PARTE TERZA

 

Folklore economico ed ergologico

 

Una panoramica degli usi e dei costumi della popolazione di Isolabona non può in alcun modo diversificarsi profondamente dagli usi e dai costumi che in passato erano peculiari delle popolazioni della Val Nervia e delle valli limitrofe, per cui, volendo restringere il campo e prendere in esame unicamente il paese di Isolabona è opportuno limitarsi all’esame di quei soli elementi di cui ancora permane una eco nei ricordi dei più anziani, avendo i giovani tagliato ormai quasi totalmente le radici.

E pertanto, nell’illustrare usi e tradizioni ormai scomparse o in via d’estinzione, relativi al folklore economico (caccia, pesca, pastorizia, abitazioni, agricoltura ecc.), a quello familiare-sociale e a quello religioso, si farà  riferimento  solo ai  "ricordi  degli isolesi",  raccolti  durante una  ricerca  sul territorio effettuata alcuni decenni or sono.

 

 

 

 La caccia

 

La  res  cinegetica,  fin dai  tempi  più  remoti,  è  sempre rimasta  una attività incontrastata  in mano agli  uomini.  Ancora qualche  decennio  fa, prima  che  leggi severe  intervenissero  a regolamentare  la caccia, nel giorno  di apertura della stessa  si poteva  assistere  ad  una   totale  dispersione  dei  cacciatori, esperti  e  pivelli,  per le  colline  ricoperte  di ulivi, per i boschi e le pendici brulle e aride delle Prealpi.

Tralasceremo di parlare della vera res cinegetica,quella effettuata  con l'ausilio dei  cani, per trattare  invece di  quei  pochi  sistemi usati dai valligiani per insidiare  la fauna  della  valle, un tempo assai ricca.

Le  tracce di sistemi particolari, di cui ancor oggi si serba la  memoria, sono per lo  più legate alla cacciagione  dei pennuti quali gli uccelli di passo (storni, colombi,  tortorelle,  anitre, quaglie regine, beccacce, beccaccini, tordi, merli...) e alla selvaggina stanziale (fagiano di monte, coturnice, pernice rossa,  starna...).

Si   può  ritenere  che  una   delle  forme  più  comuni di uccellagione sia sempre stata quella effettuata col vischio, una sostanza collosa estratta dalle bacche del  Viscum album, utilizzando come richiamo una civetta, sistema cui fa cenno il Machiavelli in una sua opera. Il metodo era semplice: si poneva una civetta in uno spazio libero, contornato da bassi cespugli e su di essi si stendevano le panie (fili d'erba  ricoperti di  vischio).   Gli uccelli, probabilmente attratti dagli occhi gialli  della  civetta,  si  avvicinavano,  si  posavano  sui  rami  dove  rimanevano con le piume attaccate alle panie.

Una  variante fu  quella di  sostituire la  civetta  con  una  gabbia  contenente uccelli da richiamo. In tal caso venivano usate  panie più grosse (panioni) posti tutti attorno alla gabbia.

Altro  sistema era quello  di stendere le  panie in prossimità delle  pozze  d'acqua, dove  gli uccelli si  recano per bere  o per  lavarsi,  oppure  porre  vergelle invischiate  lungo  i  ruscelli,  limitando  lo  spazio  libero  attorno  ad  esse  con  sterpi  per costringere  i  pennuti  a  posarsi  là  dove  era  stata  posta   l'insidia.

L'uso  delle ciapure, speciali trappole  che permettevano di catturare   l'animale vivo, è scomparso. Le ciapure consistevano  in  una  lastra, normalmente  d'ardesia,  che veniva  collocata in  bilico,  mediante un ingegnoso  sistema di stecchetti,  sopra  una  buca scavata nel terreno. Dentro la buca veniva posto  il  mangime  su  un'assicella collegata agli  stecchi che sostenevano  il  peso  della  lastra d'ardesia. Il  peso dell'animale faceva  scattare la   trappola e la lastra, cadendo, imprigionava la preda.

Altro   sistema   fu   quello  costituito   da   rami  verdi, flessibilissimi,  generalmente di nocciolo, che venivano piegati a ferro  di cavallo. Le due estremità erano tenute in tensione da un filo sporgente a cappio, trattenuto da un bastoncino mobile su cui era posta l'esca. Il malcapitato uccello, posandosi sul bastoncino per beccare l'esca, lo faceva cadere e il ramo, riprendendo la sua primitiva posizione lineare, stringeva la preda nel cappio.

