Ma ci pensi a quello che dici, Finetta?

- Ma  certo  che ci penso. E' in ballo la mia vita futura, la mia reputazione e vuoi che le butti via entrambe per non  passare  una notte con te? Ma nemmeno per sogno!

- Ma che cosa dirà  Onoré quando verrà a  sapere che non sei  più illibata? Ti chiederà, ti interrogherà.

- Non ti preoccupare di quello che penserà Onoré! A lui  penserò io.  Ah, dimenticavo.

- Che c'è ancora.

- Mumin, in settimana andrai  a Beaulieu e  farai in modo  di ricondurre Onoré al paese.

- Pure! Anche l'ambasciatore debbo fare! Ma ti rendi conto di quello che dici?

-  Senti, Mumin, è inutile discutere. Mettiamo tutto in  mano  alle suocere e lasciamo decidere a loro. Sei d'accordo?

Mumin per tutta risposta alzò le spalle.

- Ma, per me...! - disse la madre - sono affari tuoi.

- Ma sono anche di mio figlio! - la rimbeccò la suocera.

- Tuo figlio in quest'affare non c'entra. Se buon'anima di Carlin  avesse  fatto il suo dovere, tuo figlio non avrebbe avuto nulla da  ridire e non ci sarebbe stato bisogno di questo rimedio. Ora che a rimediare sia Mumin, che differenza fa? 

- Ma Carlin era il marito legittimo - ribatté la madre di Onorato.

- Bel tipo di marito legittimo! - le rispose la madre di Finetta.

- Sentite - si arrese la madre di Onorato - io me ne vado. Non  voglio sapere le vostre conclusioni. Arrivederci. - E se  ne  uscì impettita dopo essersi avvolta la testa in uno scialle nero.

-  Io ho da fare in solaio - disse poco dopo la madre di Serafina. -  Devo ancora  ritirare il  bucato.-  E se  ne uscì  lasciandoli soli.

Mumin  stava in silenzio con gli occhi fissi sul tavolo e col bicchiere  di grappa vuoto che  rigirava tra le mani.  Serafina lo guardava,  indecisa sul da farsi. D'un tratto, presa la decisione afferrò Mumin per un braccio e disse perentoria: - Andiamo!

Nel salottino rimase solo la tuba del Gran  Ciaravüglièè  e alcuni petali di rosa sparsi qua e là.

 

                                                                      ++++++++++++++++++++

 

 

Tre  giorni dopo, sul  far della sera,  Onorato bussava  alla  porta  di  casa e  Serafina lo accolse  buttandogli le braccia  al collo. La spiegazione che seguì tra i due soddisfece pienamente lo sposo.

- Vedi, - gli disse Serafina, - tu sei troppo impulsivo e salti subito alle conclusioni prima ancora di ascoltare tutti i punti. Quando,  a Genova,  ti dissi che ero illibata, volevo dire che dal momento in cui ero rimasta vedova non ero più stata con  un  uomo  Dovevi  pur capire  che, essendo  stata sposata  col  Carlin,  non potevo certo essere illibata. Io parlavo in modo generico.

- E non potevi dirmelo prima?

- E come facevo? Sei scappato come un ladro senza permettermi di spiegarti.

- Hai ragione, Finetta.  Bel cretino sono  stato. Ma che  succede adesso?  - disse  balzando in piedi  al rumore che  saliva dalla piazzetta sottostante 

- Il ciaravügliu, te lo sei dimenticato? Visto che la prima volta non c' eri, l'hanno rimandato al tuo ritorno.

-  Molto bene. Spero che Mumin abbia fatto le  cose a regola d’arte.

- Di questo non preoccuparti: sono tre giorni che ci si dedica anima e corpo. 

Il frastuono era, intanto, cresciuto a dismisura. Si sentiva ad intervalli la voce di Mumin sovrastare il baccano:

-  Popolo  dell'unghia... il  diritto...  la tradizione...  non  è  giusto...

Onorato e Serafina aprirono la finestra; una folla enorme aveva invaso la piccola piazza dove avevano trascinato  anche  una vecchia  pianola stonata, presa  chissà dove. Che  motivi suonasse nessuno lo seppe mai .

Mumin  in tuba e frac, con una nuova rosa all'occhiello, la solita bacchetta, stavolta a cavallo di un asinello a cui per l'occasione avevano tappato le orecchie e bendati gli occhi, dirigeva la banda  musicale degli strumenti cacofonici. 

- Pronti tutti e  non stonate!  Suoneremo la Marcia  dell'Unghia Incarnata,  inno del paese. I movimenti sono: Andante, Andante con moto, Andantino, Largo maestoso e Gran finale. Pronti?  Via!

E il chiasso salì alle stelle.

Il  pensiero venne a Mumin proprio in quel momento:

‑  A pensarci bene, - si chiese - il  ciaravügliu lo stanno facendo  a Onorato  oppure senza saperlo  lo stanno  a me?

E  fu quella la prima volta nella tradizione di Isolabona che  il Gran Ciaravüglièè fece il ciaravügliu a se stesso.

 

 

 

 

(Del racconto è stata fatta una versione teatrale in dialetto)

 

 

                               U ciaravügliu

 

                                     Cumedia en dui äti

                                                           de Marò Cascin de Patala

 

Persunägi:

Fineta, üna vidua che a se remaria.

Unuré, u prumessu spusu.

Mumin, u Grän Ciaravüglièe.

Bastiané, u se bräsu destru.

Ün vegliu.

 

(Prima de cumensää a cumedia u seria necesäriu che una vuije föra cämpu, acumpagnä da üna müsica ,  a legèsse una päginä de spiegasiun de luche u l'a u ciaravügliu pe cheli che i nu u sän)

 

 

 

                                         Ätu primu 

 

         U s'aisa  u sipäriu.

                A semu sciü  a Bunda, dedenäi l'ustaria de Ercule. U  g'à  dui deschi cun de caireghe. A  ün descu i stän asetäi Mumin e Bastiané. I stän giugandu ae cärte e i än dedenäi üna buteglia de  rusese  e dui  goti  de  vin.  A  l’'autru descu u stä asetau ün vegliu cun ün giurnäle  en te mäe. De tänto en tänto pe a Bunda u passa de cursa di figliöi, de femere che porta üna seglia sciü  a tasta,  di  omi cun di curbin sciü  e späle o di beriui de fen.

 

Mumin (getandu üna cärtä sciü descu) - Scupa! E cun salì e fän tre.

Bastiané (Cun ün gestu de rägiä u getta e cärte sciü u descu) U nu l'a puscibile! Ti äi un cüü cume ün                    cavägnu: a ghe scumetu che se ti te ceghi e a te gärdu derèè, a te vegu a märcä du                         capelu.

Mumin - A nu l'a furtüna: a l'a abilitä e memoria. Mi e cärte a me e säciu giügää ban.

 

                (Dau  carugiu cu stä  dedenäi l'usteria de  Ercule u  sciorte prima  ün omu cäregu de  ün beriun de fen  e poi,  vestiu cume  ün bardäsciü , cun üna män ciantä en tu gilé aa moda de  Napuleun,  i speglieti  sciü  u näsu, u  l'ariva Unuré. Unuré  l'a un giuvenu  sciü  i trant'äni.  Scicume  u  travägliä  en  Fränsä,  en  t'ün  utel  de  Bugliö, de täntu en täntu u ghe piäije parlää fransese.)

 

Unuré - Salut les ami! Comment ça va? Sampre a giügää ae cärte; ma u nu äve autru da fää. Però    adassu cianteira lì perché u besögna fää fasta. Tranchili: a pägu mi!

Mumin - Unuré ti me fäi pauu. Ti ei sampre stau lärgu au brenu e strentu ää farina! Ti äi forse                        vintu ün tarnu au lotu ?  

 

(Unuré,  u s'asata sciü  üna cairega; u se leva i  speglieti; u ghe sciüscia  suvre ;  u i  nestegia cun  ün mandrigliu e u se  i mette sciü u nasu.)

 

Unuré - De ciü, de ciü.

Bastiané - Ti äi finiu de cifugnää cun sti speglieti?

Unuré - Mes amis, a äi decisu: a me mariu.

Mumin - Ti te marì? Aa tua etä?

Bastianéü - E cändu? E cun chi?

U vegliu -  (Aisandu a tasta da u giurnäle) Unuré, ti ei deventau abelinau?

Unuré - Se u me lascei parlää a respondu a tüti. Dunca, tra un mesu a me mariu cun Fineta.

Bastiané - Chi? Fineta a vidua de Carlin? Ma t'ei matu?

Unuré- Sci, propiu Fineta a vidua e a nu sun né mätu né abelinau (u responde girau varsu u vegliu).

Mumin - Mä cume? Cun tüte e bale giuvene c'u g'a a l'Isura, ti t'ei mesu a caregnää propiu c cun  üna vidua?

Unuré - Spiégate  megliu, Mumin: ti te riferisci au fätu ch'e a l'à vidua o che a nu l'à täntu bala.

Mumin - Be', a tüti e dui. Pe mi, ti säi, üna vidua...

Unuré - Ti ghe l'äi cun e vidue? Se ti vöi propriu c'a ta dighe sana e s-ceta‚ a me mariu   

      cun    Fineta propiu perché a l'à vidua. Se a nu fusse vidua a nu l'averia mäncu sercä.

 

                (U vegliu u pousa u giurnale sciü u descu u aveijina a sua cairega a chela de Unuré pe sentìì megliu. Bastiané e Mumin e se gärdä en ti ögli e Bastiané u se toca a tasta cun ün diu)

 

Mumin - Äi capìu , (u dije gardandu Unuré) äi capìu: Fineta  a l'a  rica e tü ti te marì pe i soudi. U nu   g'a ran da dii. U poveru  Carlin, bon'ärimä, u ghe ne deve avee lasciau  ün bancää cen. Ma se ti vöi ch'a te u digu, a mi Fineta a nu me piaije.

Bastiané - (u rie) A nu sarä bala  mä ti nu pöi negää ch'a l'ä de bale s-ciäpe e di tetin cume   

   due  pasteche maüre. 

Unuré - Nä, nä, nä. Vui dui u nu capì ran. A nu me mariu perché Fineta a l'à rica. Di soudi a n'äi       ascì mi e a Buliö a ne gägnu canti a ne vögliu. A sun änche d'acordiu che Fineta a nu l'à      bala, mä mi a l'äi sercà propiu perché a l'à vidua.

U vegliu - (u se cega pe gardää megliu Unuré) O sacranun, salì scì  c’à la bala!.

Mumin - Unuré, a nu te capisciu ciü. Se ti m'a vöi spiegää.

Unuré - A te spiegu sübitu u me puntu de vista.  (U 's'agariba megliu sciü a cairega cume se u se vurese dää         de  l'impurtansa pe chelu che u stä pe dii, e pöi u repiglia a parlää). Dunca, mi a pensu che üna   giuvena de bona famiglia, cändu a se maria a nu sä ascaiji ran da vita matrimuniale e pe vita matrimuniale a pensu... (u cumensa a agitärse sciü a cairega perché u nu sä cume dii) ...  a   pensu a l'ätu... cume a ve pösciü dii, l'ätu, eccu, durmii en t'ün leitu en dui mä standu   arevegliäi, tantu pe capirse. (U fä üna pecina pausa. I autri i stän chiati aspeitando che u cuntinue.)  Serchei de capirme: pe mi a prima nöite de nose a l'a decisiva perché u mariu u capirä    sübitu se a  femera u ghe piaijerä o u nu ghe piaijerä stää arevegliä. Se u nu ghe piaijerä    alauu u mariu u l'anderä pe u sè camin. (E pe megliu färse capii Unuré u piglia a buteglia de vin e u   a mete da üna pärte ) e a miglièè a se n'anderä pe ün autru. (U piglia ün gotu e uu mete lögni daa   buteglia) Eccu, propiu cuscì. L'omu u se piglierä de autre femere e a miglièè, vistu che u   nu ghe piaije stää arevegliä, a resterä sampre 'une vieille fille', cume i dije i fransesi. U  äve capiu? U v'a ciäru u raijunamentu?

Mumin - Ciäru ün balu belin! Ma che 'vieille fille e vieille fille! A pureria truvää benuscimu ün         autru omu pe stää, cume ti diji tu, arevegliä.

Unuré - (U fa de nä cua mä)  Empuscibile, categoricamente empuscibile! E a te u demustru en t'ün   autru modu. Stäme ban a sante: ün saläme acatau daa Cuperativa u pöö ase menu bon du  saläme vendüu en ta bütega de Metì. U se trätä però sampre de saläme: o u te piäije o u     nu te piäije

Bastiané - Mä che räsä de belinäte ti me conti! Se  chelu  da Cuperativa u nu l'à bon, mi a nu      l'acätu e a me ne vägu a acatärlu  da Metì.

Unuré - Scì, a te pösciu  anche dää raijun. Mä se Metì a l'arasta pe cheiche dì sansa saläme, e a tü             te vegnisse a cuvea de mangiarne  ün tocu, ti nu anderì forse a acatärne ün tuchetin   anche dää Cuperativa?  Mi a pensu de scì; alauu u vö dii che u saläme u te piäije   sampre, cu scie o cu nu scie bon. Se au cunträriu ti me respondi che ti ne purerì fää a   menu alauu u vö dii che a tu  u saläme u te piaije poucu, ansi, u nu te piäije pe ran e che  ti ne purerì fää a menu. Cuscì  u l'a pee femere cändu u nu ghe piäije l'omu; pe a  precisiun l'omu en generale e nu u sè mariu.(Unuré u se gira varsu u vegliu e u ghe     dumanda:).   Luche ti  ne dì, nonu?

U vegliu - Pe auu a nu digu ran; a te stägu numa a sentii.

Unuré - (U recumensa a spiegää a sua idea) Mä se, envece, a üna dona u matrimoniu u ghe piaije alauu        l'accordu u serä felice se ela (u piglia u gotu) e elu (u piglia a butiglia) i durmiran entu stessu  leitu standu arevegliäi (E u se varsa ün  gotu de vin.  Uu  beve e pöi u recumensa). U se  pureria   anche parlää de tradimentu, mä pe ün c'u stä pe mariärse u nu l'àu casu. A ve vögliu   demusträä perché mi, fin a anchöi fantin, a äi decisu  de mariärme. Pe mi, üna vidua a    l'a a miglièè ciü giüsta che ün omu u pösce avee.

Mumin - Salì  ti maa devi  spiegää. (U se  gira varsu u  vegliu) Vui, Antò, luche u ne dive?

U vegliu - Pe auu a nu digu ran. A vogliu vee unde Unuré‚ u vöö andää a sbäte.

Unuré - A ve u spiegu sübitu. Cumensemu dää famiglia. Üna vidua a sä giä  cume färlä      funsiunää,  cume manegiää  i  soudi,cume spenderli  e cume saverli mete da pärte. E tütu  lo perché a s'a  abituä cun u primu  mariu. Pasemu a parlää  du leitu: se üna femera a nu    ä mäi ciantau u se mariu, u vöö dii  che  u ghe piäije stää cun  elu sute e  cuvarte.     Cunclusiun, et ça coupe la tête au toreau, üna vidua a la giä prunta sute tüti i punti de  vista.

Bastiané - Bala rouba!

Unuré - Bala rouba, bala rouba! Cändu ti acati una lampadina ti dì au letricista de pruarterä, nu?!   E ti nu t'arägi mia, se ti  vei che a  s'asande, nu? Änsi, se  a funsiuna,  ti  ei cuntantu.

Mumin - Ma ti ne vöi cugliunää, Unuré? Nui cun e  lampadine  entu leitu a nu g'andemu mia a     durmii!!

Unuré - Mi aa pensu  cuscì. U me piäije che e couse e scie giä stäe usäe, cuscì a sun  següru che   funsiuna. A  nu me vögliu engalutää cändu a caminu. U  nu m'a mäi piaijuu  fää u primu   da scöra e a  preferisciu  enträä en  t'üna galeria cändu e mine  e sun giä sautäe. U nu me  ne fä ran de nu asse chelu cu dä fögu aa micia!

U vegliu - Raijunandu  cuscì,  Unuré, envece  de  üna vidua,  ti te purerì  mariää änche cun üna      bala giuvena giä..., ensuma, che a g'ä giä pruau o, se propiu ti vöi... cun üna bagäsciä.

Unuré - Ah, nä, Antò! Cun üna bagäsciä mäi! U l'a contru i mei principi.

Bastiané - A mi u semeglia u stessu: c'a scie giä andä cun ün suru o cun tanti, che deferansa u         g'a? Urmäi... e sun messe dite.

Unuré - U l'a lì  che ti te  sbägli: una bagäsciä, pe tütu u periudu ca stä en  t'ün burdelu, a  l'a          sampre cuntrulä dai carabinei. Ti  äi mäi vistu  tu  un  carabinéé cuntrulää  e migliéé   cändu e se ne stan en tu leitu cun u mariu? Quindi, cume ti vei, anche pe a lège, a nu l'à   a stesa cousa.

Mumin - A vä ban! Au savia che ti eiri testärdu, mä  a su puntu mäi! Però, Unuré, nunustante a    nostra amicisia, a t'avartu che mi en te l'Isura a sun u Gran Ciaravügliéé. Nu crede che a   te fäse un bon preiju. I Lisurenchi i nu seria d'acordiu.  Mi a te prumetu ün ciaravügliu cun täntu de chelu fracäsu  che u ne parlerä änche i giurnali. Sciü lolì ti pöi stää següru!

Unuré - (U se mete a rii) Ti credi forse de färme pauu? Ma mi a sun cuntantu cume üna Päscä. Luche   ti ne dì de cätru damijäne de vin de Marcora da sincanta litri; pan, üna deijena de metri  de sausisa, di salämi e pe finii deije chilò de bescöti? E se i Lisurenchi i vureran  de ciù, aban, a se meteremu d'acordiu. Regordaté che Unuré u l'ä sampre pagau i sei empegni.

Mumin - (Alargandu i bräsi e gardandu prima Bastiané e pöi u vegliu)  Cume ti  ei  stranu,  Unuré !  U l'a  di  äni  che  a urganisu i ciaravügli en te l'Isura, a Vrigää, a Dusaiga, a Pigna, au Buje e unu m'a  mäi capitau de  truvää ün mariu cuscì pruntu a acetää che tütu ün paise u väghe a ragliää e a fää fracäsu sute i sei barcui. Tüti cheli che a äi vistu i se sun sampre aragiäi.  i än giastremau cume i türchi, i än sercau de resiste, anche se aa fin i än duvüu cede.  Cun tü u se parde u güstu du ciaravügliu.

Unuré - U l'a lì unde a te vuria, Mumin! U l'a propiu perché tüti  i  pensa  de avee  acatau  üna      cousa giä  früsta che i se vergögna.  Mi nä! Mi se a me metu ün vestiu e de scärpe növe u   me semeglia de ase fasciau cume ün figliurun apena nau. Ent'i vestì de tüti i dì a ghe  stägu cume un re. (U s'aisa de sciü a cairega e u se cega varsu Mumin) Mumin,  u  té ciaravügliu u   serà pe mi u ricunuscimentu ciü giüstu  da  mia teuria. (Pöi u se gira varsu u vegliu) E vui,  nonu, luche u ne dive?

U vegliu - Unuré, ti äi cuntau  ciü musse tü en vinte minuti che Musulini en vint'äni!

 

      U cärä u sipäriu.

 

 

 

 

 

                               ÄTU SEGUNDU                  

                                                              

                (Üna  stänsia  cun  ün sufà e due purtrune; ün taurin bäsu; ün cumò cun  de  buteglie  e di goti. Sciü u fundu ün barcun cun e girusie baräe  mä e fenastre  e sun envarte.  Üna porta a  destra e üna  a sinistra. De deföra u se sänte un fracäsu de la Madona. U  l'a  u ciaravügliu.  Chi pica contru de läte de benzina, chi fä ruelää di stuci atacäi a un spägu, chi sbäte de paale contru de casarole o i ghe  pica  suvre  cun ün  bastun. U  se sante  sunää di  corni, de trumbe, di trumbui; cheicun fä s-ciupää di petardi. Chi rägliä, chi cäntä.  U  nu  se capisce  ciü ran.  U fracäsu  u deve  ase forte,  caoticu, cu vä e cu van, cume de unde en ta marina.

                Sciü a scena u g'à Fineta che a camina da üna porta a l'autra. De täntu en täntu a se ferma veijin au barcun e a gärdä a travarsu e girusie. Pöi a cuntinua a caminää. U se vè c'a l'a agitä. De föra u se sante a vuije de Mumin. A l'ä u tonu de chi pärlä au populu. U fracäsu u se cärmä un ün poucu e u se fä sentii suru en te pause du discursu.

 

Vuije de Mumin föra cämpu -  O populu de l'ungia, amighi, en te sta cärmä seira de fin estä,         mentre e rundure e vöra, e cräve e bara e i änsi i rägliä, a se truvemu reunì, tüti   d'acordiu , pe fää respetää a Unuré üna de ciü giüste. de ciü sacrusänte tradisiun che  l'Isura, "terra ubertosa" cume u dijia a maistra Devutina, a l'äglie mäi avüu. Regurdeive  che ün paise che u l'ä vistu arivää i Türchi da l'Äfricä, i Doria da Zena e i tudeschi da  l'Alemagnä e che u stä lì tra u Nervia e u Merdänsu da treijantu lüstri, u nu pöö  renunciää ai sei diriti - (U se ferma un poucu pe dää tampu ae giante de fää un poucu de fracäsu e pöi u   recumensa) - Che u ciaravügliu u scie  üna cousa giüsta e che nesciün u a pöö mete en    descüsiun,u nu ghe ciöve. Tüti u save lucu l'à, mä scicume a vegu lagiü di furasti ch'i ne  gärdä cun i ögli föra da  tasta e i se diran cume i än fau a truvärse ensame a di     caverniculi e a di trugluditi, u l'à megliu che a me spieghe. Pe i furasti, dunca, e pe tüti  i    giuveni che ancuu i  nu  än capiu  l'ärimä du ciaravügliu e i crede che nui a semu vegnüi suru  pe fää du burdelu, a diräi che e statistiche du Guvärnu e än dimustrau sansa umbra  de dübiu, che en  Italia pe ögni omu u g'à sate femere e cuscì  suru üna sciü  sate a l'ä  a  puscibilitä  e a furtüna de mariärse. U capiré dunca che u nu  l'a giüstu che üna de se  femere, a nostra Fineta, a l'äglie gudüu da puscibilitä de avee avüu aa sua tutäle,   cumpleta dispusisiun dui omi. Amighi lisurenchi e furasti, u nu l'a giüstu!  (U fracäsu u se        turna a fää sentii, pöi ciaä cianun u s'amorce). U ne cunsaghe che, cume i dije cheli che i sän   parlää ban, "per questo plus valore" che Fineta a l'ä avüu a deve supurtää un pruciasu   sute i sei barcui. Mä scicume e parole e nu  cunta ciü ran dau mumentu che Fineta e  Unuré‚ i se sun giä mariäi  e  u matrimoniu u  l'a  stau  nun suru  cunsümau, mä   ecunsümau, lascemu che a parlää  i scie i nostri  strumenti musicali pe manifestää  a    nostra  ciärä, envarta, cumpleta disappruvasiun. (U fracasu u munta enfin ae stere).

 

                Pe tütu u tampu du discursu de Mumin, Finetta a l'ä cuntinuau a pasegiää nervusamente)

 

Fineta - (A  bärä u barcun pe lasciää föra u fracasu cu se sänte lu  stessu  e che  u l'acumpagnerä, ciü  o menu forte  tüta    a scena)  Oh  mi povera bagäsciä, e adassu luche a fässu? Mi meschina, u me ghe manchia      propiu salì!