Le  ciapure cui abbiamo  accennato servivano per  catturare anche conigli e lepri. Per questi animali si usarono pure trappole a  laccio costituite  da cordicelle  fatte con  crini  di  cavallo terminanti con un nodo scorsoio. Venivano poste lungo dei percorsi obbligati, costruiti con frasche opportunamente disposte. La morte della preda avveniva per strozzatura.

In  disuso   sono  pure le  peighe,  oggi  usate  solo  per catturare  topi.  Si tratta  di   trappole metalliche  a torsione, composte da due semicerchi di ferro, tenuti assieme da  una  molla d'acciaio.  I due  semicerchi venivano  aperti e  tenuti tesi  per mezzo di un  braccio mobile attaccato al quale era  posta  l'esca. L'uccello, beccandola, spezzava l'equilibrio e la molla, scattando violentemente,   costringeva   i   due  semicerchi   a  chiudersi, strozzando in tal modo l'uccello.

 

 

 

 La pesca

 

 Non si può certo parlare di grande pesca lungo i due torrenti Nervia  e  Merdanzo  perché la varietà e la quantità di pesci   è sempre limitata.  Un tempo, però,  non era raro  vedere pescatori con  la  canna  in mano, rimanere  immobili per ore,  in attesa di  qualche buona  preda.

La pesca, quindi,  era da considerarsi un passatempo  e raramente come fonte di sostentamento. Lo testimonia un  proverbio (noto  peraltro in  tutta la  Liguria)  che  recita: "Pescauu  de cänä, cacciauu de viscu, purtauu de Cristu, i sun i trei ciü belinui che gh’a sciu sta tara”. (Pescatore con canna, cacciatore con vischio, portatore di Cristo [durante le processioni religiose] sono i più fessi che esistano sulla faccia della terra)

 sistemi di pesca del passato furono: u massäme; e fascine; a mässä; u väregu; a cucura; e secägne.

 La pesca col massäme è assai caratteristica e serve esclusivamente a catturare  anguille. Il massame  è composto da una canna rigida della lunghezza di circa due metri e mezzo, tre metri con un filo  legato ad una estremità e avente la lunghezza della canna.  All'estremità  opposta  del  filo veniva  legato  un  piombo e  un mazzetto  di  lombrichi.  L'abilità del  pescatore  consisteva nel confezionare  il mazzetto dei  lombrichi che funzionava  da  esca. Questo  era composto un discreto numero di vermi di terra, attraversati uno per uno, per tutta la loro lunghezza, da un filo resistente. Dopo aver ottenuto  una "collana di vermi"  lunga un metro, la  si avvolgeva sulla mano in modo da farne un insieme unico della grossezza di un pugno.  Era questo il  massame che veniva  legato unitamente  al piombo. La pesca richiedeva anche l'uso di un ombrello.

Dopo  aver intorbidato l'acqua di  un laghetto o dopo  che la pioggia  aveva  ingrossato  le  acque,  intorbidandole  col  fango strappato  dalle rive, il pescatore gettava l'esca e attendeva che l'anguilla  abboccasse. Quando mordeva e, di conseguenza, rimaneva con  i dentini anteriori impigliata nel filo che teneva  "cuciti" i vermi,  il pescatore tirava  lentamente e, pronto  con  l'ombrello tenuto  aperto  e rovesciato  nell'altra  mano, non  appena vedeva l'animale a fior d'acqua, dava uno strappo e cercava di far cadere il massame  con l'anguilla attaccata dentro l'ombrello. La forma concava di questo impediva all'anguilla di scappare.

Altra  pesca all'anguilla si  effettuava con le  fascine.  Si trattava di semplici fascine di rami, strettamente  legati,  poste nei  laghetti. Venivano  gettate di  sera e  ritirate  al  mattino successivo. Nei periodi caldi le anguille, forse per liberarsi dal muco che le ricopre, entravano nelle fascine e vi rimanevano, Le fascine venivano lentamente tirate a riva e aperte. Per poter afferrare il lungo e viscido animale si utilizzava un paio di speciali forbici, lunghe cinquanta centimetri, le quali avevano al posto della parte tagliente una parte seghettata che permetteva  di trattenere l'anguilla senza tagliarla in due.

La  pesca con la mässä consisteva nel colpire violentemente e  ripetutamente  con  una mazza  di  ferro  i massi  erratici che  affioravano in mezzo alla corrente, sotto i quali si rifugiavano pesci e anche anguille. Questi venivano poi rovesciati  a  mano o con l'aiuto del

parfaru  (palanchino). I pesci, rimasti  storditi e incapaci di mettersi in salvo, erano catturati.