Bastiané - (U l'entra da üna porta. U l'ä üna rösa atacä aa giacheta, un capelin    cun di pendagli, un tambüru sute      u bräsu e ün bastun). Fineta, de sute i fän u  diävu  a cätru. Mumin u nu i pöö ciü  tégne, u     vöö  savee cändu tu  e Unuré u envri u fundu pe tirää  föra e damijäne  de vin, a sausisa      e i bescöti. Mumin  u dije che u ghe vurerä cätru o sinche  damijäne perché u  g'à änche tänti furasti. Mä undu l'à Unuré?

Fineta (A l'à sämpre  ciü agitäà) -  Bastiané, vää a ciamää Mumin e dighe de vegnii sübitu!

Bastiané (U se gärdä en giru) - Lu cu l'à suciasu.

Fineta - Vä' a ciamärlu e vegnì tüti dui!

      (Bastiané u sciorte de cursa e dopu ün minütu u l'ariva cun Mumin. De föra  u fracäsu  u l'’à aumentau.  Mumin u l'’à    vestiu cun üna veglia  palandränä  che a g'ariva fin sciü   i pei. U  l'ä de röse atacäe  au vestiu. Sciü  a tasta u     l'ä ün cilindru cun üna ciüma de faijän. U semeglia ün de cheli che au mercau i vende de tütu.)

Mumin - Fineta, luche u sucede? Bastiané u m'ä ditu che ti ei föra dau semenau. Undu l'à Unuré?

                (Finetta a piglia üna buteglia dau cumò, dui goti, ai  ence e ai dä  a Bastiané e a Mumin. De föra u fracäsu u       cärä, mä u se sentirà sampre cume se u fuse ün acumpagnamentu müsicale.)

Bastiané - Alauu ti vöi parlää?

Fineta - (Cun a vuije bäsä) Unuré u nu g'à: u là scapau!

Mumin - U l'à scapau!! Mä  u nu ve seve  arecampäi anchöi dau viägiu de nose?

Fineta - Nä, a sun arivä da sura. Unuré u l'à scapau a prima nöite de nose. U m'ä ciantau lì, en      t'ün utel e u se n'à andau a Buliö a travagliää. U l'à üna setemana che a nu ne saciu ciü  ran. U l'ä scritu numa che üna cartulina a sa mäire.

Mumin - Fäme capii, Fineta:  perché u l'à scapau? U ve seve rusäi?

Fineta - Nä, a  nu se semu rusäi. A ämu fäitu ün balu viägiu fin  a Zena dunde a ämu sercau ün    utel pe pasää a prima nöite. Prima de enträä ent'u leitu a ämu parlau du ciü e du menu.   U l'à capitau tütu  cändu a g'äi ditu che mi a  eiru ancuu  vergine. A nu ve digu Unuré. U   m'ä gardau cume se a fuse üna mätä e, sansa dii ran, u s'à vestiu  e u l'à scapau.

Bastiané (lasciandu  carää pe tara u gotu) O sacramentu ! Ma che mussa ti g'äi cuntau!

Fineta - Bastiané,  mi a g'äi ditu  a veritä. Perché a ghe devia dii üna bouja? Mi a credia de färghe   ün regälu, u me regälu de nose. E u mumentu adätu pe dirgherù u l'eira propiu chelu.

Mumin (Ün poucu embesuiu) - Be', scì, u mumentu u l'eira chelu. (Mä pöi u ghe repensa e u gärdä Fineta).   Mä dime ün poucu cume u l'à puscibile che ti ei ancuu vergine se ti ei stä mariä cun   Carlin bon'ärimä pe ciü de ün änu? Cändu u eiriai en tu leitu u nu äve mia ditu de giaculatorie pe ün änu, nu?

Fineta (A l'asbäsciä a tasta. A l'ä vergögna) - Ecu... ti vei... u l'à che Carlin, bon'ärimä, a nu ghe l'äi cun  elu... mä cun e femere... ti säi... u nu l'a che u ghe savese fää... u me capì?

Bastiané - Certu che a te capimu! Ma perché ti t'ei mariä cun elu? Ti nu te ne purì acorge prima?

Fineta - E cume a faijia?

Bastiané - U modu u gh'eira.

Mumin - Lascei stää i morti, adasu. U l'a ai vivi che a duvemu pensää .(De fora i cuntinua a ragliää e a               sunää come mäti)

Fineta - Giüstu! Mi a nu vögliu che ün paise u säce che Unuré u nu  vöö vive cun mi perché a sun    vergine. U ghe mancheria! Autru che ciaravügliu i ne faria! Besögna truvää u modu de   färlu turnää da Buliö e vui dui u me devei aiää.

Bastiané - E cume a fämu? Se u returna a semu au puntu de prima. Se u nu te vöö u nu te vöö.         Mä ti säi che u l'à ün balu stüpidu!

Fineta - Läsciä stää Unuré! Mä propiu a mi u me devia capitää: prima mariä a ün bon a ran e       adasu a ün che u nu vöö mangiää en ti piäti puliti... u i vöö bruti elu!

Mumin - Cärmä, Fineta, a pigliärserä u nu sarve a ran. Serchemu ciutosto  de truvää üna  solusiun.  Prima de tütu a  devemu lasciää cuntinuää u ciaravügliu. Se staseira tü e  Unuré u nu ve fäve vee u nu fä ran. Varsu megia nöite i se n'anderän tüti e demän seira i   serän ancuu tüti lì,  mä pe nui u  ghe serä tüta üna  giurnä pe truvää ün modu de  sciurtirne. Ma cume?

Fineta - Ün modu u ghe seria! (I dui giuvani i a gärdä.)

Bastiané - Pärlä!

Fineta - Änche se Unuré u nu me l'ä mäi ditu, mi a cunusciü  e sue idee sciü a rouba növa e sciü  chela giä usä, o cume u dije elu, giä culaudä. (A se ferma ün mumentu per stää a sentii u ciaravügliu    che i lisurenchi i fän sute u barcun e pöi a recumensa) Aban u g'à ün modu suru pe arangiää tütu. (A   gärdä Mumin) Besögna che cheicün me culaude. Mi a sun prunta e tü, Mumin, ti ei sampre  stau u ciü caru amigu de Unuré...

Mumin - (U se läsciä carää de pesu sciü üna purtruna. De föra u fracäsu u munta)     Fineta, mä ti ei mätä!!

Fineta - Nä che a nu sun mätä! Mä se Unuré u raijuna stortu, mi a  raijunu ciü stortu de elu, cuscì a facianda a se drisa. (Poi, cun  cärmä) En fundu, a pensärghe ban, u nu g'a ran de mää    perché, sansa  saverlu, Unuré u ne läsciä fää cume a vuremu. U ne dä cärtä giäncä.

Mumin - Mä che cärtäa giäncä! Unuré u l'à ün brav'omu e u g'à ün limite a tütu.

Fineta - E chi ghe l'anderia a dii. Mi nä e vui mancu, credu. (A se  gira varsu Bastiané). Bastiané, ti pöi  forse negää che mi a sun mariä

Bastiané - Nä.

Fineta - Mariandume  a avia o nu u diritu de enträä en t'ün leitu  cun ün omu?

Bastiané - Sci... nä, aspeita! Ti avi u diritu de enträä  en  t'ün leitu mä cun u te  omu, nun cun ün   omu calunche. U g'à  üna bala diferansa!

Fineta - D'acordiu.  Mä raijuna ün  mumentu: Carlin, u  me  primu mariu, u nu l'ä funsiunau  perché u l'avia tüte e cartucce scäreghe. E mie, però, e eira tüte cäreghe e a e späru cun chi  a vögliu.  U l'a ün diritu che u primu matrimoniu u m'ä acordau e se a nu l'äi usau   fin a anchöi u l'à perché u nu ghe n'eira  besögnu. U diritu, cumunque, u g'à sampre. Mi  a Unuré a nu ghe vögliu renunsiää. Änche se u l'ä de idee sceme a ghe vögliu ban lu  stesu e a nu vegu che üna solusiun: andärmene en tu leitu cun Mumin.

Mumin - Cusì a stämu deventandu tüti mäti! Ti ghe pensi, Fineta, a luche ti di?

Fineta - Certu che a ghe pensu, mä a pensu änche che a me stägu giügandu a mia vita fütüra e a   mia repütasiun e a nu e getu via tüte e due suru pe nu pasää una nöite cun tü. A nu ghe    pensu mäncu!

Bastiané -  (U s'aveijina au barcun, u gärdä, u se toca a tasta cun üna män) Daväle i stän deventandu tüti   mäti. (Pöi u se gira de scätu varsu Fineta)  Nä ti nu me cunvinci! U g'a ün puntu che ti nu äi  cunsiderau. Ti nu äi pensau a luche u dirä Unuré cändu ti ghe cunfeseräi che ti nu ei ciü  vergine. U vurerä savee cume mäi ti eiri vergine a Zena e ti nu l'ei ciü a l'Isura.

Fineta - (Cun ün surisu) T'en fait pas! Cume u dije Unuré. Nu te preocupää.  A elu a ghe pensu mi.      Tü pensa suru a fää u te travägliu.

Bastiané - Che travägliu?

Fineta - (Decisa) Ti devi pigliää u postu de Mumin e fää en modu che u ciaravügliu u cuntinue e   che nesciün u s'acorge de ran. Metite e ragliää che Unuré pe staseira u nu vöö cede;  dighe che u ghe piaije u fracäsu e che ciü i ne fän megliu u l'à. Pe staseira u nu darä a   nesciün mäncu un gotu de vin. Demän u se virä.

Bastiané - (U garda Mumin) Alauu, luche a devu fää?

Mumin - Purcacia Eva! E che autru ti vöi fää! Té (u se leva u cilindru e a palandrana). metiterì.

Fineta - (Mentre  Bastiané u se veste) Bastiané, ti me devi fää ancuu ün  piaijee. Demän de bon'ura ti   deverì andää a Buliö, a sercää Unuré. Dighe che u deve vegnii. Se u te farä de dumande  dighe che a ghe spiegheräi tütu... dighe che a Zena a me sun spiegä mää e che elu u l'ä  capiu pegiu. Se u l'insiste, dighe che ti nu säi autru.

Bastiané - (Parlandu sutu vuije) Ma gärdä tü: u me tuca fää anche u rufiän di mariäi! (U sciorte pe    ragiunge i ciaravugliei.)

Fineta - (A gärdä Mumin sansa parlää. Pöi tüti dui i s'aveijina au barcun e i gärdä daväle. U  burdelu de tole e di  cüvarci sbatüi, de trumbe, de trumbette, di rägli, u cuntinua). Alauu, Mumin, ti te decidi? A   g'andemu en te sta stänsiä?

Mumin - Dime ancuu üna cousa, Fineta: luche ti diräi a Unuré cändu u l'ariverä?

Fineta - (Cun äriä malisiusa) A ghe diräi: "Ti vei, Unuré, tü ti äi ün defatu: ti sauti sübitu aa   cunclüsiun prima ancuu de avee sentiu tüte e campäne sunää. Cändu a Zena a t'äi ditu   che a eiru vergine a te vuria dii che da cändu a eiru restä vidua  nesciün omu u m'avia  ciü tucau.  Però u l'à logicu, cäru Unuré, che esandu stäita mariä cun bun'ärimä de Carlin, propiu vergine, en tu veru sansu da parola, a nu eiru ciü. Mä tü ti nu m'äi dau u  tampu de spiegärlu. Ti ei scapau sübitu sübitu cume üna levre." Ecu luche a ghe diräi!

                (De föra u se sante a vuije de Bastiané)

Vuije de Bastiané - Forsa, lisurenchi! sciüscei en te trumbe! Sunei  a fanfärä! Ragliei, cantei,  sügiei! Fämu  burdelu! Regurdeive du diritu du populu e da tradisiun! Unuré u nu vöö  cede. U dije che u fracäsu u ghe piäje. Fämu en modu che e nostre gure e araste seche,    mä demän'a seira a ga faremu pagää ciü sarä. Sei dumijäne u ne deverà dää, forse änche sate!  (U fracäsu u munta fin ae stere)

Fineta - (A  piglia  pe män  Mumin e a u stiräsä varsu a porta da stänsiä) Sciü,  andemu, Mumin. Ti äi un   duvee da cumpii. U l'a Unuré che uu vöö. Però, a pensärghe ban, chi te l'averia mäi ditu,    Mumin,  che staseira u ciaravügliu, envece de färlu a Unuré, i l'averia fau propiu a tü, a   Mumin u grän ciaravügliee!

                (Mentre i entra en ta stänsiä  u se cuntinua a sentii u fracassu du  ciaravügliu.)

 

                 U cärä u sipäriu.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA PROCESSIONE DEL GIOVEDI’ SANTO

 

 

 

La tradizione

 

 Con  l'Epifania si finiva il periodo gioioso del Natale e iniziava un periodo di riflessione e di pentimento che terminava a fine  Quaresima.  A Isolabona  questo  periodo culminava con  una processione del  tutto  particolare  che  avveniva   la  sera del  Giovedì Santo.

 Si  ritiene  che  la sua  genesi  affondi  le radici  in quei   movimenti  religiosi  che  diedero vita  a  numerose  associazioni   religiose  tra  cui  la  Confraternita  dei  Disciplinanti.   Nilo  Calvini  e  Marco Cassini  nello  studio  sul paese  di  Apricale  fanno  risalire   l'origine  delle confraternite  a  due  movimenti religiosi:   uno  proveniente  da Perugia  nel 1260  e che  si estese  a tutta  la Liguria;  l'altro risalente al 1399, partito dalla Provenza e diffusosi nella Liguria occidentale. Una carta del 1263 citata nel volume di Girolamo Rossi, Storia del Marchesato di Dolceacqua e dei Comuni della Val Nervia (Bordighera, 1903) parla di una Conflaria (sta per Confraria o Confraternita) di Disciplinanti i quali, credendo che la lotta fra le diverse fazioni o paesi fosse un castigo del cielo, andava pubblicamente di paese in paese flagellandosi a sangue. Il corteo dei Disciplinanti, indossanti una lunga cappa con la croce bianca e rossa cucita sulle spalle, preceduto da un rozzo Crocefisso coperto da un ampio drappellone, percorreva i vicoli al canto dei versetti dello Stabat Mater e del Miserere.

Più dettagliati  ragguagli  si  riscontrano  nel  volume  di Ludovico  Giordano, Antichi usi liguri, ( Casale Monferrato, 1933) dove  sta scritto che  i penitenti "...facevano  disciplina  della recita  del Miserere negli  Uffizi dei Morti,  negli Uffizi delle  Tenebre  e della Settimana Santa;  facevano processioni espiatorie  in  occasione di pestilenze; tenevan attaccato al collo un  cordone irto di lamine e di chiodi; talora all'estremità del  cordone  era attaccata una palla di cera indurita, irta di vetri  appuntiti;  a cotesti strumenti passò per traslato il nome di  'disciplina'.  Le  cappe  portavano una apertura quadrata alle spalle onde permettere la flagellazione della parte nuda.”

Occorre ricordare la Confraternita dei Disciplinanti, se  si vuole  trovare una spiegazione alla Processione del Giovedì Santo.

Ed eccone le modalità.

Poco  dopo  il  tramonto, col  calar  delle  prime ombre,  la processione prendeva il via dall'Oratorio di Santa Croce  da  dove  uscivano i  Confratelli della Misericordia che avevano il compito di accompagnare un uomo il cui anonimato - solo i Confratelli dell’Oratorio e il prete erano a conoscenza della sia identità - era assicurato da un cappuccio che gli copriva interamente il capo. Costui vestiva un camice bianco, serrato alla vita da un cordone; una corda gli pendeva dal collo, ai piedi portava solo un  paio di calze di lana, spesse e ruvide, nelle quali era stata inserita una suola. Sorreggeva per uno dei bracci una pesante croce di legno. Si trattava evidentemente di un peccatore che voleva così farsi perdonare tutti i suoi peccati.

Il penitente, doveva percorrere un lungo Golgota che dall’Oratorio andava fino alla chiesa di San Rocco, fuori del paese, per poi riprendere la via del ritorno dopo una breve sosta davanti al cimitero.

Il  prete non  prendeva parte  alla cerimonia  per cui l'aspetto religioso della manifestazione veniva ad  essere dimezzato. Chi  la organizzava erano  i fratelli  della       Confraternita  della  Misericordia  i quali,  al  completo,  seguivano la  processione,  indossando  camici bianchi  e  sanrocchini rossi sulle  spalle; ognuno portava una candela accesa in una mano e il libro delle orazioni nell’altra.  Il loro compito era anche quello di attorniare il penitente e di allontanare gli ostacoli disseminati lungo quella Via Crucis. Poi veniva tutto il paese alla rinfusa.

Per l’occasione, lungo tutto il percorso, sui davanzali delle finestre venivano sistemati dei gusci di lumaca pieni d’olio e muniti di uno stoppino che, acceso, diffondeva attorno una tenue luce spettrale, e nel buio erano simili a lacrime di fuoco.

Solo all’uscita del paese la processione acquistava una singolare particolarità  in quanto, per consuetudine, chiunque aveva la facoltà di coprire di insulti l’incappucciato, di sputargli addosso, di colpirlo alle gambe e alle braccia con rami,  di disseminare il percorso con pietre appuntite con rami spinosi e di scagliargli addosso zolle di  terra friabile  che, sebbene si sbriciolassero al primo impatto, lasciavano purtuttavia   qualche   livido.   Una vera penitenza !

Ma  non tutti i  penitenti accettavano con  rassegnazione  la difficile  prova  per  cui accadeva  spesso  che  l'incappucciato, stanco delle  sevizie,  avesse delle  incontenibili reazioni. Talvolta si limitava a bestemmiare come un turco, tal’altra, appoggiata la croce ad un muro, rincorreva i suoi seviziatori senza riuscire ad acciuffarli, ostacolato com’era dal lungo camice e dal cappuccio che gli impediva di vedere chiaramente. La processione allora si fermava per un poco e riprendeva non appena il penitente si rimetteva la croce in spalla per proseguire il suo  calvario.

Al  rientro nell'oratorio il  Priore delle Anime  offriva  al penitente e ai confratelli un piatto di frittelle di merluzzo e  u  fugassùn, una specie di torta pasqualina fatta con sole erbe.  La  tradizione fu  rispettata fino  al 1946,  subito dopo  la seconda   guerra  mondiale.

L'anno  successivo,   dopo  la morte dell'allora  parroco Don Tornatore di  Dolceacqua,  il successore Don  Seimandi, la abolì in conseguenza degli eccessi cui i giovani trascendevano (spesso le zolle venivano tirate anche a chi seguiva la processione) e perché, dal punto di vista  religioso, capitava quasi sempre che l'incappucciato (l'ultimo della serie fu certo Pastore  Federico), invece di procacciarsi  indulgenze, aumentasse la  somma  dei   suoi  peccati  con  qualche  serqua  di  colorite bestemmie  quando  zolle  'più  compatte  e  sode'   raggiungevano il bersaglio.

 

 

 

 

 Il racconto:  I gerani di gigino

 

 

- Gigino, guarda San Saverio come sta bene vestito da prete. Pensa quando anche tu  indosserai quell’abito!

Così gli aveva detto una volta zia Brigida (lui aveva quattro anni) nel dargli un santino colorato. La stessa scena si era poi ripetuta tutte le volte che zia Brigida era venuta a trovare sua madre ammalata e quando lui si era recato in visita dalla zia. Ora gli regalava un San Saverio,ora un Don Bosco, ora un San Vincenzo. Aveva la mania dei preti zia Brigida e voleva a tutti i costi averne almeno uno anche in famiglia. Povera vecchietta, non chiedeva  poi tanto alla vita: solo un abito nero in mezzo a tutti quelli  variopinti della sua famiglia! Per molto tempo questo suo      desiderio era rimasto nascosto  perché suo padre,  socialista,  e specialmente un suo zio, massone, ateo e miscredente,  ogni  volta che  accennava ad una tonaca, oltre a toccar ferro o altro, se ne uscivano col loro slogan preferito.

-  Al mondo i preti son troppo pochi: bisognerebbe raddoppiarne il ­ numero... tagliandoli a metà.

S’intende, erano luoghi comuni e zia Brigida lo sapeva, ma  tant'é  ogni   volta  che li sentiva pronunciare  era per lei un  colpo al cuore.  Però la sua piccola rivincita l'aveva avuta quando suo padre prima   e lo zio qualche anno dopo, avevano mandato a chiamare ‘una tonaca’ in punto di morte. E’ proprio vero che certi uomini, per quanto si affannino a sostenere che Lui non esiste e che l’aldilà è solo una invenzione, alla fine una sbirciatina, tanto per sincerarsene, ce la vogliono dare.

Ma perché si era detta zia Brigida in quelle occasioni, perché chiamare un prete, un  estraneo? Non sarebbe meglio, ora  che  era rimasta sola  e ricca, averne  uno in famiglia,  sempre a portata di mano? Ora  poteva  anche  permettersi il  lusso  di  fabbricarsene uno su misura facendo balenare, come uno specchietto  per le allodole, la sua ricchezza che nessuno era mai  riuscito  a  calcolare. E Gigino era stato la cavia prescelta.

In  casa sua si tirava il boccone con i denti e spesso e volentieri anche la cinghia; troppe  erano le bocche da sfamare e pochi i bocconi. Ma questo stato di  cose cessò il  giorno in  cui zia  Brigida gli  mise addosso  gli  occhi, due occhi cisposi che già vedevano il nipotino con la cotta  bianca, ritto di fronte all'altare.

Suo   padre,   disoccupato,  non   aveva  affatto  disdegnato   l'interessamento  della 'vecchia, spilorcia, baciapile'  tanto che  ci si era messo pure lui ad incitare Gigino ad avere la vocazione.   Doveva  essere stato uno sforzo tremendo il suo dato che era della  stessa razza mangiapreti dello zio e del padre di zia Brigida.

E  così Gigino ogni giorno  era costretto a sentir  Messa:  la domenica   due,  quella  dell'alba  e  l'altra  delle  undici.  Al  pomeriggio doveva andare in chiesa per il  Vespro  e la  sera  per il  Rosario. Tutto ciò sotto  l'attento e vigile occhio di zia Brigida che provvedeva, oltre che  alla  salute dello spirito, anche  a quella del corpo  di tutta la  famiglia.

A  dodici anni Gigino era entrato il seminario, accompagnato dalle  raccomandazioni e dalla benedizione di zia Brigida. E il tempo era corso  via lentamente tra  quelle mura tetre,  in mezzo all'odore incensi, ai canti gregoriani, mentre il suo corpo cresceva e la  vocazione scemava. Spesso  nella sua mente  si affacciava  una  domanda: "Ma che ci faccio io qua dentro?”

La  risposta gli  fu chiara  quando ricevette  dal  padre  un telegramma:   'Zia   Brigida   morta  intestata.   Stop.   Eredità irrilevante. Stop. Decidi tu. Stop. Papa”

Aveva deciso subito. Un breve colloquio col padre confessore, uno più breve col padre spirituale e poi fuori dal seminario per sempre.

Nei primi giorni tutto gli era sembrato strano e aveva trovato difficile ambientarsi e prendere nuove abitudini. Si sentiva impacciato persino nell’indossare  gli abiti, inconsueti  per  lui, troppo stretti, specialmente i calzoni (lui aveva sempre portato  ampi  mutandoni  di  stoffa  leggera)  che  lo fasciavano eccessivamente e a contatto con le gambe e le cosce gli davano una strana sensazione.

Esteriormente delle sue esperienze in  Seminario era rimasto ben poco, niente anzi. Ma  si accorse subito che  qualcosa in lui era cambiato. Mentre prima  i pensieri religiosi erano stati spesso e volentieri offuscati da visioni profane, ora erano le tentazioni quotidiane ad essere condizionate dalla paura del peccato, dal timore di cadere nella colpa religiosa. Spesso si sentiva sdoppiato e in lui combattevano due nature opposte. Era assodato in partenza che i desideri prima o poi avrebbero prevalso, ma il diavoletto buono, quello che tutti chiamano coscienza, non smetteva ugualmente di tormentarlo.  Amore sensuale ed  espiazione erano  il succo  della sua  vita e  il grafico  era rappresentato da una serpentina continua. Prima il  desiderio  che saliva sino all'apice di quel grafico ideale, fino  a  raggiungere la  colpa, poi l'espiazione che  riportava la curva a  zero.  Dopo tutto ricominciava.

Per  sua  fortuna Gigino, vinto un concorso per segretario municipale,  era  stato costretto a lasciare la sua città ed era stato inviato come Segretario Comunale nel paese di Isolabona. Un borgo di seicento anime; altezza sul mare 108  metri; economia:  viti e  ulivi; molte  donne,  alcune  assai belle.  Se  fosse rimasto in città si sarebbe abbrutito completamente a  forza di  frequentare  passeggiatrici da pochi  soldi. In  quel paese no. Era impossibile peccare troppo, anzi non  era  possibile peccare  affatto. Tanto più  che ora egli  era diventato il  primo cittadino  dopo il Sindaco  e quindi gli  occhi puntati su  di lui erano troppi.

In  un primo momento questo  era stato un bene.  Ci voleva un periodo  di disintossicazione... femminile dopo l'ubriacatura post seminaristica. Si sa, l'ubriacone rinsavito é sempre tentato da un  bicchiere di vino e Gigino in mezzo a quelle donne prosperose, dai   seni  traboccanti,  dalle  cosce  rotonde  come  angurie  ed altrettanto  sode, a quelle  donne simili a  Veneri steatopigiche, aveva un bello stornare gli occhi, macché, sempre là puntavano

In certi giorni poi Gigino soffriva terribilmente; il dolore gli serpeggiava in tutte le vene e lo spingeva ad essere brusco e scostante con gli altri. Ne sapeva qualcosa il sindaco, costretto a subirne gli scatti iracondi da quando aveva demandato a Gigino tutti gli affari relativi al Comune per cui,  invece di essere il suo superiore, era diventato un suo dipendente.

Le donne in paese erano divise in  due categorie: le locali, più libere e, ma per niente cedevoli; e le donne immigrate  dal sud, più restie, più riservate, ma non meno belle e ancor meno cedevoli.

Su queste ultime Gigino si era fatto un’idea che affondava le radici nell’esperienza e nelle sensazioni da lui provate durante la segregazione in seminario.  Allora aveva sempre  pensato  al mondo  esterno come ad un luogo di delizie, d’evasione,  un luogo luminoso  ben diverso da quegli stanzoni bui dove lo costringevano a fare  gli esercizi spirituali. Per quelle donne doveva essere lo stesso. Costrette dalla gelosia dei mariti o dei fratelli a vivere quasi  sempre  rinchiuse,  paludate  in  abiti  scuri,  avvolte in scialli  neri  e  con un  fazzoletto  che  nascondeva i capelli, dovevano, com'era   accaduto   a  lui,   sognare  una  evasione, un'avventura,  uno stato diverso  da quello monacale  a cui  erano assuefatte ormai da secoli.

Un  mattino Gigino, dopo una  notte  di sogni strani,  si era recato  al lavoro  di malumore;  di malavoglia  aveva risposto  ad alcune  lettere e sempre di  malavoglia aveva risposto al Sindaco che gli chiedeva delucidazioni circa il taglio  di pini in  un bosco  demaniale. Dopo, seduto comodamente su una logora poltrona, mentre stava leggendo il resoconto di una partita di  calcio,  una donna entrò senza bussare.

Si  vedeva  a  colpo d'occhio  che  non  si trattava  di  una indigena. Poteva avere sì e no venticinque anni. Il viso ovale con tratti armoniosi era ravvivato da occhi neri, profondi, sensuali, occhi che, pur guardando ogni cosa non vi si soffermavano, ma la sfioravano appena per poi chinarsi a terra. Ma quel movimento di chinare il capo non denotava affatto timidezza,        suscitava invece un istintivo desiderio di porle una mano sotto il mento  per  invitarla ad  alzare il viso  e di perdersi  in quello sguardo profondo, tra quegli occhi resi più lucenti dai raggi del sole che penetrava dalla finestra.  Una   leggera   peluria,  quasi   invisibile,   le  ombreggiava il labbro superiore, rendendo la bocca più accentuata, più sensuale.

Gigino  non l'aveva  mai vista  prima; forse  era  una  delle ultime emigrate  dal sud e probabilmente non aveva mai messo piede   fuori di casa.

 - Desidera? - chiese alzandosi premuroso.

Lei  non rispose, se ne stava impacciata, avvolta nel vestito nero che la fasciava completamente  e che dava al  suo corpo, che doveva  essere bello, un aspetto di anonimità. La donna, dopo aver nuovamente  sfiorato  Gigino  con  lo  sguardo  e  dopo  essersi soffermata un poco più del necessario nell'esaminarlo -  in  fondo  era un bel giovane - aveva abbassato gli occhi e li teneva fissi a terra in un punto indeterminato. In attesa.

- S’accomodi - disse Gigino, indicando una seggiola, - e mi dica che vuole.

Lei si sedette sul bordo della seggiola e a voce bassa disse:     

-  Signor segretario, vengo a nome di mio marito Salvatore. Per un piacere.  Gli hanno offerto un  posto di  guardiano  notturno al mercato  dei fiori di  Ventimiglia e occorre  fare una domanda  in carta  bollata. Lui non sa scrivere, sa! Lei invece é istruito... se fosse così gentile...

E lo guardò fisso porgendogli un foglio di carta bollata arrotolato.

Come dire di no a quegli occhioni! Gigino  si mise subito al  lavoro e si sedette  alla macchina per scrivere.

- Qual é la ditta che lo dovrebbe assumere?

- Il Mercato dei Fiori .

- Come si chiama suo marito?

- Salvatore. Salvatore Chillemi, nato a Enna.

- Professione?       

-  Ma non ce l'ha! - rispose stupita la donna e aggiunse: - La sta cercando.

- Ah, già! Lei si chiama?

La  domanda  gli era venuta istintiva anche se non serviva ai fini  del  documento.  La donna  se  ne  accorse e,  reprimendo un sorriso, rispose 

- Santa.

Gigino  finì di scrivere, poi, porgendo il foglio alla donna,   chiese:

- E' da molto che abita in paese?  

- Due mesi domani.

- Strano, non l'ho mai vista.

- Oh, ma io sì. Abito proprio di fronte a lei. Tra il suo balcone e  la  mia  finestra c'é solo un tetto che ci divide. Io spesso la  guardo quando prende il sole sul balcone e legge.

Un  campanellino trillò nella  mente di Gigino.  Quell'ultima precisazione di Santa non era richiesta, eppure lei l’aveva fatta anche se dopo, abbassato timidamente lo sguardo, si era alzata e si era avviata verso la porta.

Da quel giorno Gigino si era messo a coltivar gerani sotto gli occhi stupiti  dei vicini. Quel giardinaggio casalingo era stata l’unica trovata che gli aveva permesso di sbirciare impunemente nella casa di fronte e di vedere di tanto in tanto Santa che gli  faceva dei piccoli cenni di nascosto dal marito. La curva del grafico di Gigino cominciò in quel tempo a          salire, a salire sempre più in alto.

Un giorno Salvatore ebbe la notifica della sua  assunzione  e  quella sera stessa partì in Lambretta per iniziare i suoi turni di  notte  con grande  gioia di  Gigino e  di Santa  che non  potevano   ammettere che un marito rimanesse disoccupato troppo a lungo.   

Anche Gigino quel giorno cominciò il suo turno di notte.

L'indomani,  però,  la  curva ebbe  una  brusca  impennata e  discese decisamente. Solo a  posteriori l'ex seminarista  si  era  accorto  di aver infranto un comandamento, il decimo. Si pentì, si  pentì amaramente e andò in chiesa ad inginocchiarsi e  a  recitare  il  'mea culpa'. Ne ebbe un gran sollievo e promise a se stesso di  non  affacciarsi  più a  quel  peccaminoso balcone. .Solo  che, dopo  tre  giorni,  si  accorse che  i  gerani  avevano sete,  una  sete  fenomenale,  tanto da avere i fiori penzolanti  e i gambi  molli;  occorreva  acqua per raddrizzarli. E quella sera Gigino, dopo aver  sentito lo scoppiettìo della Lambretta di Salvatore  che  partiva,  innaffiò i gerani e poi, attraversato il tetto, andò anche  lui  a  dissetarsi da Santa che lo accolse a braccia aperte.

Santuzza  era un amore. Gli  sorrideva sempre felice e  a lui  piaceva  accarezzare quella pelle  vellutata, simile ad  una pesca  appena  colta; ne aspirava  il profumo che  gli ricordava  l'odore  degli aranci, dei bergamotti e delle zagare.

Unico   testimone  di  questa  beatitudine era  Ciccio,  un cagnolino  che  Salvatore aveva  addestrato  a tener  lontani  gli importuni  da Santa, ma che  Gigino si era fatto  amico con alcune leccornie,  tanto che ora, quando entrava di notte dalla finestra, rimaneva indifferente a dormire su una poltrona.

Salvatore non si era ancora accorto di nulla, anche se aveva notato uno strano cambiamento in Santa. Era più calma, meno  esigente e, quando poteva, lo evitava con una scusa.

"  Che mi  tradisca?"  pensò un  giorno. No,  non era  possibile. Glielo  aveva  detto  chiaro  e  tondo:  -  Bada,  Santuzza,  sono terribile  nella vendetta! - E il tono con cui aveva proferito la minaccia aveva apparentemente scosso la donna. Eppure Salvatore non era tranquillo affatto; ma come effettuare  controlli se ogni notte era costretto a lavorare al mercato?

Si avvicinava intanto la Pasqua e Gigino un po’ per consuetudine, un po' per convinzione, si recò in chiesa per confessarsi.  Non  aveva però  previsto  la reazione  del  vecchio  prete,  quando gli confessò  i suoi rapporti  con Santa.  Credette quasi che quello uscisse fuori  dal  confessionale  tanto  era  adirato:  lo  sgridò,  lo  redarguì,  lo  invitò  a pentirsi  e  a  scacciare  da sé il demonio. Tanto disse e tanto fece che la curva  di  Gigino cadde a  zero e il  desiderio di pentirsi,  di pentirsi  completamente, totalmente, lo afferrò

- Come  posso  fare, padre? Mi dia una penitenza che mi prostri, che mi impedisca di pensare ad altro.

-  Ce n'é una, figliolo: dovresti fare il Cristo nella processione del Giovedì Santo. Che ne dici, eh?  Ma per farlo occorre il tuo consenso.

Gigino ci pensò un poco. Aveva sentito spesso in quei giorni parlare della processione, ma non ne aveva mai visto una.

- Sta bene, padre. Accetto. Che debbo fare?

- Giovedì, prima della processione, vieni in sagrestia e  ti  dirò   tutto

Dopo  l''ego  te absolvo'  se  n'era andato  ripensando  alla   promessa.

                                                               ****************

La  Processione  del Giovedì  Santo  era una  prerogativa  di Isolabona,  unico  paese  in  tutta  la  vallata  ad  effettuarla. Iniziava al calar delle ombre della sera, muovendosi dall'Oratorio di   Santa   Croce,  adiacente  alla  chiesa.  Di  lì  uscivano  i Confratelli della Misericordia che accompagnavano un incappucciato che portava sulle  spalle una Croce tenendola  per uno dei bracci  e lasciando strisciare  per terra quello  più lungo. Costui,  sconosciuto alla popolazione per tutto il   tempo della cerimonia, aveva una corda al collo, una corona di spine in testa e i piedi fasciati in pesanti calze di lana. L’incappucciato, in testa alla processione, seguito dai Confratelli della Misericordia in camice bianco, avvolti in un sanrocchino viola e la testa coperta da un’infula bianca, doveva andare fino alla chiesa di San Rocco, poco fuori del paese, poi ritornare verso il Cimitero, sostare brevemente di fronte alla Chiesa della Madonna del Grazie e rientrare quindi  nell’Oratorio di Santa Croce.

Drante il tragitto la popolazione aveva la facoltà di tirare all'incappucciato  zolle di terra,  di colpirlo con  vincastri, di seminare per terra, dove passava, roveti, spine, chiodi.

Questi  ultimi  particolari  Gigino non  li  conosceva e don Filippo si era ben guardato dal comunicarglieli. C'era  sempre  una certa reticenza nelle  parole di tutti quando  si  trattava  di parlare di quei particolari. Il giorno successivo, infatti, il Venerdì Santo, nessuno ammetteva  di aver scagliato zolle o seminato spine. Tutti asserivano di aver   assistito  compunti alla cerimonia religiosa;  eppure le ecchimosi  sul viso e sul corpo di  uno di loro non erano certo  opera  dello  Spirito Santo.

Finalmente   quel  giovedì,  il  giovedì  di  passione  e  di  espiazione  per Gigino, arrivò. Nei giorni che lo precedettero non  aveva  più rivisto Santa. Aveva lasciato che i gerani appassissero  per mancanza d'acqua e si era preparato con coscienza  alla  prova  che  lo  attendeva.  Sentiva  solo un po'  di vergogna qualora  si  fosse risaputo che era stato lui a portare la croce e  per  questo  era contento di dover indossare camice e cappuccio, così nessuno lo avrebbe riconosciuto. Dopo la confessione si era a questo proposito messo d’accordo con don Filippo. Sarebbe andato al tramonto in casa sua, avrebbe indossato saio e cappuccio senza che nessuno lo vedesse e, accompagnato dal prete, avrebbe raggiunto l’oratorio, mantenendo sotto quella copertura il più rigoroso  incognito. Terminata la cerimonia,  don Filippo lo avrebbe riaccompagnato in canonica.

Molto semplice, almeno in apparenza. La faccenda cominciò invece ad ingarbugliarsi quando don Filippo, mentre lui si stava vestendo in canonica, gli chiese:

- Figliolo, non vorrai mica andare con le scarpe ai piedi?

- Perché, debbo forse andare scalzo?

- Lo esige la tradizione. Hai portato le calze di lana?

- Io no - rispose stupito Gigino - per farne che?

- Ma lo sai almeno come si svolge la processione?

Quando  lo  seppe  gli  venne  voglia  di  buttare  camice  e  cappuccio  in un angolo, ma si trattenne. Indossò l'una sull'altra  tre  paia di  calze ruvide  e spesse  che il  prete gli  imprestò,  intercalando  tra l'una e l'altra  una spessa suola di  cartone e, dietro  la  promessa  che don  Filippo gli  fece di  avvertire la popolazione a non abbandonarsi ad atti inconsulti e  a  moderarsi,  uscì  dalla  canonica per  recarsi  all'Oratorio. Lì  trovò  tutto  pronto.  La Confraternita della  Misericordia al completo,  con  i  ceri  accesi  e il  libro dei salmi  in mano, aspettava  solo lui,  novello  Cireneo, che avrebbe dovuto portare la croce per tutto il percorso. Questa gli fu messa addosso. “Accidenti quanto pesa!” pensò. Poi gli venne legata una corda al collo e  venne spinto verso il portone.

Davanti all’Oratorio c’era già una gran folla che fece ala quando vide il portone aprirsi e l’incappucciato uscire trascinando la pesante croce. E subito le domande cominciarono ad intrecciarsi.

- Chi é?

 - Non lo so.

 - Mi sembra il figlio della Menica.

- Macché! Questo qui  é più alto, non  lo vedi? Ed  ha anche le   spalle più quadrate.

- E se fosse il  macellaio? Ho sentito  dire che aveva  proposto alla Confraternita di portarla lui la croce.  

- Buono quello! Sa portare solo quarti di manzo.

- Già, e darti anche un sacco di scarti per fare il peso.  E  poi, non lo vedete là il macellaio, in mezzo alla folla.

- Ma allora, chi é?

Gigino  con apprensione seguiva  i vari discorsi  mentre Don Filippo, prima che la processione si avviasse, parlò ai presenti.

- Parrocchiani, anche quest'anno, come nei precedenti, si rinnova  la  tradizione. Come sapete, io non vi posso partecipare, ma gradirei rivolgervi una fervida preghiera e cioè che da parte vostra vi fosse più compunzione e senso religioso e non si giungesse agli eccessi dello scorso anno.  Come ben ricordate...

A questo punto Gigino  cessò di ascoltarlo.  A due passi  da  lui,  avvolta in  uno scialle  nero c'era  Santa in  compagnia  di   Salvatore. 

Il peccato che veniva ad assistere alla sua espiazione!

L'incappucciato  si volse di scatto verso il lato opposto per  non  tradirsi. Avrebbe voluto mettersi  subito in cammino, ma  don  Filippo non   la  pensava  così:  continuava  ad  esortare  e  a  raccomandarsi.

Fu allora che successe il guaio.

Ciccio,  il  cane  di Santa,  sbucato  in  mezzo alla  folla, evitando  i piedi dei presenti, si diresse verso Gigino facendogli mille  feste  e  saltandogli  addosso  uggiolando  festosamente. Fortunatamente   un  confratello  gli  allungò  una  pedata  e  il cagnolino  scappò entrando nell'Oratorio.  Pochi si erano  accorti dell'incidente,  ma tra quei pochi c'era Salvatore. Quando vide il suo  cane fare  le feste  all'incappucciato, un  dubbio atroce  lo assalì  e il dubbio  fu rafforzato da  un gesto che  fece  la  sua Santuzza quando vide la scena.

- Santuzza, componiti! - ringhiò a denti stretti.

‑ Composta sono - rispose quella con un sospiro. Ormai il cane li aveva involontariamente traditi

Gigino  di sottecchi vide Salvatore accigliato che rimuginava l'accaduto  e ne traeva  le conclusioni. Fortuna  per lui che  era incappucciato ed attorniato da molta gente; solamente  ciò  impedì   un  atto  inconsulto da parte  del  marito  geloso,  costretto  a  rimanere anche all'oscuro circa l'identità del probabile amante di  sua moglie.

Eppure,  pensava Salvatore, non  deve passarla liscia  quello là.  Anche se non  sono proprio sicuro  che Santuzza mi  tradisca, nulla  mi  vieta  di fare come gli altri: se mi ha messo le corna, sarà  una vendetta; se no,  contribuirò alla buona riuscita  della   processione.

E, lasciata la moglie, si era diretto verso le ultime case del  paese dove un gruppetto di giovinastri e ragazzi si  era  radunato  in attesa dell'incappucciato. Ognuno teneva in mano  un  vincastro  col  quale avrebbe colpito il  penitente e tutti si  erano dati un  gran  daffare per  cercar rovi,  spine, sassi  appuntiti da  porre  lungo il tragitto. Il secondo atto, il lancio delle zolle, si sarebbe svolto dopo,  all'altezza cioé dei primi orti, là dove c'era materiale in abbondanza e a portata di mano.  

Salvatore  si unì al gruppo  dei più scalmanati e  attese con impazienza. Gigino, intanto, aspettava. Ora avrebbe voluto che don Filippo continuasse a parlare, all'infinito; aveva visto Salvatore partire precipitosamente ed un oscuro presentimento gli diceva che quella  sera ci sarebbero stati  dei guai per lui.  Ma don Filippo terminò la sua esortazione e guardò Gigino avviarsi.

La folla si aprì e l'incappucciato attorniato dai confratelli cominciò a camminare lentamente trascinando  la croce, imboccando la  discesa che dall'Oratorio porta alla strada  provinciale.  Un tragitto, quello,  di  nessun  pericolo.  Il  Priore della confraternita intonava i mottetti leggendo dal Libro dei  Salmi  e qualcuno  rispondeva, ma la  maggior parte discuteva  d'altro: del raccolto,  delle  vigne,  degli   uliveti,  degli  orti.    Altri continuavano a chiedersi chi fosse quel  'coraggioso'  che  guidava la  processione  e se  fosse a conoscenza  dei guai verso  i quali andava incontro.

Quando l'illuminazione stradale cessò e Gigino si  trovò  di fronte  alla strada buia, rotta  solo dai vaghi e  fiochi chiarori che le candele dei suoi accompagnatori mandavano  all'intorno.  La croce sembrò aumentare di peso e il bordo del legno gli  si  ficcò  nella spalla dandogli un atroce dolore.

 'Ah,  Santuzza, Santuzza, quanto costano i tuoi baci!' - pensò. E  subito  dopo  imprecò tra  i denti: 'Mondo  boia!' , sentendo  una  spina  piantarglisi  in  un piede.  Si  arrestò  di colpo  facendo  fermare la processione e, stando in bilico su una gamba, dopo aver  affidato l'equilibrio precario della croce ad una sola mano, tentò  con  l'altra  di  strapparla,  ma  non  vi  riuscì  perché   perse  l'equilibrio e se non fosse stato trattenuto, sarebbe caduto sotto  la  croce. Riprese quindi  il cammino zoppicando,  rallentando  il  passo  e cercando più con i piedi che con la vista di scartare gli ostacoli dal terreno.

Fu allora che  i  Farisei si  scatenarono.  All'improvviso  infatti  sentì  alcune  scudisciate colpirlo  a  tradimento  sulle  spalle,  sul corpo, sulle gambe.  Quanto più cercava di  evitarle,  tanto   più  quelle  piovevano  da  tutte  le  parti,  insistenti,  continue,  con forza.  Ad intervalli  poi gli  arrivava  un  colpo  feroce, secco, tagliente. Dava l'impressione che chi lo vibrava ci  mettesse tutta la sua forza. La prima volta gli strappò un mugolìo  di dolore; la seconda gratificò l'ignoto autore con un   - Maledetto figlio di un bastardo!

Quando  intravide, al lume delle candele, Salvatore in mezzo  a  quella  masnada  scatenata, capì  chi  era  l'autore di  quella   fustigazione e gli venne il sangue alla testa.

-  Porco fottuto, Salvatò,  - digrignava tra  i denti -  maledetto  qual  sei, ne approfitti  senza ritegno, eh? Dai, picchia,  cane  schifoso, ma con tua moglie... Dio che botta!

Il pensiero fu interrotto da una zolla di terriccio che venne a spiaccicarglisi sul  cappuccio, lasciandolo  mezzo intontito e  facendogli ronzare un orecchio per il colpo.      

Era iniziata la seconda parte dello spettacolo. Stavolta però  Gigino  non  era più  il primo attore.  Anche i Confratelli  della  Misericordia venivano presi di mira. Le loro candele accese  e  il  breviario  aperto  in mano  erano  bersagli troppo  allettanti per  lasciarseli sfuggire.

Al  Miserere  mei Deus  intonato  da un  confratello, aveva  fatto riscontro un: 

-  Ma  Cristo,  fate  attenzione,  porcacci  schifosi! -  di  un confratello  colpito in pieno sul  breviario che gli era  caduto a   terra.

-  Dio ti mandi un colpo! - gli aveva fatto eco un compagno a cui era  caduta  a  terra la  candela  che  si  era  spenta  e  andava   cercandola tastando con una mano il terreno cosparso di spine       -  Ma sacramento,  andate tutti  a farvi  castrare!  -  esclamava intanto un terzo che, colpito in pieno viso da una  zolla,  andava avanti  a tentoni cercando di togliersi il terriccio dalla bocca e   dagli occhi.