Esisteva  pure  una  pesca assai proficua a  carattere  collettivo,  non tanto per il lavoro che occorreva per metterla in atto, quanto per  la  quantità di pesci e anguille che procurava. È  la pesca col  väregu.

Il väregu è un succo denso e lattiginoso, estratto  da  una  pianta  comune nella  valle, in  particolar modo  nei dintorni  di Camporosso:  l'Euphorbia  Amygdaloides.  Dopo  aver  raccolto  una  discreta  quantità di radici di tale pianta, si pestavano ben bene e  si  ponevano  poi a macerare o sotto terra o sotto il letame. A tempo opportuno, cioè con la luna vecchia, si mettevano le radici macerate dentro sacchi di iuta e si portavano nella località scelta  per  la  pesca;  si ponevano  lungo il filo della corrente  e  poi si  cominciava  a  pestarli con  i piedi. Il  succo biancastro che  ne  fuoriusciva si spandeva per lungo tratto, da una  riva  all'altra,   stordendo tutti i pesci e le anguille.

Al  posto del veleno naturale,  per piccoli laghetti o  pozze d'acqua,  venivano utilizzati veleni  chimici, come l'estratto  di ­ nicotina, oppure la calce viva.

Un metodo di pesca all'anguilla era quello in cui si usava la  cucura, un veleno vegetale.

Purtroppo, essendo tale metodo proibito dalle vigenti leggi, esso è ormai scomparso anche tra i pescatori di frodo, per cui, pur essendosi tramandati gli effetti che produceva, c’è incertezza sulla pianta da cui si ricavava la sostanza velenosa. Alcuni affermano si trattasse di una bacca (senza riuscire a precisare la pianta) altri da una specie di fungo. Di quest’ultimo si è trovata notizia. Sembra che si tratti del fungo del genere dei basidiomiceti, il Coprinus  comatus, il quale, pur  mangereccio, può produrre  una sostanza particolare se posto  a contatto  con  l'alcool.  Per  produrre  l'esca occorreva una  accurata e lunga  preparazione. Si prendevano dei lombrichi, si tagliavano a pezzi e si mettevano a seccare al sole. In un barattolo si metteva uno strato di funghi poi uno strato di vermi secchi e così via fino al riempimento del barattolo. A questo punto si versava nel barattolo uno o due bicchieri di grappa e si lasciava il tutto a macerare per qualche giorno. Il verme a poco a poco da secco che era, assorbendo alcool e con esso il veleno che l’alcool stesso aveva ‘distillato’, diventava turgido e pronto ad essere usato. Bastava lanciarne una manciata in qualche laghetto ed aspettare. L’anguilla, ghiotta di vermi, addentando qualche pezzo, rimaneva letteralmente folgorata. Sembra, infatti, che il veleno paralizzi istantaneamente i centri natatori e agisca  sull'apparato respiratorio dell'animale. Questo, in  realtà, non inghiottiva il boccone, anzi cercava di risputarlo e  succedeva  così  che con  un  solo  boccone si  prendessero più  anguille.   Il metodo  è proficuo  solo se  le anguille  abboccano subito in quanto l'esca, lasciata a lungo nell'acqua, perde il suo potere.

In passato si potevano vedere lungo il torrente luci vaganti. Si  trattava di pescatori che usavano il sistema delle freijale. Si tratta di una minivariante della pesca che in mare si fa con le lampare  e che si basa  sul fatto che, esposti  una forte sorgente luminosa, i  pesci rimangono immobili. Quale sorgente luminosa nel passato remoto si usavano rami resinosi di  pino; in tempi  più recenti  venivano usate lampade  ad  acetilene. Per  catturare  le prede  si adoperava un salaio  o un barancin (retino o bilancia  a rete).

Talvolta  veniva  utilizzato  il metodo  della seccägnä  che  consisteva nell'arginare e deviare  la corrente in modo da lasciare  all'asciutto  una  parte del  torrente.   Pesci e  anguille rimasti  intrappolati  venivano catturati con  le mani, con le forbici su  citate o facendo uso di una forchetta per infilzare le anguille.

 

 

 

La pastorizia

 

Un  tempo,  unitamente all'agricoltura, costituiva  la fonte primaria  sostentamento. Ne è testimonianza la costante  presenza nei  documenti notarili  di clausole  inerenti la  pastorizia e  i luoghi  da adibirsi a pascolo, fonte di perenni contese fra i paesi della valle.