La  gente al seguito continuava a salmodiare ad alta voce e a seguire  quanto  accadeva  intorno  all'incappucciato.  Gigino  si sentiva  un poco sollevato  perché ora divideva  l'espiazione  dei suoi  peccati con  i Confratelli  che lo  accompagnavano. Non  che fossero tutte rose e fiori. Ad intervalli gli arrivavano dei colpi tremendi  che lo facevano traballare. Di certo dovevano lasciare certi lividi  da indurlo a non uscire di  casa per alcuni giorni.

Intanto dietro di lui i versetti del Miserere  si  andavano mescolando  sempre più a serque di bestemmie che sembravano sfilze di  giaculatorie. Di  ciò si  accorgevano coloro  che stavano  più vicino  a chi era colpito perché, a parte qualche imprecazione che scappava ad alta voce,  strappata da un colpo  più  violento, le altre venivano pronunciate sullo stesso tono  del Miserere, mescolando così sacro e profano senza preoccupazione alcuna. Era ormai nella prassi che la cerimonia seguisse quel canovaccio. Da decenni succedeva la stessa cosa.

Una variante al Miserere erano le litanie perché meglio si adattavano alla bisogna e alla necessità di sfogo che la situazione richiedeva.

Capitava  spesso  di  udire, intercalate  ai  mottetti, frasi  come:

- Turris eburnea.

- Porcu maledettu! - Una zolla era giunto a destinazione. 

- Speculum justitiae.      

- Te vegnisse un furmine! - Un'altra zolla.     

- Refugium peccatorum.

- Gran  figliu  de una troia! - Stavolta era un sasso arrivato a segno.

Pur  avendo  la testa  frastornata,  un ronzìo continuo agli orecchi, il corpo ammaccato in molte parti e una grande stanchezza addosso  per quella croce che  ora pesava enormemente, Gigino  tra una zolla e l'altra rifletteva su quella strana processione  e  si chiedeva  quali frutti potevano  trarne coloro che  vi  prendevano parte e lui specialmente che  vi era andato col  preciso scopo di redimersi  dai  suoi peccati.  Era questa una  redenzione? O  non aveva   ancora  più gravato  la coscienza con  altri peccati?  Si pentì allora di essersi lasciato convincere da don Filippo. Poi si pentì di essersi pentito. Andò avanti così fra un pentimento e un ripentimento, ormai insensibile ai colpi, finché non vide di nuovo davanti  a  sé la  porta dell'Oratorio. Gli  venne tolta la croce dalle spalle, ché lui non aveva più la forza  di fare un  benché minimo sforzo, poi, accompagnato dal prete che era stato in attesa del suo ritorno, rientrò in canonica. Si tolse il camice sporco di terra,  gettò via il cappuccio, si levò le calze piene di spine e, uscito dalla porticina che dava sull'orto, giunse a casa sua senza   incontrare nessuno.

Una  volta in  camera si  gettò sul  letto, ma  il sonno  non  venne.  Ripensava a quella tremenda serata, a Ciccio il cagnetto che lo aveva involontariamente tradito, a Salvatore scatenato,  alle  bestemmie dette e sentite.  Lo distolse da quei  pensieri lo  scoppiettìo di una Lambretta che si allontanava.

- Salvatore va al mercato - pensò, - quindi Santuzza  rimane  sola anche stasera. 

Allora si ricordò che i gerani avevano sete.  Dolorante, pesto, stanco, prese la via del tetto e bussò alla finestra di Santa. Quella aprì.

-  Bella madre di  Dio! -  esclamò la donna  vedendo il suo  viso   tumefatto e aprì le braccia per accoglierlo.

E quella notte Gigino poté così aspirare ancora il  profumo  del bergamotto, delle lumie e delle zagare.

 

 

 

 

 

 

 

 

               

  

 

                      LA PROCESSIONE DI SAN SEBASTIANO

  

 

 La tradizione

 

L'ultima processione risale all'anno 1928. Si trattava di uno strano rito la cui origine sembra essere legata ad un periodo di pestilenza che colpì tutta la regione. Il suo svolgimento era alquanto singolare.  Il prete in testa al corteo attraversava le vie e i vicoli illuminati fiocamente da centinaia di luci prodotte da lumi ad olio posti sui davanzali e dalle immancabili file di gusci di lumaca riempiti di olio e muniti di uno stoppino. Dopo un inizio calmo, durante il quale i fedeli intonavano le litanie dei Santi e si chiedeva a San Sebastiano di tener lontana la peste, il prete, all’improvviso, accelerava il passo e cominciava a correre mentre i partecipanti, in particolar modo i giovani, lo inseguivano al grido di “Piglieiru! Piglieiru! (Prendetelo, prendetelo!)

Il perché di tale  processione viene spiegato da G.C.Pola Falletti nella sua opera Associazioni giovanili e feste antiche: le  loro  origini,  vol.  4°, Milano,  1939,  in  cui si  legge: "Tale processione facevasi in adempimento di un voto fatto  dal  parroco  di  quella comunità per  liberarla dalla pestilenza  forse nel  XV   secolo.  Quel  parroco  avrebbe  assunto  per  sé  e  per  i  suoi  successori  il pio impegno  di farsi vilipendere  nel percorso  di  detta  processione. Così avveniva  che egli fosse  rincorso  dalla  gioventù,  provocando  scompigli  poco adatti  alla  serietà della  cerimonia  che fu soppressa."  E a sopprimerla  fu il parroco  Don  Tornatore   di  Dolceacqua,  uomo  di  indole  schietta,  un  poco  irascibile,  che  non tradiva  la  sua origine  contadina.  Avendo  notato  l'intemperanza  dei giovani,  che raggiungevano   sempre eccessi non consoni al rito, vi pose fine.

Una  spiegazione  della ragione  per  cui quel  primo parroco  promosse  la processione nel  giorno di San  Sebastiano,  potrebbe  trovarsi  nel fatto che, secondo  quanto è stato tramandato,  quel  sacerdote,  durante una pestilenza,  non aveva ritenuto  opportuno,  per incolumità personale, entrare nelle case degli  appestati  per  impartire  l'estrema  unzione. Non  volendo  aver contatti  con  i  moribondi,  si era limitato a camminare velocemente per tutti i vicoli  e  a impartire una breve  benedizione rivolto verso l'uscio dei  morenti.  Cessata la peste e resosi conto di essere venuto meno ai  suoi  doveri, costui promosse  quel rito, lasciandolo  in  eredità  - come spiega il Pola Falletti - ai suoi successori. 

 

 

 

 Il racconto :     Elio e gli scacchi                         

                             

        

La  prima  volta  che vide una  scacchiera  con tutti  quei  pezzettini  di avorio bianchi e  neri, Elio aveva otto anni,  la stessa  età  in cui Rzeschewsky  vinceva grandi maestri  con una  facilità  tale  da  far pensare  che il gioco  degli scacchi fosse  affine a  quello  degli aliossi. A dir la verità quella prima volta il gioco  così statico, lungo e monotono, non lo aveva interessato affatto e  si  era dimenticato subito della  sua esistenza. Fu solo  a dodici  anni,  l'età  in cui  Capablanca già dava  scacco matto a  eccelsi  giocatori,  che si riaccostò al gioco, stavolta per impararlo. Era  stata  la rottura di una gamba ad aprirgli mondi favolosi pieni di  re, di regine, di cavalli e di torri che avevano popolato  la  sua  fantasia divisa in minuscoli quadratini neri e bianchi.

Da  allora  aveva seguitato a  giocare con  quei  personaggi  fiabeschi  fino a farne  uno scopo della  sua vita. C'è  gente che  questo  scopo lo  trova nell'alcool,  nel lavoro,  nel vizio:  lui    l'aveva trovato negli scacchi.

Quasi  senza  accorgersene,  terminate le  magistrali, si era  ritrovato  pedagogo, scacchista perfetto e repubblicano convinto e  questa  sua  ultima convinzione  la  doveva proprio  agli scacchi.  Molto spesso, negli ultimi tempi, vivendo le partite con la stessa  intensità  con cui  altri vivono  le esperienze  amorose,  si  era  accorto di parteggiare per quelle povere pedine derelitte, gettate  allo sbaraglio al solo scopo di aprire una strada ora al  re,  ora  alla  regina, ora ai cavalieri. A metà partita quella povera plebe  indifesa  o difesa con un falso scopo si trovava decimata, ridotta  a  metà, a un terzo,  mentre lui, il re,  troneggiava impettito in  fondo  alla scacchiera, spesso  arroccato, con una  torre che  gli  proteggeva il fianco.

Che  le angherie alla plebe fossero una ingiustizia era  palese,  quello che non gli andava giù era che le ingiustizie e le  angherie a danno del popolo entrassero pure nei giochi. Aveva  quindi  preso  ad  odiare i re per cui il suo gioco era  divenuto  assai strano e contorto. Quasi sempre, mentre da un lato si gettava con  tutte  le  sue  forze  sul  re  avversario  per  annientarlo,  dall'altro, nel difendere il  suo re, agiva in  modo così bizzarro e sconclusionato da far ammattire l'avversario e da far venire i sudori freddi al suo misero re.         

Nei periodi in cui più acuta era la sua  mania  regicida,  emulava  molto spesso Aliechin, giocando dieci, dodici partite per  volta e mettendo in difficoltà dozzine di re.

Nemmeno l'ultimo conflitto mondiale, di cui era  stato  anche  lui  una  pedina, lo aveva scosso da questa mania, anzi,  caduto  prigioniero  degli  inglesi  a  El-Alamein,  aveva  trascorso  una  prigionia  dorata fatta di  lunghe partite, di  interminabili  ore  passate di fronte a quel minuscolo campo di battaglia in cui aveva  mosso con perizia le sue armate molto meglio di quanto non avesse   fatto Rommel in Africa o Eisenhover in Europa.

Ma  poi,  finita  la guerra,  era  ritornato  a casa  e in un  momento  di abbandono, lontano dalla scacchiera, aveva sposato una  ragazza assai più giovane di lui.

Al  ritorno  dal  viaggio di  nozze,  quando  la  novità  del  matrimonio  non  fu  più tale,  il  vecchio  amore sopito,  ma non  dimenticato, ritornò di colpo prepotente e insistente.

Elio, vinto un concorso per maestro e inviato a Isolabona, un  minuscolo  paese della Liguria  di Ponente, aveva  stentato  assai  prima  di trovare un antagonista degno di competere con lui nel difficile gioco degli scacchi. Le conoscenze dei modesto villici non andavano oltre una partita a tresette o a scopa o a tarocchi, giocata nell’osteria del paese, in mezzo ad un vocìo continuo e persistente dove la concentrazione che gli scacchi richiedono non era nemmeno immaginabile. Di insegnare il gioco alla moglie neanche a pensarci. Elda  avrebbe  preferito  fare  un  bucato  piuttosto  che mettersi a  ponzare su quei  pezzettini di legno  -  perché  scacchi di avorio lui,  modesto  maestro, non sarebbe  mai  riuscito  ad averne. Non che Elda facesse dei bucati molto spesso;  per la verità non ne aveva mai fatto uno. Ma Elio la pensava così  tanto per aver un termine di paragone.

Elda  preferiva,  invece,  passare  ore  e  ore  davanti allo  specchio, a trascorrere il tempo leggendo frivole  storie  d'amore  su  romanzetti  da quattro  soldi, a guardare soap-opere o telenovelas alla televisione, a sognare  ad occhi aperti  o a  spettegolare  con la moglie del sindaco e del segretario comunale.  Da  quei  conciaboli  lui si  sentiva  escluso, in parte  perché i pettegolezzi lo infastidivano, in parte perché si sentiva vecchio,  più vecchio di quelle tre pappagalline cinguettanti.

Però, a forza di cercare, un amico se l'era trovato pure lui,  a sette chilometri dal paese, nel vicino borgo di Pigna: il medico  condotto, fanatico anche lui di scacchi.

Il dottor Manzi non aveva fatto in alcun modo  degli  scacchi  una  ragione di vita; li aveva accettati come l'unico mezzo capace di rompere la monotonia di una vita paesana e l’unico modo possibile per impedire che la mente si ottundesse. Il “nulla die sine linea” dello scrittore  era  diventato  per  lui  "nessuna  settimana  senza  una  partita".  Di  comune  accordo  con l'amico  maestro, aveva deciso di dedicare il mercoledì e il  venerdì  sera agli scacchi e Elio in quelle due sere partiva contento con la sua  motoretta alla volta di Pigna.

Come  "campo di battaglia" avevano infatti scelto la casa del  medico: un ambiente più calmo, più raccolto, privo di chiasso e di  donne. Il dottor  Manzi era scapolo e  l'unica donna che  bazzicava  la casa era una  vecchia zia che si  ritirava presto la  sera  in camera sua a biascicar rosari e a cadere presto nel sonno  tra una Avemaria e una giaculatoria. Durante quelle poche ore Elio  dimenticava   tutto:  dimenticava  gli  alunni   che  lo  facevano  ammattire,  i compiti da correggere, il non lauto stipendio. Tutto  veniva  temporaneamente gettato dietro le  spalle; rimanevano solo  torri,  re, regine, alfieri,  cavalli e pedine  a popolare la  sua  mente e a divertirlo. 

Anche Elda passava nel dimenticatoio.

Strano matrimonio il loro!

Perché  lei, più giovane,  bella, avesse sposato  proprio lui  non  l'aveva mai capito, pur  essendoselo chiesto più volte.  Lui,  non  bello, non brillante, ricco ancor meno, s'era trovato sposato  a  quella donna quasi senza saper come. C'erano stati pettegolezzi  che   gli   erano  giunti   all'orecchio   nel  breve   tempo  del  corteggiamento,  ma li aveva tutti allontanati con fastidio e noia  come  si  cacciano i  noiosi tafani che  d'estate si posano  sulla  pelle per pungerla a sangue.

Subito dopo il matrimonio lui l'aveva amata intensamente, poi  col  passar del tempo  le aveva voluto  bene e ora  la considerava  come una cosa cui si è attaccati e se anche non la  si  desidera  più  ardentemente purtuttavia la si tiene come una reliquia e guai  a  chi osa profanarla. Che la Elda fosse una reliquia era cosa ben  lungi  dalla  verità. Le  teche e le  urne non facevano  per lei e  tanto  meno  le piaceva  essere  lasciata sola  nell'intimità  del  santuario casalingo.

Le prime sere in cui Elio la lasciò per recarsi dal suo amico  dottore  le trascorse facendo visita alle sue amiche, ma alla fine  si stancò dei soliti pettegolezzi, delle solite  partite  all'uomo  nero,  inframmezzate  da discorsi  vacui,  inutili senza  sugo.  E  cercò qualcos'altro.

Ma  quale svago poteva offrirle quella monotona vita di paese  se non quello di tradire il marito?

Qualcuno  forse arriccerà  il naso  al solo  pensiero che  il  tradimento  sia  uno  svago, ma  in  effetti  è proprio  così.  Il  tradimento  non è altro che  una piacevole distrazione; se  poi ad  esso si aggiunge un pizzico di 'suspense' allora il  cocktail  che  ne  vien fuori  è qualcosa  di veramente  eccitante. Prendiamo  ad  esempio   il  tradimento  in  un  paese.  In  quell'ambiente  così  ristretto  il pizzico di  'suspense' è dato  dalle difficoltà  che  sorgono e che impediscono di poterlo attuare liberamente.

Il tradimento in città è assai più semplice. In città  te  ne  puoi  andare nel primo alberghetto un po' fuori mano e puoi essere  sicura  che nessuno si accorgerà di nulla, ma in paese? Vai forse  all'unica locanda dove tutti ti conoscono? Oppure te ne  vai  nei  campi  dove  può spuntare  sempre  qualche contadino  a chiederti: 

- Buongiorno, signora,  suo marito come sta?

In un paese quindi il tradimento è assai più difficile, ma al  tempo  stesso  più stimolante.  Le  difficoltà  da  superare fanno  parte  del gioco e  le astuzie, i  sotterfugi, sono la  componente  stessa  del  piacere  che si  acuisce quanto più ardue sono  le  difficoltà e quanto più machiavelliche le astuzie adottate.

Nel  caso di  Elda però  le precauzioni  prese non  erano  né  elaborate, nè sottili. Data la conformazione della casa ad un solo  piano  e con un minuscolo  giardino, la sola astuzia  adottata per  non  farsi  sorprendere dal  marito era stata  quella di porre  il  secchio  della spazzatura dietro la porta; se Elio fosse arrivato,  l'amante  avrebbe avuto tutto il  tempo di fuggire dalla  finestra nel giardino e di dileguarsi nella notte.  Case all'intorno  ce  n'erano  poche  e  sulla destra  poi  l'enorme  mole della  chiesa  gettava l'ombra, nelle notti di luna, su tutta la casa.

Favorita   quindi  dalla  natura   del  luogo  e   ancor  più  dall'innocente  passione del marito che  la lasciava sola per  due  sere alla settimana, Elda si era messa a giocare pure lei  con  un  giovane  commesso di banca,  un ragazzone bruno,  atletico,  bello  come  una scultura greca,  ma fatuo e  vuoto come una  campana. In  certi divertimenti però l'intelligenza conta molto poco.

I mercoledì e i venerdì passarono quindi allegramente  per  i  due  coniugi, mentre gli altri  giorni erano meno monotoni  perché   occupati dal ricordo e dall'attesa.

Purtroppo  c'è sempre l'imprevisto a guastare le cose e negli  umani  rapporti. Esiste, infatti, un  sentimento  che, pur  essendo  buono,  gentile,  lodevole, finisce un bel  momento per rovinare le  cose.  Questo sentimento è l'amicizia.

Un  buontempone  disse  una  volta:  "Una  delle  più  grandi  consolazioni  di questa vita è l'amicizia e una delle consolazioni  dell'amicizia  è avere qualcuno  cui confidare un  segreto. Ora  -  proseguì   quell'indimenticato  conoscitore dell'animo  umano - gli  amici  non  vanno  a due a due come gli sposi, ma ognuno di noi ne  conta  più  di uno  per cui un  segreto rapidamente si  spande, si  allarga a guisa di macchia d'olio su una carta assorbente.”

Con  una sottile intuizione  i cinesi hanno  spiegato  questo  caso facendo uso di una matematica a dir poco strana, ma efficace.  "Se  tu solo sai un segreto, sta pur certo che esso rimarrà sempre  tale.  Se però tu lo sveli ad un amico, sappi che sarete in undici  a  saperlo  perché tu,  1, accanto al  tuo amico, lui  pure 1,  farete  11;  se  poi tu lo dirai, sempre per amicizia, ad un terzo sarete  tre  1,  cioè 111  e così via. Quando  un segreto  è in   possesso di sei, sette persone è ormai di dominio pubblico."

C'è però una ben più solida amicizia di cui né il benpensante  su   accennato,   né  i  cinesi hanno tenuto conto nelle loro considerazioni:  una  amicizia  disinteressata per la quale  un  segreto  rimane tra due persone e resta così segreto che una delle  due  non conoscerà mai il  volto dell'altra. Ne conoscerà  solo le  lettere, quelle anonime, quelle appunto che servono per svelare il  segreto.  E  un  bel giorno Elio tra una lettera della nonna e una  circolare ministeriale ne trovò una scritta con una grafia a zampe di  gallina  che diceva: 

"Charo amiqo tua  molie ti tradisce.  Un  amiqo".

Ecco  dove si vede la  vera amicizia disinteressata anche  se   analfabeta !

Allo  choc iniziale che  l'aveva colpito si  era aggiunto  un  fastidio,  un'uggia per quegli  errori, anzi orrori di ortografia che a lui, maestro di scuola, sembravano altrettanti insulti. Ma poi si era fatta strada nella sua mente l’altra idea, quella di Elda e la grammatica gli era parsa nulla al confronto. Elda tradirlo! Ma come e perché? L’aveva forse mai tradita lui? pensò. No! E allora perché lei sì! Che le aveva fatto per spingerla su quella china?

Nel suo studiolo, con la lettera mezzo sgualcita in mano, andava su e giù come un vecchio orso ingabbiato, con la testa in fiamme e il cuore pesante.                                                              

 "Che fa un uomo - si chiese - quando  riceve  una  lettera simile?"

Cose da fare ce n'erano molte ma  tutte impossibili all'apparenza. Poteva chiedere chiaro e tondo a  Elda  se  lo  tradiva: ma  oltre  ad  essere una  domanda  per lui  difficile  da porre  alla moglie,  la Elda  avrebbe sempre  potuto  mentire,  anzi  avrebbe  certamente  mentito.  E'  mai   possibile  immaginarsi  che  una  donna  alla  richiesta  del   marito:   "Mi  tradisci?" lei risponda:"Sì, perché?”

Risolvette quindi di confidarsi con l’amico dottore.

Quel  mercoledì sera partì a malincuore  e per la prima volta  in vita sua giocò male a scacchi.

‑ Che ti succede, Elio, non  ti senti bene?  - gli chiese l'amico  dopo aver vinto due partite e in procinto di vincere la terza. - Non mi  sembri tu stasera. Qualcosa non va?

- Sì,   qualcosa non va, ecco, guarda tu stesso! - Trasse di tasca la  lettera spiegazzata  e la  porse al  medico. Il  dottor  Manzi inforcò  gli occhiali, la lesse, guardò in viso Elio, la rilesse e   gliela porse

- E allora? - chiese Elio aspettandosi una soluzione

-  Eh, amico  mio!  - rispose  l'altro allargando  le braccia.  - Chiedimi come si fa una laparatomia e all'incirca te lo spiegherò, ma  in  queste  cose che vuoi che ti dica  E poi io tua moglie la conosco appena .

-  Ma  ti sembra  possibile che Elda  abbia potuto farmi  una cosa  simile?

- Eh! - rispose il dottore, aprendo di nuovo le braccia con gesto  rassegnato.

- Ma quando è potuto accadere?

- Questo non è poi molto difficile da stabilire - fece il medico.- Ritengo  che il  mercoledì e  il venerdì  siano i  due giorni  più probabili. Tu qui a giocare a scacchi e lei là...

- Ah, ma io mi vendico, oh se mi vendico! -  fece  Elio,  sentendo l'ira assalirlo improvvisamente.

‑ Adesso non esagerare, - intervenne l'amico vedendolo infuriarsi e  agitarsi. - Quando si  sa che il male c'è, occorre trovare  la cura  più adatta e non un rimedio controproducente. Per prima cosa devi  essere sicuro  che la  lettera anonima  dica la  verità.  In seguito dovrai tu stesso trovare una soluzione, sei d'accordo?

Elio  approvò scuotendo  il capo.  Stettero tutta  la sera  a discutere  il pro e il contro della situazione sotto gli occhi, si fa per dire, di quei pezzetti di legno che, immobili nelle caselle bianche  e  nere, sembrava  che  li guardassero  sogghignando;  in special  modo quella regina  bianca e quel  cavaliere nero,  l'una accanto  all'altro, i quali  pareva si burlassero  di quel  misero reuccio arroccato in un angolo. Da quel lungo discorso venne fuori un'unica  soluzione : Elio  per qualche sera  doveva far la  posta alla  moglie per sorprenderla in flagrante. Pazienza se le partite scacchi dovevano essere rimandate!

Il venerdì successivo, mentre la tramontana soffiava feroce e nell’aria si avvertiva un presagio di neve, Elio finse di partire  per la solita partita a scacchi; in realtà si fermò poco fuori del  paese,  di  fronte  alla chiesa  di  San  Rocco, proprio  dove  un  pilastro  di sostegno posto ad angolo con la facciata, formava con  essa un cantuccio attorno al quale il vento sibilava senza  penetrare.

Lì,  intirizzito  dal  freddo  e  dall'umido  che  veniva dal  torrente sottostante, con lo sguardo ora perso nel buio, ora fisso  su  una finestrella  sporca che  permetteva di  vedere  dentro  la  chiesa rischiarata da due tremolanti candele, stette in attesa che  l'amante  di sua moglie, sicuro della sua assenza, si decidesse ad  entrare in casa.

-  Ma perché, - mormorò  - quel dannato anonimo  non ha atteso  la  primavera  per  inviarmi quella  lettera  sgrammaticata!  Ora non sarei qui a battere i denti per il freddo.

L'idea che lui, onorato maestro di scuola, uno  dei  pilastri della  élite paesana, stesse facendo una figura barbina gli sfiorò d'un  tratto la mente,  ma il suono argentino e improvviso  delle campane  lo scosse.  Chissà se  la Elda  e il  suo amante  avevano sobbalzato pure loro a quei rintocchi! E poi, perché  le  campane suonavano a quell’ora di notte? Che strano paese quello in cui era capitato per volere di un Provveditore bisbetico! Le cose più assurde vi  potevano  capitare  senza che  nessuno  si  preoccupasse o  si incuriosisse.  Ad esempio, perché suonare le campane a quell'ora? Certamente, pensò Elio don Buschini si è inventato qualche nuova cerimonia notturna o segue qualche vecchia tradizione valida ancora e solamente per quell’angolo perduto della Liguria.

E la verità, nonostante Elio avesse fatto solo una supposizione, era proprio quella. Don Buschini non aveva inventato nulla di nuovo, perché il freddo, congelandogli le idee non glielo avrebbe permesso. Stava solamente avvisando i fedeli che tra poco, e con loro grande gioia e sollazzo, si sarebbe ripetuta la tradizione e sarebbe iniziata la processione di San Sebastiano.

Che l’aggettivo ‘strana’  ben  si   adattasse  a  quella  processione  è un  fatto innegabile.  Da che  mondo è  mondo  dire  processione è pensare ad un lungo corteo che si muove per le vie a  guisa  di un lento serpente il quale, stanco per il caldo o appesantito  per  un pasto abbondante, striscia  con ampie volute ora  a destra  ora a sinistra tra gli sterpi.  Anche in quel paese le processioni  avevano di solito  lo stesso ritmo  e le stesse  cadenze che altrove,  ma la  sera del venti gennaio, giorno di San Sebastiano,  la  processione   aveva una caratteristica completamente diversa.

Tutti  i  fedeli,  armati di  fiaccole  (perché per consuetudine l'elettricità  veniva  interrotta per tutta la durata della cerimonia) si pongono  ai  lati del  portone principale  della chiesa  in attesa che il sacerdote  esca. Questi, indossata  sulla nera tonaca  una  bianca  cotta, dopo aver bisbigliato alcune preghiere, tenendo una piccola  croce  in mano, si  avvia con passo  veloce e poi,  di  corsa,  si  dirige  verso  una  delle tante  strette  viuzze  che si  aprono a raggiera  dalla  piazza della  chiesa.  Un istante  appresso,  non  appena  il prete sparisce alla vista dei fedeli, tutti quanti, dal  più  vecchio  al   più   giovane,  si   gettano alla rinfusa  all'inseguimento, urlando a più non posso "Piglieiru, piglieiru !"  e  inframmezzando alle urla contumelie  a non  finire. Poiché  nel  buio,  in mezzo a tutti  quei vicoletti che si  intersecano, tra le  torce  che si spengono e i lumini a olio che dai davanzali mandano  più  puzza che luce, il  prete si dilegua, la  processione viene a  spezzettarsi  in molti tronconi di fedeli che corrono come  disperati  alla  ricerca della loro preda sempre urlando, confondendosi a vicenda e  urtandosi  nel buio.  Capita assai  spesso che  in  certi  stretti  passaggi,  mai modificati dall'alto  medioevo in poi,  tra  quelle  mura  granitiche  spesse  qualche  metro,  due  gruppi  di  fedeli  provenienti  da  opposte direzioni si mescolino  violentemente a  guisa  di  dannati  danteschi e  si  gridino  anche loro  "ontoso  metro".  Qualche contuso in quelle occasioni ci scappa sempre.

Quando  alla fine il  povero prete, sudato  e ansante,  viene  fermato, allora da quel momento ha inizio una vera processione che  si dirige verso la chiesa con la lentezza che si addice ad una cerimonia sacra.

Stabilire da dove traesse origine una tale cerimonia  è  cosa  assai  problematica.  Per  saperlo bisognerebbe  sfogliare  vecchi  libri. Ma se qualcuno volesse addentrarsi nei meandri del folklore  per  avere subito  una risposta,  di quelle  che  accontentano  la  curiosità  e la fantasia, non  avrebbe che da interrogare  qualche  vecchietta la quale, tra una gugliata e l'altra, gli racconterebbe   la leggenda del cavaliere nero e dei suoi valletti.

"Vedi,  ragazzo mio, molti anni addietro, anzi secoli, attorno al paese c'erano solo boschi, nere foreste attraversate  da  pochi  sentieri.  I nostri padri allora vivevano felici e contenti mentre  nel  mondo, da  notizie che  qualche raro  mercante  riferiva,  il  cavaliere nero e i suoi valletti seminavano peste, fame e guerra e  la gente moriva come mosche.

"Una sera però un boscaiolo giunse trafelato sulla piazza del  paese,  urlando:  -  Li ho visti, sono nel bosco giù in fondo alla   valle e stanno salendo verso di noi!” “Ma chi?” - gli chiesero da tutte le parti.  “Lui,  arriva lui,  il cavaliere nero  e i suoi  valletti. Stavo tagliando  la legna e li  ho visti. Sono tutti  vestiti di nero  e  incappucciati.  Sono pronto a  scommettere che sotto  gli abiti  -  aveva  aggiunto  battendo  i  denti  dalla  paura  - c'è  solo  lo scheletro.”

"Le  madri avevano  radunato i  figli e  stavano tremando  di  terrore; gli uomini non sapevano che fare. Se il  boscaiolo  aveva  ragione, che avrebbero potuto fare loro contro degli  scheletri?   Ucciderli? E come si fa ad uccidere uno scheletro?

“Su  consiglio del  prete, tutti  si rintanarono  in  casa  e  attesero in preghiera sperando che il cavaliere nero fosse solo di  passaggio.  Ma il cavaliere  nero e i  suoi valletti erano  di ben  diversa idea; si fermarono in paese e cominciarono  a  scorrazzare  per le strette viuzze in cerca di prede. I poveri  contadini  che,  ignari  di quanto accadeva,  ritornando dal lavoro si imbattevano  nel  cavaliere nero, lanciavano  urla terrificanti la  cui eco  si  ripercuoteva  sotto le volte delle  viuzze, tra quegli archetti rampanti con i quali sembrava che le case si sostenessero a vicenda.  Entro le case poi la paura faceva tremare ognuno e tutti  si guardavano bene dal porre la punta del naso  fuori  dell'uscio.  Dopo  alcuni giorni però  la situazione divenne  insostenibile. Si  era, infatti, in pieno inverno; i viveri si  erano  assottigliati,  la legna era sparita a poco a poco nell'antro del caminetto  e  il  freddo  penetrava da ogni fessura. Occorreva uscire per non morire  in casa. Ma fuori c'era lui, il cavaliere nero e i suoi valletti!

" Di ciò si rese ben presto conto il prete che per tutto quel  periodo  era stato al freddo,  in chiesa, inginocchiato di  fronte  all'altare,  pregando  che  Dio liberasse i suoi  figli da quel flagello. Ma le urla sempre più rabbiose di quei demoni scatenati,  ululanti notte e giorno per mancanza di preda, gli  fecero  capire  che  se voleva   liberare il  paese occorreva  un  sacrificio,  un  olocausto.  Decise, quindi, per il  bene dei suoi parrocchiani  di  offrire  se stesso.  Indossata una  bianca cotta  e  afferrato  un  crocifisso, uscì dalla chiesa correndo e sempre correndo per tutte le vie attirò su  di sè il  cavaliere nero e i suoi valletti.  I  paesani,   folli  di  terrore,  udirono  le  urla  bestiali  degli  inseguitori  che si perdevano nei  boschi ammantati di neve  e che  riecheggiavano   tra  le  gole   montagnose  sbarrate  da   grossi  candelotti di ghiaccio.

"Da  quel giorno l'incubo ebbe fine. Il buon prete non fu più  veduto e con lui sparirono il cavaliere nero e i suoi valletti.

"Ecco perché. figliolo, il venti di gennaio di ogni anno, nel  giorno di San Sebastiano, ha luogo la processione che  può  parere  così strana a chi non conosce la leggenda"

E Elio la leggenda non la conosceva perché altrimenti avrebbe ammirato quel provvidenziale gambitto  dato dal prete  bianco  cavaliere nero.

Infreddolito, stropicciando i  piedi e  soffiandosi  tra le  mani,  ascoltava i rintocchi delle campane, incuriosito e al tempo  stesso infastidito.

"Ci  manca pure una funzione religiosa" pensò. "E ora che faccio?  Se  per  caso i  miei sospetti sono  realtà e trovo  mia moglie in  compagnia  di qualcuno, non posso nemmeno vendicarmi perché con la  chiesa così vicina a casa lo verrebbero a sapere  tutti.   Dovrei,  quindi,  aspettare? Già mentre quelli... No, no,  meglio  andare; voglio sapere subito e togliermi il cruccio. Dopo giudicherò quale  sarà la via più conveniente da seguire."

Si avviò lentamente e, nel timore di imbattersi in qualcuno, tagliò per i campi.    Sarebbe arrivato a ridosso della sua  casa  e,  non  visto dalla strada, si sarebbe intrufolato furtivamente dalla porta per scoprire   se...

"E  se non ci fosse  nessuno? Se la  lettera anonima fosse  stata solo una bravata, una cattiveria?"

Al pensiero si fermò di colpo. "Ma perché uno scherzo! E poi perché a  me! Ho forse mai dato l'occasione di prestarmi ad uno scherzo? No. E allora  perché mi avrebbero preso di mira, così, senza  una ragione! No,  no, chi  ha inviato  la lettera  sapeva quello  che diceva. Che  l'abbia fatto con  una certa  compiacenza maligna è evidente" concluse "ma non riesco lo stesso  a  capire la ragione. Lo odio. Però, se è vero, gli sono in ogni caso  grato  di avermi aperto gli occhi”.

Riprese  a camminare nel buio inciampando spesso nelle pietre  sparse qua e là lungo il sentiero e scostando, quando lo poteva, i   rami umidi e freddi che tentavano di colpirlo al viso .

Proprio in quel frattempo don Buschini, indossata una bianca cotta  e  scelto  un  piccolo  crocifisso  di  legno,  leggero   e  maneggevole (avrebbe avuto bisogno di tutti i movimenti liberi per  correre  meglio)  si apprestava  a  dare inizio  alla processione;  aspettava  solo  che  il messo  comunale  staccasse l'interruttore  generale  nella cabina elettrica e  facesse piombare il paese  nel  buio più completo, poi si sarebbe lanciato di corsa nella prima viuzza, inseguito dalla popolazione armata di torce fumiganti.

Elio stava già per raggiungere l'uscio di casa quando vide le  luci del paese spegnersi contemporaneamente e udì un vocìo levarsi   dalla parte della chiesa.

- Che succede adesso? - mormorò stupito.

Come un lampo gli passò in mente l'idea che  tutto il paese  fosse  presente  per  assistere  alla  sua  disavventura,  ma tale  pensiero passò velocemente come era venuto.

-  Ma  allora  che accade? Sarà successa qualche disgrazia? - si disse.  - Ma anche  a me sta  per succedere qualcosa,  quindi: mal comune mezzo gaudio. - E aprì l'uscio di scatto.

Il  rumore del secchio della  spazzatura che si rovesciava  e  del  contenuto che rotolava  in corridoio, lo  fecero  sobbalzare.  Bastò quello perché il sospetto divenisse certezza. Entrò di corsa e si buttò contro la porta della  camera da  letto. Chiusa.  Un  trapestìo e un parlar concitato gli dicevano che nemmeno in camera  regnava la tranquillità e la capacità di ragionare a mente fredda.  Con  due  poderose  spallate mandò  in  briciole  la serratura  e,  trascinato dallo slancio, finì sul letto disfatto, in  tempo però per vedere una forma bianca che fuggiva attraverso il giardino.

Lasciata  la moglie (a lei avrebbe pensato dopo), si lanciò  all'inseguimento.  In  un  attimo  fu  sulla  piazza  della chiesa  completamente  vuota,  anche  quel bianco  fantasma  balzato fuori  dalla  finestra  si  era eclissato,  ingoiato  da  uno  dei  tanti  vicoletti bui. Elio con la mente in fiamme si gettò in uno di essi  correndo  come Fidippide. Sentiva  provenire da varie  parti urla belluine come  di  gente che  si  inseguisse  e  vedeva  talvolta  apparire  fuggevolmente  ombre che  correvano  nel buio  simili  a  scuri fantasmi.

Il  suo obiettivo era però  un altro. L'aveva visto  bene lui  quell'attentator  di focolari con  la camicia bianca, svolazzante, fuggire a gambe levate e non se lo sarebbe certo lasciato scappare così, semplicemente.

Si fermò un istante per decidere sulla direzione e fu allora che vide la sua preda, una bianca larva fuggente in fondo  ad un  nero budello formato da uno stretto carruggio.

-  Fermati, maledetto! - urlò e si slanciò in una folle corsa. Ma l'avversario  non fu  da meno  e l'inseguimento  cominciò. Per  le strette  viuzze ricoperte da ciottoli  levigati, incastonati nella       terra,  risuonavano  i  passi  dei  due  uomini.  Talvolta,  nello scantonare,  uno dei due  batteva ora con  una gamba, ora  con una spalla, ora con tutto il corpo contro ostacoli imprevedibili quali fasci di fieno, fascine di legna, sacchi che i  contadini  avevano lasciati  davanti all'uscio di casa o delle stalle. E allora erano moccoli e  parolacce che volavano e Elio sentiva una furia       tremenda,  un'ira  feroce addentargli  la  gola. Spinto  da questa rabbia  che lo divorava, riuscì finalmente ad agguantare il nemico afferrandolo  saldamente per una spalla.  Arrestati entrambi nello slancio,  si fermarono  ansanti, incapaci  di parlare  e di  agire finché l'affanno non fosse cessato.

"E  ora che faccio ? " si  chiese Elio non  appena si fu  un  po' ripreso,  tenendo sempre stretta  la preda che  dal canto suo  non cessava di ansimare. "E poi, chi è? Ci mancava pure il buio!"

D'un tratto nel fondo della viuzza si vide un  bagliore,  poi due,  poi  tre,  poi molti.  Un  fiume  di fiammelle  si  avvicinò  velocemente e Elio, a poco a poco, vide apparire i tratti  di  don  Buschini  che, sempre  ansante, con  il crocifisso  tra  le  mani,   bisbigliava:‑       

-  Bravo, figliolo, bravo... mi hai preso... sarai fortunato tutto l'anno. Però che foga, mio Dio!... Est modus in rebus.

Inebetito  dallo stupore, sempre con la mano artigliata sulla  spalla del prete, Elio lo guardava, incapace di  proferir  parola. Mille  idee si aggrovigliavano nella mente: "Don Buschini, lui! E che  ci  fa  qui? Possibile che Elda e don Buschini... No, no. E  allora che ci fa qui?" Guardò la gente che gli stava attorno e  si chiese: "E tutta questa gente che vuole?"

La  gente, intanto, commentava  la fine della  processione ed elogiava il maestro per la sua bravura nell'acchiappare il prete

Fu  appunto  dalle frasi  smozzicate  che gli  giunsero  agli orecchi che Elio riuscì a ricostruire ogni cosa. Quello  però  che lo  convinse  completamente  fu  l'osservazione  di  un  gruppo di giovani giunti per ultimi.

- Ma come è possibile che don Buschini sia già qui - fece uno - se lo stavamo inseguendo dall'altra parte del paese!

- Che vuoi  che ti  dica -  rispose un  altro -  anche a  me  era sembrato che fosse don Buschini, ma se è qui ovviamente non poteva   essere anche là - concluse con rassegnata filosofia

- Eppure abbiamo visto  un bel camicione  bianco! -  concluse un piccoletto,  accompagnando le parole con un rapido scuotimento del ramo  di pino acceso che  lasciò cadere alcune gocce  infuocate di   resina, simili a lacrime ardenti.

Ma Elio se lo spiegava chiaramente quello che era accaduto. Vedendo qualcosa di  bianco, lui aveva  inseguito  don  Buschini,  confondendolo  con  l'amante di  sua  moglie, mentre  l'amante era   stato rincorso dalla popolazione ignara di ogni cosa.

Certo  che come processione quella  era stata proprio il  non   plus ultra!

"Ma  che fare?"  pensò Elio amaramente  mentre seguiva il  corteo lento che si avviava disordinatamente verso la chiesa con il prete   in testa.

" Che fare?"  ripeté. E nella mente gli scacchi gli diedero la risposta. "Ho cercato  di dar gambitto  e  mi  hanno risposto con un controgambitto inaspettato. Certo che una mossa tale né Rzescewsky, né  Aliechin, né Capablanca avrebbero saputo come pararla! Pazienza, qualche partita bisogna pur saperla perdere”.

      

 

 

 

 

 

 

  

 

  

 

                                      U SCÜROTTU

 

 

La tradizione

 

Mentre il Carnevale cessa ovunque alla mezzanotte del Martedì Grasso,  a Isolabona  si prolunga  anche nella  prima giornata  di Quaresima  e prende  lo strano  nome di  scürottu  di  difficile interpretazione.  La  tradizione vuole  che  gruppi  di giovani mascherati, cantando,  fischiando,  suonando strumenti musicali in modo sgangherato, seguiti da un  codazzo di gente che vuole continuare i divertimenti carnascialeschi, si rechino di buon mattino in casa di un comune amico, lo sorprendano ancora immerso nel sonno, lo leghino nelle lenzuola e lo portino così impacchettato nella sua cantina condannandolo a offrire gratuitamente il suo vino.

Il perché di tale tradizione non è ben chiaro: sembra si tratti di una punizione per l’accidia dimostrata dal dormiente il quale non ha voluto alzarsi in tempo per assistere al rito delle Ceneri e iniziare il periodo di penitenza e digiuno, E’ da notare che lo scotto da pagare da parte del malcapitato consiste solo in  bevande.   Nessun cibo  solido viene  richiesto,  forse  in        considerazione del fatto che le bevande non interrompono il digiuno.  C'è da considerare però  che  ogni parroco ha sempre tentato di scalzare e abolire tale tradizione. 

Nonna  Marì, la  più anziana  del paese,  dalla mente  ancora  lucida,  mi ha raccontato un'altra versione circa la nascita della tradizione. Sembra, secondo il suo racconto,  che tragga origine da una azione profanatoria del sacramento dell'Eucarestia.

Nel  1887, dopo il terremoto che causò il crollo della chiesa  parrocchiale di Baiardo, in Isolabona, poiché non si erano avuti danni,  tranne la caduta di un comignolo, durante la  messa  di  ringraziamento, che si svolse nel primo giorno  di  Quaresima, alcuni  individui, capeggiati da  certo Battarin, inscenarono una cerimonia blasfema offrendo ai presenti al momento dell'Eucarestia vino e fettine di rapa ritagliate a mo' di ostie.

Si ritiene probabile che la persona "legata  nelle  lenzuola"  rappresenti quel tale Battarin che annualmente deve pagare per  la  profanazione da lui ideata.

 

 

 

Il racconto:   Tavio  e  il  'padre'

 

 

(N.d.A. - Contrariamente agli altri racconti i cui personaggi sono frutto di fantasia - per cui ogni riferimento a fatti e persone realmente avvenuti o esistiti è da ritenersi puramente casuale -  nel personaggio di Tavio è possibile ravvisare la figura di un isolese realmente esistito. E’ una persona che conobbi durante la mia infanzia e che, allora, come molti altri miei coetanei considerai un ‘diverso’ per le sue stravaganze. Oggi, alla luce dell’esperienza, lo definirei un eccentrico, un anticonformista, un nemico del progresso.

Il racconto, in cui realtà e fantasia si mescolano, - in particolar modo nella parte finale totalmente inventata - vuole essere un modo per chiedergli scusa del mio giudizio di allora e  per gratificarlo con un omaggio postumo.

 

 

 A chi gli chiedeva un giudizio su una persona poco fornita di  intelletto, un parigino rispose:

 - Quello è il penultimo degli sciocchi .

-  Perché il penultimo?       

-  Perchè  al  mondo ci  sono  tante  persone e  non  bisogna  mai   scoraggiare nessuno.

Tale finezza, distintiva, necessaria forse nella Ville Lumiére  non  era nemmeno immaginabile in un paese dove le nomee, dal più ricco al  più povero, dal più astuto al più cretino  vengono  attribuite   con   quella  sicurezza  e  precisione che  è  la  caratteristica di un gruppo in cui tutti i componenti si conoscono  reciprocamente.      

In  paese il penultimo degli sciocchi non c'era; si conosceva  solo l'ultimo: Tavio.

Tare ereditarie nella sua famiglia non ce n'erano  mai  state  (almeno a memoria d'uomo) ed era quindi un mezzo mistero riuscire a  scoprire  dove  suo padre  fosse  andato a pescare  quel  gene  distorto  che con tanta generosità  e abbondanza aveva elargito  a Tavio.

L'altra  metà del mistero era  forse più comprensibile se  si  mettevano in conto i numerosi bicchieri di vino rosso che suo padre  aveva  buttato giù nel corso  degli anni - tanto  per "umettare la  gola" come era solito dire. Gli effetti del vino si  erano però  manifestati  tardi e solo il  povero Tavio se li era goduti quasi  tutti lui.  Quasi, perché anche i suoi fratelli, tutti  più vecchi di  lui, ne avevano ricevuto una briciola, per fortuna loro  non nella materia grigia, ma nel nome.

Suo padre e sua madre ad ogni nascita si erano divisi equamente compiti:lei provvedeva a mettere al mondo il figlio e  lui pensava al nome.

Non  che si spremesse  tanto le meningi:  questo no!  Il suo parto  era di  quelli indolori.  Aveva sofferto  una  sola  volta, quando  aveva  partorito il primo nome. Per ore e ore si era arrovellato,  si era arrabattato, tra un bicchiere e un altro, nel prendere  in esame tutti i santi del Paradiso, poi alla fine aveva trovato  il nome adatto: Primo.  E da quel giorno  non si era  più sforzato:  gli era bastato seguitar  la serie con Secondo,  Terzo, Quarto  eccetera e il  nostro Tavio, Ottavio  per l'anagrafe, era stato l'ultimo della serie, ultimo perché il padre aveva deciso così.

Sin  da ragazzo Tavio  aveva palesato un  carattere chiuso  e schivo.   Nonostante  avesse  sette  fratelli,   preferiva  vivere appartato e fin che poteva se ne stava in soffitta a  guardare  il   cielo attraverso un abbaino.

Nella  sua  infanzia era  stato uno di  quei bambini che  non hanno mai conosciuto vezzeggiativi .

- Tavio, vieni qua! Cretino, scostati! Tavio, prendi  questo! Tavio, prendi quello!

Nessuno  si  era  mai sognato  di  dirgli: 

- Ma  che bellino, che carino,  il nostro Taviuccio! Vuoi più bene al paparino  o alla mammina? - Smancerie inutili.