Il Rossi,  nella  Storia  del Marchesato  di  Dolceacqua, cita, ad esempio, un passo di uno Statuto del  1267  in cui il legislatore così divideva  alcuni territori dei comuni  di Baiardo,  Isolabona  e  Apricale: "coherencie  sunt  iste:  primum podium Abrigi et descendit per vallonum Abrigi et vadit per passum Gallinayra colligendo totam Canavairam et ferit usque ad terram Bayardi. Item a Collecta Bassa Marcole descendendo per vallonum usque ad aquam Bunde et a dicta Macole usque ad territorium Bayardi.”

Oggi,  tranne  qualche gregge  che  ancora pascola  lungo  le pendici  del monte Toraggio, la  pastorizia è  scomparsa.   Una scomparsa recente  perchè  durante il periodo dell'ultima guerra non era raro vedere greggi pascolare lungo i torrenti o fra gli uliveti.  Si trattava  per lo più di animali di  proprietà di varie  famiglie, allevati sia per stallatico sia per la produzione del latte, allora assai scarso.

In passato, all’arrivo della stagione del pascolo, i pastori salivano a S.Giovanni verso i verdi pascoli dove vivevano all’aperto o trovavano rifugio in grotte o malghe. La produzione casearia cui si dedicavano consisteva nella produzione di piccole forme di formaggio pecorino  chiamate tumete e  nel fornire  ai consumatori del fondovalle il cosiddetto brussu, una pasta densa e piccante, ottenuta dalla fermentazione del latte cui  era  stato aggiunto  caglio, sale, pepe e  acquavite. Un alimento ancor  oggi presente sulle  mense locali. Il  suo consumo  fu così  alto in passato  da  dare persino  il titolo ad  una commedia in  dialetto ventimigliese: "L'amuu u l'è  ciù forte du brussu" (L’amore è più forte del brussu)

Oltre alle malghe, i pastori  utilizzavano anche costruzioni particolari  chiamate  terussi,  formate da  due  muri  laterali  cementati con terra, ricoperti da una volta composta con lastre e terra.  Nella parte anteriore e  in quella posteriore, quando  non era  appoggiata al monte, si aprivano due larghe aperture prive di porta.  L'abitazione era divisa  in due o  tre locali, i  cui muri divisori  servivano da  sostegno al  tetto. Per  lo più nei  muri laterali  non  v'erano finestre  e  nulla lascia  presupporre  che fossero  adibiti ad una abitazione  stabile, in quanto i  pastori,  nomadi  per natura, vi si fermavano per non più di quattro, cinque giorni.

Il modo di vestire dei pastori era molto semplice. Gli abiti erano confezionati con canapa e con lana cardata mediante un  rudimentale pettine formato da  un pezzo di legno  quadrato su cui  erano infissi dei chiodi sporgenti. La lana veniva poi filata e tessuta ottenendo una stoffa chiamata stamegna,  tanto  spessa da  essere quasi impermeabile. Per  cappello usavano un casco di lana  grezza di color  rosso. I calzoni,  di color marrone,  erano  trattenuti  in vita da una cintura di cotone, generalmente rossa, assai  lunga tanto da fare  alcuni giri attorno alla  vita.  Erano corti  e abbottonati sotto le ginocchia; le gambe venivano avvolte in rozze fasce di lana grezza, Per calzature usavano scarponi da montagna. D’inverno indossavano un ampio tabarro chiamato u gunèè.

Sulle spalle portavano una bisaccia dove riponevano il cibo. Alle due estremità della bisaccia era legata una cinghia che era messa a tracolla e lasciava libero l’uso delle mani.  Un   bastone, a volte intagliato, completava il quadro.

Le  donne portavano sottane di panno rosso, guarnite in fondo  da  strisce ricamate o  in velluto nero.  Sul corpo una  pettorina  pure  essa rossa sovrapposta ad un corpetto nero.  Sulle spalle un  ampio  scialle con frange. I  capelli erano per lo  più riuniti in   una lunga treccia e poi avvolti a chignon dietro la testa. 

 

   

 

Le abitazioni

 

Isolabona,  come molti altri borghi della valle,  si presenta come  un agglomerato di case organizzate a difesa reciproca ed ha una  semplicità  primitiva. Sorse alla base di una collina nel punto  in  cui si  congiungono i due  torrenti Nervia e  Merdanzo. Nella  parte superiore i Doria  costruirono il castello, mentre i lati del paese, a nord e a sud, erano formati dai muri massicci delle abitazioni, costruite senza interruzione di continuità, e nei quali non vi era alcuna apertura di sotto ai dieci metri. Le uniche due vie d’accesso al paese erano difese a est dal Castello e ad ovest da uno sperone roccioso, sotto il quale scorre il Nervia, collegato  all'altra sponda  da  un  ponte a  schiena d'asino   (distrutto   nell'ultima  guerra   e  poi  ricostruito).