Nonostante tutto Tavio era cresciuto, s'era fatto adulto e un bel giorno, accettato il consiglio di uno dei fratelli, sebbene all'oscuro  della lingua francese,  era partito alla  volta  della  Costa Azzurra dove, a Eze, aveva trovato lavoro in un  hotel  come  uomo tuttofare.

Nei primi tempi il suo umore bizzarro era rimasto appisolato,  incapace di manifestarsi in quel mondo così diverso da  quello in cui  fino allora era vissuto. Solo due o tre volte il  mese, quando tornava al paese, in  un ambiente a lui  più familiare, si  sbizzarriva in stravaganze che divertivano tutti .

Non che le stranezze di Tavio fossero tanto assurde, in fondo  si  differenziavano da quelle di  altre persone per il  solo fatto  che  le sue erano uniche  e spiccavano, mentre quelle  degli altri  erano  collettive e si  nascondevano a vicenda  e perciò, in  quel  paese di orbi, quell'unico cieco era schiavo. Ora  essere  schiavo  di un paese  equivale ad esserne anche lo zimbello, il giullare. E Tavio lo  era diventato  dal giorno in  cui aveva abbandonato  il  lavoro a Eze per venirsi a infognare nel suo paese d'origine.

Forse  nessuno avrebbe notato il suo ritorno se una delle sue  stravaganze, forse la più grossa, non fosse stata risaputa da quei  buoni villici i quali, ormai da tempo, s'erano abituati a  lui da farci il callo. Ma la fama di sciocco che si era guadagnato sulla Costa Azzurra era diventata la sua livrea.

Ad  Eze, nell'attraversare la nazionale numero uno, era stato  investito  da una Mercedes guidata da un ricco signore, reduce dal  Casino di Montecarlo dopo una ottima vincita ed una ancor migliore  libagione.  Trasportato  all'ospedale,  vi  era  rimasto  per  tre  settimane con una gamba in trazione, alcune costole rotte ed ecchimosi   su tutto il corpo.

Monsieur  Pichegrue, l'investitore, era andato a trovarlo col suo legale per provvedere ad un congruo indennizzo, ma Tavio, col  viso  bendato, pallido più di  un morto, gli occhi  mezzo chiusi e  lacrimosi,  li aveva investiti con  il suo francese che  sapeva di   ligure:

 -  Che, che, che  non voglio niente  da te. Che, che è stata  una  disgrazia che può capitare a tutti e che se il 'Padre' ha  voluto che capitasse a me, non c'è niente da fare. Che, che il 'Padre' sa        quello  che si fa e che se ha voluto che tu mi investissi ebbene è  perché  dovevo essere  investito per  i miei  peccati. E  quindi   andatevene tutti e due perchè da voi non voglio niente.

E  non c'era stato verso  di fargli accettare nulla.  Facendo  precedere ogni sua risposta da un 'che' ripetuto più volte  tanto  da  conferire al  suo discorso  un confuso  balbettìo  iniziale  e  facendo  riferimento in  ogni suo  pensiero al  'Padre', riuscì  a  scacciare  Monsieur Pichegrue e il  suo legale i quali, frastornati e stupiti, si ritrovarono fuori dall'ospedale senza aver concluso  nulla 

- Ma chi è il 'Padre'?  - aveva chiesto Monsieur Pichegrue.

-  E che ne so! Sa, per me quello è un po'... - e il legale aveva battuto l'indice su una tempia.

Da quel giorno per Tavio era iniziata la nomea  ufficiale  di sciocco, conferitagli nientemeno che da un avvocato.

L'episodio era però servito a dissipargli dalla mente il velo che  gli aveva sempre  precluso una chiara  visione e una  completa comprensione  della figura e  dell'entità del 'Padre',  figura ed entità fino  ad  allora  confuse  e  nebulose,  ma ora,  dopo  la disgrazia,  chiare e lucenti  come il sole,  tanto che durante  le lunghe  ore di corsia era  riuscito a capire e  a inquadrare certe situazioni che si erano create nei suoi contatti col  progresso  e con quella strana società che lo circondava .

Tavio  e il  progresso non  erano mai  andati  d'accordo.  Le diavolerie inventate dagli uomini non si accordavano affatto con i disegni  del 'Padre'  per cui,  alla vista  di un  elicottero  che sorvolava la baia di Eze o di un aereo che volava alto, Tavio si fermava col viso rivolto verso il cielo, le mani alzate, le palme tese e urlava:

-  Che... che... che precipiterai anche tu! Che il 'Padre' non ti ha creato e che dovrai cadere perché il 'Padre' lo vuole. E voi brucerete tutti... tutti bruciati! - concludeva rivolto verso i  passanti che si fermavano stupiti a guardarlo.

Talvolta  era la  vista di  un oggetto  strano,  inusitato  a fargli  perdere  il  controllo. Quando  avevano  sistemato nella cucina dell’hotel una macchina lavapiatti, per poco non successe una tragedia. Alla vista del grosso elettrodomestico Tavio era rimasto indifferente, non aveva detto nulla. Si era limitato a guardarlo. Ma quando la macchina fu messa in funzione e, attraverso l’oblò vide l’acqua schiumosa precipitare da tutte le parti contro piatti e casseruole, assalirli con getti  violenti  e  caldi  in un turbinìo di gocce e di vapore, mentre  mobile vibrava, sbuffava, gemeva, allora Tavio stralunò e cominciò a urlare.

-  Il diavolo! Che bisogna ammazzarlo ... che certe cose non sono permesse  dal 'Padre'. 'Padre, Padre'  io lo farò, perchè  io sono con te.

E dato di piglio ad una scopa si era messo a colpire con violenza la lavapiatti. Per fortuna il cuoco ebbe la buona idea di chiudere l'interruttore e il meccanismo si fermò.

Di  fronte  alla  macchina che  di  colpo  aveva  cessato  di funzionare,  anche Tavio  si era  fermato. Col  viso  ebete  aveva guardato  attraverso  l'oblò i  piatti  sgocciolanti, poi  con  un risolino  si era allontanato soddisfatto. Lui e il 'Padre' avevano  vinto.

Il  padrone dell'hotel alle  prime stranezze di  Tavio  aveva riso  di cuore,  riso assieme  ai clienti;  ma poi la cosa aveva cominciato  a non andargli  più a genio specie quando le  mattane   del giovane andavano a scapito del servizio.

Al  paese Tavio  era ritornato  quando il  padrone  lo  aveva pregato  di andarsene, non perchè  fosse un fannullone, ma  perchè voleva  fare solo  di testa  sua. Alternava  a lunghi  periodi di lavoro  forsennato altrettante lunghe pause  causate, secondo lui, dal  volere del 'Padre'. Nel bel mezzo di un lavoro tutto eseguito senza l'ausilio delle macchine, perchè queste non  facevano  parte dei disegno del 'Padre', qualora si presentava il  minimo  intoppo che non fosse compreso tra quelli previsti, piantava in asso ogni cosa e se ne andava in giro dicendo:

-... che l'incaglio ce l'ha messo il 'Padre' e che ciò  vuol  dire basta! E io non faccio più niente.

La goccia che aveva fatto  traboccare il vaso e aveva mandato completamente fuori dai gangheri il padrone era stato il rifiuto categorico di Tavio di portare nelle camere a loro  destinate le valigie dei clienti

Dall'aereoporto  di Nizza era  giunto un pullman  di inglesi, seguito  da un camioncino carico  di bagagli. Il compito  di Tavio consisteva nello scaricare quest'ultimo e nel portare  le  valigie nelle  varie  stanze. Per  caso (vedi un  po' tu dove  spesso va a cacciarsi il caso!) le prime cinque valigie, oltre  alla  normale chiusura, avevano anche una cinghia che le serrava a metà.

Accadde  quindi che nel tirare giù la prima, la cinghia si  impigliasse  in  un  gancetto  situato nella  parte  posteriore del  camioncino. Un  piccolo  strattone bastò a liberarla. Anche la seconda si impigliò e fu liberata allo stesso modo. Alla terza però Tavio aggrottò le sopracciglia e prima di liberare la cinghia dal gancio, ponderò la situazione  con una certa gravità. Risolvette però di proseguire e la  scaricò insieme  alla quarta  la quale,  a dir  la verità,  si  impigliò solo a metà nell'intoppo

Chiunque al posto  di Tavio avrebbe  fatto passare  le rimanenti valigie lontano da quel punto, ma lui no.  Testardo come un  mulo afferrò la quinta e la tirò a sé. Stavolta il gancio la bloccò completamente; ebbe un bel tirare il poverino,  la  valigia non si mosse. Sembrava che ce l'avessero incollata.

Il direttore dell'hotel che stava a guardarlo dalla hall, gli  gridò:

- E sganciala, Tavio, non vedi che strappi tutto!

Bastò quell’osservazione per farlo andare fuori di sé.

-... che lo sapevo io che il ‘Padre’ non voleva che prendessi le valigie e io, testardo,  ho  voluto  insistere.  Bestia che sono! Ma basta! ... che se il   'Padre' ha voluto così, io le valigie non le scarico più.

Del lavoro lasciato a metà e dei clienti che protestavano non gliene  importò più nulla e tanto meno delle urla del padrone che, cianotico in viso, lo scongiurava a riprendere il lavoro. 

- Il 'Padre' ha detto di no e io pianto tutto e me ne vado.

E se ne andò davvero. Ma quel giorno non se n'era andato solo  dall'hotel: aveva anche lasciato la Francia.

Alto,  dinoccolato, magro come  un chiodo, con una andatura  traballante da papero dovuta ai piedi piatti, col viso magro e affilato, scarnito, in cui gli zigomi  sporgevano tendendo la pelle  e rendendo più cupe le occhiaie, era ritornato alla casa paterna e  aveva ripreso possesso della sua vecchia camera buia,  tetra,  dai  muri  scrostati  sui quali  erano  sparse infiorescenze  di umido.  L'unica finestra, traballante sui cardini, con i vetri sporchi che lasciavano passare poca  luce, dava  su un  carruggio  stretto  e  soffocato  che  puzzava  di  stalla  per  quasi  tutto  l'anno   e  dell'aspro odor del mosto in autunno      

-  E adesso che  farai? -  gli aveva chiesto  uno dei suoi  sette  fratelli.

-  ... che il  'Padre' ci penserà  - rispose. -  Guarda  il  sole:   scalda tutti. Anche gli uccelli vivono. Vivrò anch'io.

Il  fratello pensò agli uccelli, guardò l'allampanato Tavio e scosse  la testa  dubbioso. Ciononostante  i mesi  passarono e  il 'Padre' oltre a pensare agli uccellini, pensò anche a Tavio che da parte sua lo aiutò nel chiedergli molto poco.

Quando non lavorava come bracciante negli uliveti, se ne andava a  Pian del Pero dove  possedeva  un  orticello  e  una capannuccia  e lì provvedeva  a cucinarsi il  pranzo. Cuocersi  in casa  quel po' di  brodetto rado in  cui nuotavano due  carote, un porro,  alcune patate e molti  fagioli, non era nemmeno  pensabile perchè  in  camera  non  c'era  alcun  caminetto.  Avrebbe  potuto benissimo risolvere il problema con una cucinetta a gas e relativa bombola,  ma il 'Padre' non accettava certi sotterfugi e il giorno in  cui i fratelli gliene fecero trovare una pronta per l'uso, per poco  non  successe  il finimondo.  

Rientrato  in  casa  e  visto quell'ordigno, Tavio, contrariamente al solito, non urlò né invocò il  'Padre'; prese semplicemente la bombola e, dopo aver strappato il  tubo di gomma,  la scaraventò dalla  finestra. Per fortuna  un grosso fascio di fieno accolse l'ordigno che sibilava  e spandeva tutto attorno un gas maleodorante e pericoloso. Uno dei fratelli si precipitò di corsa nel vicolo per chiudere la valvola.

-  Va su una forca  tu e le tue  manie! - gridò, alzando il pugno verso  Tavio che, affacciato alla finestra, lo guardava tranquillo e  contento di essersi liberato  da qualcosa di estraneo  alle sue ­ abitudini.

Quindi, quasi ogni giorno, se ne andava nel suo orticello con un  pentolino tutto ammaccato  e sporco di  fuliggine dove  faceva   cuocere i suoi intrugli.

In paese lo sapevano tutti dove andava quando, al suono della sirena  di mezzogiorno, attraversava la piazza del paese e nessuno ci faceva caso.

Nessuno tranne i bambini.

C'era stato un periodo in cui i ragazzi, terminato  il  magro pranzo,  si radunavano sulla  piazza e attendevano  il ritorno  di Tavio  col solo scopo di condire la digestione con quattro risate. Al  suo apparire sorgeva  un vocìo confuso  in cui si  distingueva solo la parola 'Padre'.

Tavio, imperterrito e incurante dei lazzi, tirava diritto senza  rispondere.  Solo  qualche  vecchietta riprendeva  i  ragazzi e  lo faceva più per voglia di  rampognare qualcuno che per difendere il  poveretto.

Il  giorno in cui i  ragazzi passarono dalle parole ai fatti  per dare più sugo al gioco, Tavio reagì.

Fino  ad allora  aveva sopportato  in silenzio  lo scherno  e avrebbe  forse continuato a  sopportarlo se i  ragazzi si  fossero limitati  a  questo. Ma  quel giorno, chissà  perchè, uno di  loro prese una manciata di sassi e fango semi indurito e gliela tirò in viso. Tavio, incapace di capire la ragione di quel gesto, si fermò a  guardare  sgomento  il  monello;  probabilmente  la  sua faccia dovette  essere così buffa, il  suo atteggiamento così strano  che tutti  scoppiarono in una risata e alcuni imitarono il compagno. A questo punto Tavio si scosse e, lasciato cadere a  terra  il pentolino  con la  minestra ancora  calda, prese  a tirar  sassate  anche lui .

"Reazione  da  sciocco  e torto  dalla  sua  parte!"   dissero in seguito  i  ben  pensanti del paese. L'unica a non dir nulla fu la madre  di uno dei ragazzi che era stato colpito al malleolo da una sassata di Tavio. Quando, scalmanata e fuori di sè, si recò da lui per  'fargliela  pagare' e  se lo vide  apparire di fronte  con un largo squarcio su una gota e un occhio nero, la rabbia le sbollì e si  allontanò a testa bassa senza dir nulla. Lui, Tavio, dimenticò subito l'accaduto e, come per   l'incidente  automobilistico  concluse:

-  Che l'ha voluto il 'Padre' e che non c'è niente da fare. Che lo so che i ragazzi sono cattivi, ma... che non hanno alcuna colpa... che  la colpa ce l'ha il prete che dovrebbe educarli; ma è dannato       anche  lui  perchè  ha  l'automobile  e  quindi  ha  rinnegato  il ‘Padre'.

Dopo di che si era sdraiato sul tavolaccio che gli serviva da letto  e si era addormentato senza nemmeno coprirsi con la vecchia coperta  da  soldato,  mezzo tarlata, trovata in  una cassapanca.

Tavio aveva orrore dell'estate.

Nonostante  quella  stagione  gli offrisse  la possibilità di dormire fuori casa, in qualche prato, sotto le stelle del 'Padre', egli  la vedeva avvicinarsi con terrore e ciò solo per colpa delle donne. Non era infatti il caldo a dargli fastidio quanto il vedere l'altro  sesso  indossare  pantaloni  (lunghi  o  corti  non aveva importanza)  e il vederle andare in giro con molta pelle scoperta.  Solo  questo bastava a mandarlo letteralmente in bestia. (E sì che quando lavorava a Eze ne aveva visto della pelle al sole!)

La vera ragione Tavio non la disse mai; forse non  la  sapeva   nemmeno lui.

Da giovane le ragazze della sua età le aveva sempre sfuggite; le  donne  poi  lo  avevano  schifato  specie  quelle  col  ventre deformato  dalla maternità. Aveva, quindi, concepito più che odio, una  avversione che si mitigava solo di fronte alle vecchiette del paese  intabarrate a tal  punto da rassomigliare  più a mucchi  di stracci  scuri e ambulanti  che ad esseri  umani. Con le  giovani, invece, specie con quelle un po' pienotte, la cosa era diversa. Quelle non sembravano mucchi di stracci. Tutt'altro.

Quando  qualche turista nordica, bene in carne, rosea come un porcellino di prima  setola, scendeva dalla  Volkswagen  in pantaloncini  corti, attillatissimi, mettendo  in mostra certe natiche che 'levati!', e il solo reggiseno, Tavio le si scagliava contro alzando le braccia e ululando:

-...  che... che...che il 'Padre'  ha creato i vestiti  per tutti, sporcacciona! E che te li vai a mettere.

Quasi tutte si  rifugiavano  spaventate  nella  macchina  e aspettavano  che  il  marito  o  il  fidanzato  mettesse a posto quell’energumeno o che qualcuno del paese lo allontanasse. Una sola volta gli capitò di imbattersi in una peripatetica milanese la quale per tutta risposta gli voltò la schiena e, in segno di scherno, si alzò la minigonna e si batté sonoramente una chiappa. Tavio in quell'occasione fuggì tra le risate di tutti.

Le  donne, quindi, comunque fossero, vestite o nude, erano la  sua croce. Persino in chiesa non lo lasciavano in pace tant'è vero che si  sentiva costretto ad uscire molto prima che  la messa  finisse  e  ciò  perchè non  sopportava  di  vederle  prendere  la  Comunione con quelle bocche unte di rosso

Era  arrivato persino al punto di lamentarsi col prete per il  fatto che in chiesa vi  era  un  quadro che  rappresentava  una  Maddalena  la quale,  a  suo dire, mostrava un po' troppo le tette.

"Ma si sa - aveva concluso tra sé e sé di fronte  all'occhiata  di commiserazione del prete - che  lui ha la macchina e che  ormai  è passato  dall'altra  parte e  la religione non  sa manco più dove       stia!

E per alcune settimane aveva disertato le funzioni religiose.

Eppure Tavio, a modo suo, era profondamente religioso.

Ogni giorno, nel tardo pomeriggio, diluviasse o splendesse il sole,  se ne andava sul  sagrato del Santuario della  Madonna e lì pregava  rimanendo immobile davanti alla chiesa sempre sbarrata da una  grossa  catena. Per  chi pregasse e  chi pregasse nessuno  lo seppe  mai.  Se ne  stava a fissare  ora la porta  ora la finestra attraverso  la  quale,  deformate  da  vetri  impolverati,  si intravedevano  le pitture che  ricoprivano le pareti  e la  volta dell'unica navata e se qualcuno gli passava vicino non dava alcun segno  di  vederlo.  In  quei  momenti  di  concentrazione muoveva velocemente  le labbra senza  che ne uscisse  alcun suono. Con  le  braccia  abbandonate lungo il corpo,  il capo un po'  reclinato su una  spalla, sembrava una  statua supplicante. Dopo  un intervallo più o  meno  lungo si scuoteva da quel letargo e si sarebbe detto  che ritornasse a vivere.

All'imbrunire  d'estate  e in  piena  notte d'inverno  se  ne ritornava lentamente alla sua stanzaccia evitando di  passare  per la piazza del paese e per le vie troppo illuminate. In  camera si buttava sul tavolaccio e guardava attraverso il vetro rotto della finestra, ché gli altri erano troppo opachi per il sudiciume, il vago chiarore che la luna riusciva a ficcare tra quelle case ammonticchiate le une addosso alle altre. Poi si addormentava di colpo in un sonno senza sogni.

 

                                                               ************

 

Quell'anno l'inverno era stato aspro, così aspro che Tavio aveva  accettato senza discutere un'altra coperta assai pesante da  uno  dei suoi fratelli,  ma non tanto aspro da permettere  che  si aggiustasse il vetro rotto da cui entrava uno spiffero gelido.

La  neve era già scesa due volte e un detto locale voleva che  cadesse  ancora una volta all'incirca verso la fine del Carnevale. In  barba  al  detto però  stava  per  scoccare la  mezzanotte del  Martedì  Grasso  e la  neve non si  era ancora vista,  anche se si  avvertiva nell'aria.

In  paese il ballo organizzato in un ampio garage adibito per  l'occasione a dancing, era nella sua fase culminante. Molte coppie  agghindate  alla meglio con vecchi abiti e con orrende maschere di  cartapesta  che nascondevano il viso, saltavano come forsennate al  suono di una orchestrina estemporanea che aveva  quale  repertorio  musiche  di vent'anni prima. Gli anziani che già da tempo, a causa  degli acciacchi e dei reumatismi, avevano dichiarato forfait, e,dopo       essere  stati  a  far  da  tappezzeria,  iniziavano   a   sfollare  lentamente  trascinando  qualche  mascherina che,  riluttante  e a   malincuore doveva lasciare la sala.

Quando,  verso le quattro  del mattino,  nello  stanzone  rimasero solo alcuni giovinastri e il freddo cominciò a infiltrarsi attraverso gli  interstizi  della  porta  e  le  commessure  delle  finestre, qualcuno, tanto per scaldarsi, propose di andar per cantine.

La  proposta  non  cadde nel  vuoto  e  il  giro incominciò. Passando alternativamente   di  cantina in  cantina  (ogni giovane  infatti  aveva a disposizione la  sua e quella di  qualche parente  compiacente)  il  freddo passò  e i discorsi  si fecero confusi  e  farfuglianti. Ma quando qualcuno disse:

-  Ragazzi,  questo  no, il  'Padre'  non  lo vuole   !  -  allora si  ricordarono di Tavio     

- Che ne direste - saltò su uno con una maschera da porcellino sul   viso - che ne direste se andassimo a legare Tavio?

Nessuno  si stupì  per quella  strana proposta  in quanto  il  mercoledì  delle Ceneri corrispondeva al  giorno dello scürottu, una antica consuetudine che permetteva  ai  giovani  di   penetrare di  prima mattina  in  casa  di  qualche   amico  addormentato,  di legarlo e  di portarlo di  peso all'osteria  per consumare abbondanti libagioni sul conto dell'impacchettato.

La  proposta  di  legare Tavio fu dunque  accettata  all'unanimità, non tanto per ottenere una bevuta gratis, ché Tavio  portafogli  a fisarmonica  non ne  aveva, anzi  non  ne  possedeva nemmeno uno, quanto per divertirsi alle sue spalle.

Quando  il  poveretto,  svegliato di  soprassalto,  scosso  e  legato  come un  salame, si  vide attorno nel buio della  stanza  quelle  maschere  ghignanti  chine su  di lui,  quei  volti  senza  volto, diede un urlo e cercò di svincolarsi. Ma più si contorceva,  più la  corda gli  segava la pelle.  Coricato a terra  sentiva il  trapestìo  di  quella banda  di scalmanati che  si agitava e  ogni  volta che alzava il capo riusciva a intravedere nel buio rotto da  un vago chiarore  che penetrava dalla finestra dei musi contorti e deformati, facce diaboliche ululanti che  pareva  lo volessero  mordere. Quando poi si sentì sollevare da terra, pensò  che  fosse  giunta  la fine; chiuse gli occhi e attese.

Quelli, trasportandolo  come   un   sacco,  scesero  per  strada  dove  già  cominciava  a  sfarfallare la neve e solo allora si accorsero tra le  risate  che  Tavio  non aveva addosso che  una striminzita camicia da  notte da  cui  spuntavano due gambe sbilenche e pelose che scalciavano a più non posso.

-  E ora che si fa? - chiese uno col viso coperto da una maschera da lupo.

- Mettiamolo su un carretto e facciamo il giro del paese - rispose quello che aveva la faccia da porcellino.

-  Io ho freddo - disse uno col teschio sul viso. - Andiamo invece nella tua cantina a bere.

La  proposta fu accettata e in breve si ritrovarono in una specie di spelonca con la volta a botte, piena di damigiane, tini, tinozze,  botticelle  e  fiaschi ammonticchiati  alla meglio negli angoli  o  posti  ordinatamente su  assi  sistemate  lungo i  muri trasudanti l'umido e coperti qua e là da grosse ragnatele scure. La lampadina, anch'essa circondata da ragnatele e impolverata, mandava una luce fioca che conferiva alla scena un non so  che  di irreale e contribuiva a rendere confuse le ombre che si stendevano dappertutto.

La  banda  prese  subito d'assalto  un  gruppo  di fiaschi  e   provvide dapprima a smorzar la sete; poi pensò al prigioniero.

Tavio  fu sistemato su una  tinozza rovesciata poi una  delle   maschere,  afferrato un  imbuto, glielo  ficcò in  bocca   con  la  delicatezza di un ubriaco, e, preso un fiasco di rossese, cominciò  a  rovesciargli il vino in  gola. Il poveretto, in  mezzo a quelle  facce  sghignazzanti, si agitava, smaniava,  strabuzzava gli occhi  mentre  sulla camicia da notte  si spandeva il liquido  che colava  dagli angoli della bocca.

Ogni  tanto la maschera si fermava un attimo per permettergli  di  prendere fiato e Tavio cercava in quei momenti di tirar dentro quanta  più aria  possibile,  ma  subito la tortura riprendeva.  Sentiva  il gusto acre del vino, un bruciore insostenibile in gola  e avvertiva un pulsare continuo alle tempie, mentre il  cuore  gli  batteva a ritmo accelerato.

Ma  quelli, completamente ubriachi  e incapaci di  ragionare,  non  s'accorgevano  di  nulla  e  continuavano  nel  loro  scherzo  alternando  vino rosso a  vino bianco, vinaccia  spessa a  vinello leggero. Per istinto Tavio aveva cercato dapprima di resistere, ma poi aveva lasciato che facessero quello che volevano.

‑...che... che... - era riuscito a farfugliare, ingurgitando vino, - ...che se lo vuole il 'Padre'... io bevo.

Per  tutta  la  mattinata e  il  pomeriggio  erano rimasti  a  gozzovigliare  divertendosi con canti sguaiati, alternati a lunghi  momenti  di  stasi  per riprendere  le  forze  e smaltire  il vino  bevuto.  Verso  le  quattro Tavio,  pieno  come  un otre,  si  era  abbattuto  su una tinozza lasciando che il capo ciondolasse da una  parte. Gli altri al par di lui ubriachi più di un  acino  ubriaco, dringolavano per la cantina appoggiandosi alle botti e alle damigiane issate sui palchetti.

-  Lo  riportiamo  a  cuccia?  -  chiese  uno  singhiozzando  e barbugliando tra una parola e l'altra.

-  No  -  rispose una maschera con gli occhi vitrei, - io direi... hep... direi di portarlo al Santuario. - E giù un bel rutto. - Lui ci  va sempre... hep...  si vede che  è un posto  che gli piace  - concluse con un altro rutto..

-  Ma si sta  facendo buio -  gli fece notare  uno  dei  presenti.

Sempre  legato,  il  disgraziato  Tavio  fu  buttato  sul carretto  che  un  po' spinto,  un  po'  trascinato da  quegli avvinazzati  urlanti  si avviò  cigolando  e zigzagando  verso  il Santuario.

La  neve tanto attesa ora  cadeva a falde larghe  cancellando ogni  cosa.  Solo  nei pressi  del  Santuario  un gelido  vento di tramontana,  spirando  verso  il  mare,  la  faceva  turbinare  in vorticosi mulinelli.

Fu  forse il vento,  la neve e  ancor più l'avvertire  che il  calore  provocato  dal vino  andava  scemando, a  consigliare alla  brigata  di rientrare. Nessuno voleva più spingere il carretto  per  cui, slegato Tavio, ognuno si avviò verso casa.

Il disgraziato, sentendosi finalmente libero e non udendo più alcun urlo intorno a sé, si riscosse e con la mente annebbiata dai fumi  del vino  si rizzò  a sedere  alla meglio  sul carretto.  Il freddo  pungente gli mordeva le carni per nulla protette da quella leggera  camicia  da  notte tutta  intrisa  di  vino. Cercando  di accostarne  i  lembi  sbrindellati sul  magro  petto,  si  mise  a guardare  i fiocchi che continuavano  a cadere e, incominciando  a ridacchiare,  prese  a  far  gesti  sconsiderati per  tentare di scacciare quelle inopportune  farfalle che  gli si appiccicavano alla pelle e si scioglievano dopo averla pizzicata.  Visti  infine vani  i  suoi tentativi,  decise di andarsene  e si alzò  in piedi sugli  assi  traballanti  del carretto.  Fu  a  questo punto  che,       scivolando sulla neve che li aveva ricoperti cadde pesantemente a terra urtando con la testa contro un masso appuntito. E svenne.

La neve continuò a cadere.

Quando riprese conoscenza - non avrebbe saputo dire  se  dopo un minuto o un'ora - Tavio intuì più che vedere la massa scura del Santuario che gli stava di fronte. Non sapendo capacitarsi di come fosse  capitato  in  quel posto,  si  passò  una mano  sul viso e, ritraendola sporca di sangue, disse spaventato:

- 'Padre', 'Padre', perché, perché, perché? - ripeté stupito egli  stesso  di osare, per la  prima volta, di porre  una domanda. Poi,  siccome nessuna risposta gli giungeva, si guardò attorno e riprese   a gridare in mezzo al turbinìo di neve:

- Perché, 'Padre', perché, perché, perché?

E il 'Padre', finalmente, gli rispose.

Tavio si chetò di colpo e porse l'orecchio.

La  voce,  innaturale, si  manifestò  dapprima con  un  sordo  brontolìo  che veniva da molto lontano ed era preceduta da un vago  chiarore  il quale,  scendendo  dall'alto della  valle,  si  diffondeva  a poco a poco  in mezzo al baluginare della neve. Poi il brontolìo  crebbe  di intensità  e la  luce prese  a giocare  strani  scherzi  nascondendosi ora dietro il costone della collina,  ora  prendendo  d'infilata  tutta la valle, ora salendo dritta verso il cielo, ora  sparendo  per pochi  istanti per  riapparire poi  più luminosa  di  prima.

Per Tavio le parole del 'Padre' erano incomprensibili, vuote  di  significato, ma ciò  aveva poca importanza.  Si beava solo  di  quel  brontolìo e della luce giallastra in cui vedeva i fiocchi di neve brillare come stelle e attraverso le labbra sporche di vino e del sangue che sgorgava  dalla ferita che  si era fatto  cadendo, borbottava:

- ... che ... che ci sei PADRE! Che finalmente ti vedo!

Quando   la   luce   immensa,   irreale,   straordinaria,  abbagliante  gli fu addosso e  lo fasciò tutto, Tavio  si rizzò in  piedi e, alzando le braccia al cielo, urlò per tre volte:

- PADRE, PADRE, PADRE ! - e cadde di schianto a terra mentre tutto, attorno a lui, piombava nel buio più completo.

L'automobile  rombante che, venendo dall’alto della valle aveva sciabolato la notte con i suoi fari abbaglianti, gli passò accanto senza fermarsi. Il conducente, con gli occhi fissi sulla strada, non lo vide nemmeno. E l’automobile, allontanandosi, continuò a sciabolare il buio con i suoi fari e a rompere il silenzio notturno col rombo del motore.

Continuò a nevicare.

E quel mattino, una donnetta, uscita di casa ravvolta in  un ampio scialle  per  andare  a gettare la spazzatura, vide per terra un mucchio di neve  da cui spuntava  un paio di piedi nudi, bianchi, grossi , piatti , gelati.

 

 

 

 

                                        LA VISITA DI LEVA

 

La tradizione

 

Sin dalla notte dei tempi in ogni gruppo sociale vigeva l'uso che i giovani dovevano superare varie prove di iniziazione per prepararsi alla vita tribale e ai compiti che avrebbero dovuto affrontare e assolvere durante la loro esistenza. Il progresso, ad eccezione di alcuni gruppi tribali ancor oggi esistenti, ha cancellato ogni traccia di quei riti iniziatici, a meno che, per i soli maschi, non si voglia coglierne ancora un residuo in quel complesso di operazioni che va sotto il nome di 'chiamata di leva'.

 A Isolabona , fino a qualche decennio fa, la chiamata annuale dei giovani di leva era preceduta da una settimana di bagordi e di feste per soli uomini in cui essi davano sfogo alla loro esuberanza e al loro temperamento, quasi a dimostrazione che stava finendo l'era dei giochi spensierati e ne iniziava un'altra in cui le responsabilità sarebbero state d'obbligo.  Ogni paese assisteva, quindi,  alle bravate di questi giovani che, con in testa cappelli tricolori su cui era stampato l'anno di nascita e in mano un fiasco di vino da cui bevevano a garganella, incuranti se il liquido si spandeva sulla camicia, percorrevano le vie del paese, gozzovigliando, urlando, importunando bonariamente le donne. La presenza della bandiera tricolore agitata da uno di essi faceva sì che lo schiamazzo venisse tollerato da tutti e da tutti accolto con occhio benevolo.

Durante le soste nelle poche osterie  del paese, dove la consumazione era spesso a  carico del gestore, intonavano canti  ora   nostalgici, ora da  caserma attraverso  i  quali  volevano   dimostrare  la  loro   raggiunta   maturità.

Quello più noto era:

 

                               Semu cuscriti,                       Siamo i coscritti

                               u sänghe u ne buglie,           il sanghe ci ribolle,

                               nu ne rumpì ciü e cuglie       non rompeteci più le palle

                               e lasceine chietà.                 e lasciateci in pace.

 

Il  cui contenuto esprime chiaramente  l'emancipazione che un giovane  raggiungeva  attraverso un  atto  che convalidava  la sua raggiunta maturità.

Nel   giorno  della  presentazione  degli  iscritti  alla Commissione di leva, il Sindaco stesso li accompagnava, quasi per una consegna simbolica alle autorità   militari e li abbandonava a se stessi.  Dopo la visita e l'assegnazione ad una determinata arma,  era quasi d'obbligo, fare una visita a Villa Azzurra, una casa chiusa, situata alla periferia di Ventimiglia. Era l'atto finale che sanciva il passaggio ad una piena e virile maturità.

L'espressione  che  da sempre  tutti  hanno usato  nel vedere partire alla volta di Ventimiglia i giovani che a piedi  o,  in tempi più vicini a noi, usavano  un traballante  omnibus a quattro ruote, trainato da  cavalli, era: "I vän a tirää" (letteralmente: Vanno a tirare). Tirare che?

Per comprendere la strana espressione occorre risalire alla promulgazione in Francia della Legge Jourdan. (19 Fruttidoro dell'anno IV) in cui si stabiliva che ogni francese, in caso di pericolo per la patria, doveva diventare soldato. Tale legge, applicata  con  rigore, divenne  odiosa  alla popolazione  dopo  i disastri del 1812 e lo spreco di uomini nelle campagne  del  1813-1814-1815.   Il  primo atto della restaurazione fu quello di abolirla. Ma, in seguito ci si rese conto degli innegabili vantaggi  e  del sano principio etico cui essa era informata e fu rimessa in   vigore.

Altri  Stati, tra  cui il  nuovo Regno  Sardo la  adottarono.  

Tuttavia fino a dopo il 1849 ebbe larghissimo uso  l'arruolamento volontario  e soltanto  nel caso che questo non avesse dato il gettito necessario a mantenere l'esercito sopra uno standard di forza,  si faceva ricorso all'arruolamento coatto. Vi  erano però molte esclusioni e, inoltre era ammessa la surrogazione,  cioè la sostituzione  di  una  persona con un altra e  l'affrancazione, consistente  nel  procurare  allo Stato  e  a  proprie  spese   un volontario o  a  versare allo Stato  una  somma corrispondente all'arruolamento di un volontario.  Passarono anni prima  che le  due forme, poco  morali, scomparissero.

Con l'entrata in vigore  dell'arruolamento obbligatorio, lo Stato sabaudo dovette subito rendersi conto che il fabbisogno di reclute, finché le ferme furono lunghe, era inferiore al numero degli iscritti di leva abili al servizio in ciascuna classe. E dato che per l'agricoltura era controproducente sottrarre per lunghi periodi di tempo braccia abili al lavoro nei campi, si ricorse all'estrazione a sorte fra i dichiarati idonei al servizio.  I favoriti dalla fortuna facevano ritorno a casa.

Per il sorteggio ognuno estraeva un numero da un'urna. Se il numero era al di sopra di quello stabilito dalla Commissione di leva il giovane era libero di ritornare al suo focolare; in caso contrario doveva partire.

In seguito, quando venne l'obbligo personale del servizio e le ferme si abbreviarono, il sistema del sorteggio andò scemando d'importanza fino a sparire. Ma l'espressione "i vän a tirää" rimase.

Una curiosità di sorteggio a rovescio si riscontrò nel 1794 nel Regno di Napoli. Essendosi ordinata una leva di 16000 uomini per l'esercito e non essendo stata raggiunta tale quota, si stabilì che, in mancanza di volontari  si  sarebbero estratti  a sorte "per via del bussolo da praticarsi in  pubblico  parlamento" gli uomini mancanti.

 

 

 

Il racconto:  Babì    e la cartolina di precetto

               

Di  fuori  l'acqua  veniva  giù a catinelle, scrosciando  rumorosamente   su   alcuni   fusti  vuoti di  benzina  lasciati incustoditi  nei  pressi  dell'osteria di  Ercole.  Rivoli fangosi scendevano  lungo la Bunda, una strada in discesa, tutta ciottoli, e  trascinavano  con  sé  foglie  secche e carta che  andavano  a ostruire  i tombini  i quali già  rigurgitavano una  densa melma  che, lentamente,  s'andava  insinuando   tra le sconnessure delle porte, nelle stalle e nelle cantine. Pareva che il tempo non  si  sarebbe più rimesso al bello tanto le nubi erano basse e pregne d'acqua e  la pioggia avrebbe  continuato a cadere  per sempre con  quel ritmo ossessionante. Per le straduccole non c'era  quasi  nessuno;   poche persone  si  azzardavano ad  uscire. E se lo facevano,  correvano  sotto gli scrosci, ricoperte da teli tenuti sul capo con  entrambe  le braccia alzate, simili a veloci fantasmi.

Solo il  portalettere,  protetto  da  una  mantellina militare logora e sbiadita, grondante acqua, con  la vecchia borsa delle  lettere a tracolla, camminava lentamente ciabattando nell'acqua, incurante del diluvio. A tratti si fermava  al  riparo di un poggiolo o di una sporgenza, traeva di tasca un paio di occhiali tenuti assieme da un po' di spago e leggeva gli indirizzi per poi riprendere il giro.

L'osteria di Ercole, a causa della pioggia, era  quel  giorno insolitamente gremita. Su tutti i tavoli, bottiglie,  bicchieri  e carte bisunte che andavano e venivano da un  giocatore  all'altro, accompagnate  da pugni sul tavolo  e spesso da qualche  bestemmia. Alcuni   avventori,  col  naso  incollato   ai  vetri,  guardavano attraverso  le  gocce  che li  rigavano  il  portalettere  avvicinarsi.

-  Ercole, c'è  posta  per te!  - fece rivolto  all'oste  uno  che seguiva l'andirivieni del procaccia.

Un istante dopo, grondante acqua, l'uomo entrava   nell'osteria, salutando tutti i presenti.

- To', bevi questo! - gli disse Ercole porgendogli  un  bicchiere di vino. - E' meglio se te lo bevi subito perché, se mi porti brutte notizie, te lo tolgo di sotto al naso - aggiunse ridendo.

L'uomo si lisciò i  baffi lentamente, a più riprese per togliere  le gocce d'acqua, e  poi sorseggiò    il vino  piano, piano   per meglio assaporarlo

-  Brutta giornata, Ercole,  tempo da fogne! Be', giacchè   siamo qui,  vediamo se  c'è  posta  per qualcuno  di voi,  così evito  di girare   sotto  l'acqua.  -  Dunque...  dunque...  vediamo.  - E inforcati gli occhiali, volse il capo circolarmente squadrando tutti i presenti. - Sì, ecco! - fece, vedendo Giò il calzolaio. - C'è una lettera per te, mi sembra. Ora te la do. - Si  mise a cercare dentro la borsa di cuoio e trattane una cartolina gialla, scosse la testa e disse: - No, non è per te; è per tua figlia, non te la posso consegnare.

-  Come non me la  puoi dare! Mia  figlia è  minorenne e  io ho sono il padre.

-  Ti sbagli - gli fece notare uno dei presenti. - Babì è  nata due    giorni  prima  della  mia Carla  e  quindi  ha appena  compiuto  i diciott'anni. Non hai più alcuna tutela.

-  Ma lasciami perdere,  - gli rispose  Giò   seccato e,  rivolto al portalettere: 

- Mi dici chi è  che scrive a mia figlia?   - E così dicendo, cercava di sbirciare la busta.

- Calmati, Giò! Non è la cartolina di  uno  spasimante  -  lo rassicurò il portalettere che conosceva la severità   del calzolaio per tutto ciò che riguardava la figlia.

- Ne sei sicuro? - indagò l'altro a bassa voce.

-  Aspetta che guardo meglio.  - E si diede  di nuovo a  rovistare nella  borsa dove aveva  deposto la cartolina.  - To', -  si stupì dopo aver letto il mittente: - E che cosa vuole il Ministero della Difesa da Babì.

-  Il  Ministero  della Difesa!  - esclamò    il calzolaio. - Da' un po' qua, fa vedere! - e gli tolse la cartolina dalle  mani  prima che il portalettere potesse impedirglielo. - Sentite un  po'  qua, gente,  - sbottò dopo averla letta, - questa sì  che è  bella!  Lo sapete di che cartolina si tratta?  Ve la do a una su mille se indovinate.

- Dai, taglia corto, Giò - intervenne uno che agitava per aria una carta  e non poteva giocarla perchè  i suoi compagni erano intenti ad ascoltare il calzolaio.

- E' una cartolina di precetto: invitano la mia Babì ad  andare  a passare la visita di leva fra dieci giorni.

-  Ma bravi, bene! Era ora che si rinnovasse anche l'esercito! - sbottò a dire uno tra le risate generali.

-  E'  la  volta che  faccio  domanda  per partire  volontario! - aggiunse  un  vecchietto  sdentato che  aveva  solo  la  forza  di masticare le parole attraverso le gengive.

-  Da' qua, fammi vedere, - intervenne il portalettere riprendendo la  cartolina. - Sarà   uno sbaglio del Distretto. - La lesse e poi, alzati  gli occhi sui presenti, disse: - Oh che bella!  E ora che si fa?

- E che si fa? Niente - gli rispose il calzolaio. - La straccio e tutto finisce lì. Non ti sembra?

- Eh no, Giò, direi proprio di no. Io ti consiglio di rimandarla indietro con una lettera di accompagnamento e,  se vuoi il  mio parere,  dovresti  anche  allegare una  dichiarazione del sindaco.

- Già   che ci sei, mettici anche un certificato medico, - ridacchiò uno.  - Quelli del  Distretto Militare sono  cocciuti. Li  conosco bene io!‑

-  Ma  perchè   non vi rimettete al Sindaco, - troncò Ercole, il barista. - Guardate, sta arrivando in compagnia del nuovo segretario comunale.  Sono loro che  mandano al Distretto gli elenchi  delle nuove leve. Probabilmente ci sarà   stato un errore in Municipio.

Che  ci fosse stato un errore fu anche il parere del cavalier Bartini che, dopo aver letto la cartolina, fulminò con lo sguardo il  giovane  segretario. Il  giovane, semistrozzato dall'aperitivo che stava sorseggiando, arrossì   e tentò  di scusarsi.

-  Sì... evidentemente deve essere  un mio sbaglio, cavaliere.  Mi sembra però  strano, ma non può    essere altrimenti. Si vede  che  mi sono  confuso; sa...  è  stato  il primo  lavoro ho fatto  non appena fui nominato in questo paese. Ma non  dubiti,  rimedierò... Anzi,  vado  subito in  Municipio a controllare. - Ed uscì  prima ancora che il cavalier Bartini potesse trattenerlo.

Nell'osteria,  intanto,  passata  la novità,  quasi  tutti si erano  rimessi  a  giocare o  a  bere  e solo  pochi erano rimasti attorno  al calzolaio,  al sindaco  e al  portalettere per discutere sull’accaduto.  Di  fuori, intanto,  la  pioggia  era intensificata  e  il  vento,  spingendola,  ora  da  un  lato  ora dall'altro,  la sbatteva contro la  facciata delle case, contro  i portoni  e le finestre, facendola filtrare dentro le case e colare giù per i muri anneriti dal tempo.

- Eccolo che ritorna! - esclamò uno messo  di  vedetta vicino alla porta per annunciare il ritorno del segretario.

Si   vedeva,  infatti,  in  fondo  alla  Bunda,  vicino  alla fontana, sotto gli scrosci d'acqua, il giovane segretario camminare spedito, rasentando i muri come i gatti. Dopo aver saltato  alcune pozzanghere ed evitato  i ruscelletti fangosi che si perdevano per ogni dove, si precipitò nell'osteria con un sospiro di sollievo per essersi sottratto a quel diluvio.

-  Ecco,  signor  sindaco,  -  esordì  ansando  e  presentando  al superiore un foglio di carta spiegazzato e bagnato. - Sì, effettivamente sono stato io a spedire il nominativo al Distretto, ma le posso assicurare che non c'è  stato errore da parte mia.

-  Su, andiamo, Tinazzi! - rispose seccato il cavaliere, mentre i giochi si interrompevano di nuovo e gli avventori  facevano  ressa attorno  ai  quattro. -  Com'è  possibile che  non ci sia  stato un errore? Come può dirlo se lei ha inviato al Distretto tra i nomi di  coloro  che  quest'anno sono  di  leva,  anche il  nome di una donna? 

-  Ma per il semplice motivo che  la  figlia del calzolaio,  signor sindaco, non  è  una donna, ma un uomo!

Per  un istante nell'osteria non  si sentì volare una  mosca; poi il calzolaio, sempre più rosso in viso, facendosi  avanti  coi pugni  stretti, urlò: 

- E io  le spacco il  muso qui, davanti  a tutti!

-  Calma, Giò, calma -  intervenne il sindaco, afferrando i pugni minacciosi del calzolaio. Poi, rivolto al segretario: - Tinazzi, che cos'è questa storia? Si spieghi meglio.

- Io non  volevo  dire -  iniziò    il  giovane titubante  - che la signorina  Babì... non  è  una  signorina, ... ma volevo dire che per noi, Comune di Isolabona, e per il Distretto Militare risulta essere un uomo. - E così dicendo gettò uno sguardo verso il calzolaio che significava: non è colpa mia, ma è così, quindi niente pugni. E proseguì: - Mi spiego subito. Quando mi accorsi, poco fa in Comune, che ero stato io ad aver inviato quel nominativo al Distretto, mi sono premurato di vedere perché e come potevo aver commesso quell'errore, se errore c'era stato, ed ho consultato il registro delle nascite. Ebbene sul registro delle nascite c'era scritto che Martini Babila Maria è  di sesso  maschile. Ecco perchè  ho inserito il nominativo nelle liste di leva.

- Ma non poteva accorgersi, mentre lo scriveva, che si trattava di un nome di donna? - gli fece notare uno dei presenti.

- E no, proprio no! Fino a prova contraria 'Babila' è un nome maschile e anche Maria può esserlo. Io, ad esempio, mi chiamo Gian Maria.

- O porco Giuda! - fece il calzolaio, dimenticando per un istante la  cartolina, - e io avrei dato a mia figlia un nome da uomo? Ma ne è  proprio sicuro?

- Sicurissimo.

- Stasera mi sente mia moglie!

Il  sindaco, intanto, si stava accarezzando il mento, incapace di trovare una soluzione immediata.

- E ora che si fa, Tinazzi?

-  Subito,  subito  non c'è   nulla  da  fare. Non  possiamo  certo alterare  il registro delle nascite. Se non mi sbaglio,  penso che occorra una sentenza del tribunale, ma le sarò più preciso non appena  potrò consultare il codice.

- Sì, tutto questa va bene, ma adesso che si fa? - chiese il calzolaio che, sentendo  nominare il tribunale, si era calmato di colpo e cominciava a preoccuparsi.

- Temo, signor Martini, - rispose il segretario - che  sua  figlia dovrà andare al Distretto - e vedendolo alzare il capo di scatto, aggiunse:  - L'accompagni lei e spieghi tutto. Vedrà   che ogni cosa si arrangerà.

Nell'osteria intanto qualcuno incominciava a sghignazzare.

-  Giò, senti bene, appena in caserma ricordati di andar al passo: unò, duè, unò, duè , tu  davanti,  per  anzianità , e  tua figlia  dietro.

-  Giò,  ricordati che  alla visita medica  si va tutti  nudi; non metterti le mutande di lana, faresti una brutta figura.

- Però che fortunate quelle reclute...

- Per le mutande di Giò?

- Ma non dire cretinate. Penso a quelle di Babì.

- Sta tranquillo che qualche tenentino se la prenderà subito come attendente.

E giù a ridere e a sghignazzare.

A Giò, un tipo tarchiato, col viso asciutto (ora rosso per il vino e per la rabbia) su cui spiccava come un promontorio  un naso rosso  e carnoso, violaceo  per le recenti  libagioni, bastò     poco perchè  su quell'appendice saltasse una di quelle mosche cavalline dal pungolo feroce.

-  Andate tutti in  malora  -  urlò. - Se  credete che mandi  mia figlia tra quel branco di infoiati, vi sbagliate di  grosso.  Ecco che me ne faccio della cartolina! tiè , tiè  e  tiè  ! -  E la strappò in pezzettini minutissimi che gettò in aria.

Tra  le risate dei presenti e mentre le gialle farfallette si posavano sui tavoli, uscì sbattendo l'uscio.

Quella sera in tutte le case non si parlò d'altro.  Stupore, curiosità,  malizia, parole a doppio senso e parole a senso unico, si  incrociarono  attorno ad  ogni desco e nel buio delle  camere odoranti aglio e cipolla sino a tarda notte.

L'unica a non stupirsi e tanto meno a preoccuparsi  fu  Babì, la maggiore interessata.

-  Tu non esci di casa per due o tre giorni! - concluse suo padre dopo averle  raccontato ogni  cosa. Babì si  limitò ad alzare  le spalle e continuò   a sbucciar patate.

La  ragazza non era brutta anche se non la si poteva definire una bellezza. Era una di quelle forti contadinotte piene di vita, dalle forme tondeggianti, sode, atte a sopportare qualsiasi peso o  fatica senza risentirne.  Al vederla  lavorare nei  campi  la  si sarebbe presa, da lontano, per un uomo; ma quando alla domenica si vestiva a festa per andare a Messa non c'era giovanotto  in  paese che  non  le rivolgesse  un complimento o  che non avesse  qualche segreto  pensiero.  Se fino  a quel giorno  non aveva avuto  amori passeggeri  non era colpa sua, ma del padre che le teneva addosso due  occhiacci  feroci  e sospettosi  che  troncavano  non che  un pensiero, non che una preferenza, non che una inclinazione.

Quell'improvvisa,  strana convocazione da parte del Ministero della  Difesa, se proprio non  l'aveva stupita, perchè  Babì  aveva imparato  che a  questo mondo  non ci  si deve  stupire di  nulla, specie  quando si ha a che fare con l'autorità   costituita, l'aveva incuriosita.

"Che bello se fossi un uomo!" aveva pensato rigirandosi  al  buio tra  le coperte. "Almeno farei  un poco a piacer  mio e non  sarei costretta ad andare sempre in cerca d'erba per i conigli.

Il giorno dopo la  curiosità   in paese  era molto scemata  e ognuno avrebbe dimenticato la chiamata alle armi di Babì se di sera i coscritti, cioè il gruppo dei giovanotti che, come lei avevano ricevuto la cartolina di precetto, non fosse andato con chitarre e una fisarmonica a farle la serenata sotto la finestra,

Ad una ragazza è  di prammatica fare una serenata a base di  canzoni  d'amore, di dolci stornelli, di tenui filastrocche in cui cuore fa rima con amore, calore,  ardore, fiore.  Ma come comportarsi  con  una  ragazza che  ha  ricevuto  la cartolina  di precetto  e deve andare a passare la visita di leva?

Babì quella sera non si aspettava certo una serenata. Assorta nei  suoi  pensieri,  se ne  stava  appoggiata  con le  braccia al davanzale  della finestra della sua camera e guardava attraverso i rami  di  un  caco, la  luna  che  risaliva le  pendici del monte, contornata  da grappoli di stelle  che, in lungo corteo,  parevano seguirla nel suo cammino. In quel momento non pensava a quanto era accaduto  il  giorno  prima. Suo  padre  si  era calmato  dopo  la violenta scenata che aveva avuto con la moglie, alterco  nato  dal fatto  che quella povera donna continuava a insistere nel dire che  Babila era un nome di donna. Ora dormivano entrambi.

Quando nella calma della notte, da un lato buio di una viuzza laterale  si udì il suono  di una fisarmonica, accompagnato  dagli accordi  di  una chitarra  e una voce  prese a cantare "Osteria numero  uno, para pum  zi pum zi  pa!"  e  quel che segue,  Babì    fu assalita dal timore che suo padre si imbestialisse di nuovo  e  ne combinasse  una delle sue, ma poi, alzate le spalle e accostate le persiane,  si dispose ad ascoltare il canto, non certo d'amore,  e a  cercare di indovinare  nel brusìo che si alzava dal sottostante vicolo, a chi appartenessero le voci. Qualche  finestra delle case di fronte si era intanto illuminata e la gente si  era  affacciata per godersi  lo spettacolo. Si  trattava di una  variante nuova  nelle caotiche  ed  esuberanti  manifestazioni che i ragazzi di leva  inscenavano annualmente prima di recarsi alla visita medica.

Ci sono così poche occasioni di divertirsi in un paese!

 

Chi, invece, non la pensava in quel modo fu il padre di Babì. D'un  tratto, proprio nel bel mezzo di una canzonaccia che parlava di alpini, di vino, di donne,  si  udì la  madre della ragazza          gridare a voce alta:

-Per  l'amor di Dio, Giò, posa quel fucile! Sono ragazzate. Non ti compromettere!

- Spostati, vecchia, so io quello che faccio! - le rispose Giò. - Quelli  me li hanno già rotti abbastanza da sveglio e me li stanno rompendo  anche  quando  dormo. Non  sono  il  fesso che  tollera. Togliti di mezzo!

Si  udì un tramestìo e si vide una finestra, proprio a fianco di quella di Babì, spalancarsi di colpo. Giò si affacciò con la doppietta imbracciata, mentre la moglie gli si era aggrappata e cercava di togliergli l'arma.

- Per carità, Giuseppe, fermati, calmati son ragazzate! Non comprometterti; e voi andate via, maledetti! - aggiunse ad alta voce rivolta verso il buio del vicolo.

In quel mentre la fucilata partì. La rosa di pallini frusciò    attraverso  le foglie del caco, perdendosi nell'aria  in direzione della  luna  che,  nauseata  da  quello  spettacolo  e  ancor  più   dall'essere presa a schioppettate, si nascose dietro una nuvola.

In  paese, intanto, il  silenzio era ritornato  di colpo.  Le finestre  illuminate s'erano fatte  buie all'istante e nel vicolo ogni rumore  era  cessato. Marito e moglie, impauriti per l'involontaria   fucilata,  si  erano   precipitosamente  ritirati chiudendo  le imposte e ora stavano ad ascoltare col fiato sospeso   se qualcuno si lamentasse.

L'unica  a  non  essersi mossa  era  Babì che con  i  gomiti puntellati  sul davanzale e  la fronte appoggiata  al palmo  delle mani,  scuoteva  la  testa  ridendosi  dell'ira  di   suo   padre, dell'apprensione  di sua madre, della paura dei giovani coscritti, dei  curiosi e delle strane situazioni che possono capitare per un errore di nome.

Dopo quella notte non successe più nulla e in  paese  nessuno più accennò alla  cartolina ricevuta  da  Babì.   Il gruppo  dei giovani  coscritti  si comportò come di consueto, Scorrazzò per tutte le strade, cantando, vociando, agitando una bandiera tricolore e, finalmente, come Dio volle, fu accompagnato a Ventimiglia dal sindaco affinché il Ministero della Difesa decidesse della loro sorte.

- Finarmente i sun andäi a tirää - dissero i vecchi, tirando un sospiro di sollievo perché ora non sarebbero più stati disturbati dagli schiamazzi.

 

Una settimana dopo arrivarono due carabinieri.          

Giò non c'era. Quel  mattino, di buon'ora,  col magaglio  in  spalla se n'era andato in Marcora, una località   quattro ore di  strada dal paese per lavorare la terra che la recente pioggia aveva ammorbidito.

Quando  Lena, la madre di Babì, si vide davanti quei due cosi neri neri, impettiti e udì uno dei due dire:

- Abita qui Martini Babila? - per poco non le prese un colpo.

- Sì, perchè? - riuscì a balbettare. - Che cosa è  successo?

- Deve venire con noi.

- E perchè?

- Come perchè? E' renitente alla visita di leva e lei  mi  chiede perchè?

In  quel  momento  era entrata  Babì con  tre cavoli  tra le braccia.

- Che c'è , mamma? Che cosa vogliono?

-  Signorina, - fece il secondo carabiniere - dov'è  suo fratello?

- Io non ho fratelli, sono figlia unica.

- Scusi, ma non capisco. Qui - proseguì il  carabiniere  guardando un  foglio che aveva  in mano -  c'è  scritto "Martini  Babila, Via Orsi, 32. E' ben questa la casa, no?

-Sì è questa e Martini Babila sono io.

- Allora c'è un errore di sesso - intervenne il primo carabiniere.

- Be', un errore dell'anagrafe, direi - corresse il secondo carabiniere dopo aver squadrato la ragazza dall'alto in basso. - E ora che facciamo?

- Semplice - gli rispose il compagno. - Il qui presente Babila Maria viene con noi. Deciderà il brigadiere.

- Ma noi siamo venuti a cercare un uomo!

- Questo per me, dai documenti, risulta essere un uomo. E tanto mi basta.  Andiamo.

Mentre Lena si accasciava su una seggiola, non sapendo più a   che santo votarsi, Babì    cominciò a divertirsi.

- Voglio proprio vedere come va a finire - borbottò tra sé e sé. Poi, rivolta ai due carabinieri che continuavano a confabulare, disse:

- Sentite datemi un po' di tempo per vestirmi meglio e poi vi seguirò  dal vostro superiore.

- Ma, Babì, sei ammattita ! - Sua madre era balzata dalla seggiola afferrandola per le spalle. - Non pensi a tuo padre?

-  Oh,  mamma, sono  stufa di questa  storia. Ora vado  con loro e vedrai che appena mi vedono non penseranno certo a farmi  fare  il militare.  Per papà   non preoccuparti  - aggiunse con una  punta di malizia. - Mi ha sempre detto che se qualcuno mi importuna devo chiamare i carabinieri: ebbene, qui ce ne sono due, dunque niente paura - E se ne andò di corsa.

Mezz'ora dopo, in mezzo ai due carabinieri, Babì, che indossava una gonna verde, una camicetta bianca e aveva al collo un ampio foulard rosso (non si era accorta di formare una bandiera...  o l'aveva fatto di proposito?),  scendeva lungo  la Bunda  verso la  carrozzabile per  Dolceacqua, dove  i due  tutori dell'ordine  pubblico  avevano  parcheggiato la  macchina.  Questa partì  in una nube di polvere in cui si intravedeva solo il rosso del foulard svolazzante.

Nello stesso  istante,  con   la  sgambata  del   montanaro frettoloso,  partiva   un   nipote  della Lena   per  avvertire dell'accaduto l'ignaro Giò che se ne stava a zappare sui monti.

La  prima  tappa  alla  sede  distaccata  dei  carabinieri di Dolceacqua  non  ebbe  alcun  esito.  Babì,  seduta accanto alla finestra, con una sigaretta accesa  tra le dita, gentile omaggio del brigadiere,  e di cui non sapeva che farsene dato che  non  le era  mai  piaciuto  fumare, aveva  assistito  ad  una delle  prime telefonate di quella giornata. Il brigadiere, dopo aver dato  un cicchetto  ai due subalterni rei,  secondo lui di avergli  portato una  'femmina'  al  posto  di  un  'maschio',  dato di  piglio  al telefono,  s'era  fatto  mettere in  comunicazione  col Distretto.                 Nell'attesa che la linea si  liberasse, con una matita  batteva e ribatteva  sul tavolo, mentre gli occhi, simili ad una  altalena, andavano e venivano dalla porta alle gambe di Babì, poi  di  nuovo alla porta, ma per poco, indi a quelle due gambocce tornite e sode che la gonna verde, troppo corta, lasciava ampiamente scoperte.

-  Pronto,  Distretto? ...  sì vorrei  parlare con  l'ufficiale addetto al reclutamento... Sì, aspetto.

Altra pausa, altra sbirciatina.

-  Pronto?  L'ufficiale di  picchetto?...  Sono il  brigadiere Toschi.  E' lei che  si occupa delle  pratiche dei renitenti  alla leva...  Ho capito, lei non si occupa delle reclute. Ma ci sarà   qualcuno...  sì, sì,  ho capito.  Mi passi allora il maresciallo capo

Altra attesa, altro spuntino visivo del brigadiere il cui viso si stava colorando di un bel rosso aragosta.

- Pronto, sì sono io. Maresciallo abbiamo qui Martini Babila, renitente alla leva... va bene, aspetto! ... Ah, vi risulta... ma vede, maresciallo, c'è un guaio - fece dopo una breve pausa - va bene che non l'interessa, ma io debbo almeno comunicarle che... D'accordo, d'accordo: non vuole sentir ragioni; bene, se la veda lei, maresciallo. Glielo  mando subito  il  Martini  Babila - concluse  sbattendo giù il telefono  con rabbia e poi,  rivolto ai due carabinieri, che non si erano mossi dalla posizione di attenti e  che di conseguenza non si erano abbandonati ad altalene con gli occhi, ma li avevano accuratamente tenuti fissi sulle gambe della ragazza, disse:

- Voi due, prendete la qui presente e conducetela subito al Distretto. - E si abbandonò sulla seggiola mentre Babì, buttata a terra la sigaretta, seguiva i due angeli custodi.

Alcune ore dopo il povero brigadiere che credeva di aver tutto risolto, si sciroppava le  urla e gli improperi  di Giò il quale dalla  vigna si era catapultato  in paese saltando per  i sentieri come un  capretto, sfruttando  tutte  le  scorciatoie,  e  poi, inforcata  la motocicletta di  un suo nipote,  si era  precipitato alla caserma dei carabinieri, masticando in cuor suo la rabbia e i propositi di vendetta contro tutte le forze armate dello Stato.

Babì nel frattempo aveva già raggiunto il Distretto Militare dove, nella stanza surriscaldata del maresciallo, seduta su una seggiola, con le gambe accavallate e la gonna (quella benedetta gonna corta!) sopra il ginocchio, aspettava che qualcuno decidesse qualcosa nei suoi confronti.

- Che cosa vuole lei? - aveva chiesto il maresciallo, un quarantacinquenne traccagnotto, con gli occhiali sul naso, attraverso i quali l'aveva squadrata non appena gli si era presentata.

- Io niente: è lei che vuole me. Io sono a sua disposizione.       

Il   maresciallo  era  rimasto  un  attimo  immobile, non capacitandosi della risposta, poi, fatto un leggero movimento del capo  che  gli fece  cadere gli occhiali  sul registro che  teneva davanti, cominciò ad urlare: 

- Ma che  dice? Chi  è  lei?  Chi l'ha fatta  passare? Piantone!  .

-  Comandi, maresciallo! -  gli fece eco un  soldato che si  pose sull'attenti e strabuzzò gli occhi nel vano tentativo di sbirciare tra la camicetta di Babì.

- Chi le ha detto di mandarmi qui una ragazza?

- Lei, maresciallo, mi ha dato ordine di mandare nel  suo  ufficio tutti  i renitenti alla leva 'dicendomi che  avrebbe provveduto lei a grattar loro il sedere dopo averli accuratamente fatti spogliare'. Sono le sue testuali parole.

Il  maresciallo divenne paonazzo, squadrò la donna e il subalterno poi, visti i due carabinieri nel corridoio, si diresse verso di loro, chiudendosi la porta alle spalle.

Un quarto d'ora dopo rientrava nel suo ufficio  in  compagnia di un capitano e poco dopo entrava anche un maggiore. Babì, seduta in  un angolo della stanza, taceva e guardava la triade che doveva decidere della sua sorte.

-  Ammetto  che  ci sia stato un errore, ma io debbo rispondere di tutto  l'apparato amministrativo e  verificare tutti i  nominativi che  i  comuni  ci hanno inviato. Non è  colpa mia se ci sono stati errori  da parte loro - urlò    il maggiore. - Per me il Martini è  un uomo.

- Scusi, maggiore, - intervenne il capitano. - ma l'evidenza...

-  Che evidenza e evidenza! - sbottò    il maggiore. - All'apparenza è una donna, ma legalmente  è  un uomo e  io non ho la  facoltà   di escludere  nessuno dalla visita  medica. Lo sapete  che su   questo punto sono intransigente.

- Non vorrà   mica sottoporre a visita di leva la qui presente...

-  IL qui presente ! - troncò il maggiore. - Non mi cambi le carte in tavola. Carta canta; i documenti parlano chiaro: Martini Babila di sesso maschile. A me non interessa altro.

- Ma è  una donna ! - continuò    ad insistere il capitano.

-  Non è colpa mia.  Io ho solo dei  figli maschi: i maschi  li so fare io! - concluse squadrando dall'alto in basso Babì che, impettita, guardava ora l'uno, ora l'altro e si chiedeva se non fosse capitata in una gabbia di matti.

 Il maresciallo che se n'era stato sino ad allora in silenzio, si raschiò debolmente la gola per attirare l'attenzione.

- Se permettete, signori, - intervenne - non c'è che una sola cosa da fare. Lei, signor maggiore, dal punto di vista legale ha perfettamente ragione. Qui c’è UN renitente alla leva. - E proseguì calcando il tono sull'UN: - UN renitente che non solo deve passare la visita di leva, ma che è anche passibile di denuncia al Tribunale Militare. Però, d'altro canto, considerando il caso particolare, non è nemmeno pensabile portare una donna in mezzo a tutti quei giovani. Sa com'è ... si  parla tanto di censura ...e il fatto, sa!... Avremmo addosso tutti i giornali del paese, quindi io proporrei di sottoporre il caso al colonnello e di rimetterci alle sue decisioni.

Nel  frattempo Giò,  vanamente inseguito  dal brigadiere dei carabinieri  che aveva cercato di trattenerlo si era precipitato a bordo della motocicletta fino al Distretto dove era stato fermato all'ingresso  dall'Ufficiale  di  picchetto il quale, aiutato  da  due soldati,  l'aveva costretto ad  entrare nel corpo  di guardia.  Il pover'uomo,  impolverato, con gli  abiti da lavoro  addosso ancora tutti  incrostati  di terra,  abbandonato  su una  panca, mugolava tra sé e sé parole inintelligibili. A tratti balzava in piedi per precipitarsi verso la porta, ma la presenza dei due soldati lo costringeva a rimettersi seduto. Dopo interminabili ore di angosciosa attesa finalmente gli dissero che sua figlia poteva  uscire e lo lasciarono libero.

Babì pettoruta, impettita, scortata dal maresciallo, apparve in fondo alla Piazza d'armi e la attraversò ancheggiando tra due file di soldati accorsi a vederla. 'Radio Naia' aveva fatto presto a far circolare la notizia in tutta la caserma.

- Figlia mia, che t'hanno fatto? - chiese a voce bassa Giò che si guardava attorno come una belva, pronto a scannare chi avesse osato dire qualcosa all'indirizzo della figlia.

- Che vuoi che m'abbiano fatto, pa'! Non sono mica stata in mezzo ai cannibali, no?

Il padre si voltò verso tutti quei visi  trasudanti  libidine ed ebbe un leggero dubbio. Babì, intanto, uscita dalla caserma, si  era avviata lungo un viale, seguita da Giò.

-  Insomma,  Babì, si  può  sapere che cosa è  successo? E' tutto finito, no? 

- Per ora sì.

- Come per ora! - gridò Giò trattenendola per un braccio. -  Non pretenderanno mica che tu faccia il soldato, no? Porco d'un mondo!

- Calmati, papà, la soluzione c'è. L'ha trovata il colonnello. Ora ti spiego. Vedi, c'era il maggiore che pretendeva che io  facessi il soldato perché per la legge io sono un maschio. Il capitano diceva,  invece,  che  non era  possibile perché   io  sono  donna: capisci?

- Sì, capisco. Va' avanti!

- Il  colonnello,  dopo avermi  ben  guardato,  ha detto  che  la chiamata  alle  armi avverrà  tra un anno:  quella di oggi doveva solo essere una visita di leva dalla quale mi ha esentato, perché, dice lui, sarei  risultata abile comunque. Nel  frattempo noi dobbiamo  unicamente preoccuparci di far correggere l'errore sui registri  dell'anagrafe di Isolabona  e poi tutto  rientrerà  nella  normalità.  Come vedi, la faccenda è  molto semplice.

-  Finalmente una persona intelligente! - esclamò Giò che s'era sentito cadere un peso dallo stomaco. -  Se ne trovano  ancora a questo mondo.

-  Oh sì!  - fece Babì con ancora gli  occhi pieni di  quel bel colonnello, vigoroso, prestante,   dalle tempie leggermente brizzolate, proprio un  bell'uomo.  -  Figurati  che  ha persino telefonato ad un avvocato, suo amico, per sapere quali pratiche si dovranno fare. Guarda, mi ha scritto tutto qui. - E gli  porse  un foglietto.

Giò lo prese e alla luce di un lampione, dato che la sera era scesa da un pezzo, cominciò a leggere: 

- Certificati, estratti, atti  notarili, verbali, sentenze, tribunali, ministeri...  Ma quanto tempo ci vuole  per correggere una  parola e per  scrivere 'femmina' al posto di 'maschio'?

- Hum, un po' di tempo ha detto l'avvocato. Sai, le pratiche negli uffici  sono lunghe... c'è  la  burocrazia. Ci vorranno dai due ai tre anni.

- Come! - esclamò Giò, fermandosi di scatto. - Due o tre anni !!! Ma se la chiamata alle armi sarà tra un anno!

-  Non preoccuparti, il colonnello ha pensato anche a questo. Te l'ho  detto, no, che ha  trovato la soluzione!  Dato che non si farà in tempo a completare la pratica entro l'anno prossimo, mi toccherà  fare il militare. Vedi, il suo attendente personale l'anno prossimo se ne andrà in congedo e io prenderò il suo posto. Non  ti  devi preoccupare;  non vivrò in  caserma, ma in  casa del colonnello. E'  tutto così semplice.

E mentre Giò si appoggiava ad un lampione per non  cadere, Babì si avviò ancheggiando verso la motocicletta.

 

 

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