Il paese racchiuso in questa cinta muraria, rimasto immutato nel tempo,  presenta un brulichìo di rampe, di saliscendi,  di stretti carruggi le cui opposte facciate delle case sono a volte  unite  da archetti  in muratura, con  funzione antisismica, a  volte da  una vera e propria grotta su cui è costruita un’altra abitazione. Era il  bisogno di difesa che  faceva sorgere simili costruzioni.

Del Castello, una costruzione a se stante, sono rimaste solo  le  mura perimetrali, le  quali  non  permettono di capire quale potesse essere l'architettura interna  ( sembra che il castello non sia mai stato completato). Per coloro che volessero farsene una idea, si rimanda alla accurata descrizione che lo storiografo G. Rossi ci ha fornito del Castello  dei  Doria  di Dolceacqua.

Le  case  del nucleo  storico  Isolabona si  presentano quasi tutte strutturate in un modo particolare.

Normalmente  la casa da  abitazione è composta  da 4/5  vani, quasi sempre sovrapposti su 2/3 piani.  E' costruita in pietra e calce,  con spessi  muri perimetrali  (50/70 cm  e anche  più).  I soffitti sono a volta. Le finestre sono piuttosto piccole  e  non rispettano quasi mai una regolare simmetria edilizia esterna. Al piano terra si  trovano uno o  più locali adibiti a stalla o deposito  per foraggi, prodotti  della terra e  attrezzi  agricoli oppure  a  cantina.  Le porte,  non  sempre  munite di  serratura, venivano  un tempo  chiuse dalla  tartavala, un  piolo di  legno dentellato,  situato  orizzontalmente  dietro la  porta,  a  mezza altezza, che veniva azionato dall'esterno per mezzo di un  ferro  uncinato. 

Si accede al primo piano mediante una scala in muratura, con scalini  in ardesia. La  prima rampa è quasi sempre esterna  e un piccolo  ballatoio forma l'ingresso  della casa. Il  vuoto formato sotto  la scala esterna  e sotto il  ballatoio dava origine  ad un minuscolo  vano chiamato stagetu, destinato al deposito di legna  o attrezzi.

La cucina era  generalmente al  primo  piano  e in  un muro perimetrale  stava il  camino dal  quale pendeva  una catena per agganciare marmitte,  padelloni,  in particolar  modo quelli per  cuocere le  castagne. Di  fronte ad  esso stava  un banco  in muratura su cui era appoggiata la seglia (secchia per l'acqua) e in cui era ricavato un pozzetto per la lavatura  quotidiana  delle stoviglie.  In un  angolo, bene  in vista,  stava u  bancää,  un mobile  a metà  fra la  cassapanca e la madia.  In ogni cucina  non mancavano mai i lumi a olio di caratteristica fattura, le lucerne, le  batterie di rame, il  mortaio ecc. Tra gli  strumenti del buon tempo antico è da notare vicino agli alari u sciüscietu, il soffietto, formato da un lungo tubo di ferro in cui si soffiava per alimentare le braci.

Le stanze superiori avevano un aspetto comune: letti di legno con sacconi pieni di foglie di granoturco, seggiole impagliate, un lume con a fianco esca e acciarino, a banchetta  (sgabello). In certe camere, sopra il letto, venivano poste della canne  a  forma di  pergolato le quali servivano  per  sostenere grappoli  d'uva cui si lasciava  un lungo tralcio per appenderli,  mele e pere  legate per il  picciolo,  tutta frutta da consumare nei mesi invernali.

Il  solaio serviva quale deposito  per la legna, per  patate, per  le  castagne.  Il tetto  era  ricoperto  da coppi  o tegole o  lastroni di pietra disposti a embrice.

Il  solaio fungeva  pure da  luogo igienico  e  ospitava  tre oggetti  che non mancavano in  nessuna famiglia: a benengeia, u segliun e a barii.  La prima  consisteva in  un capiente  vaso di  terracotta smaltata, con maniglie ai lati e aveva la forma del cappello che i medici  immortalati  da  Moliére  erano  soliti portare.  Era sistemato sotto  un asse trasversale,  una specie di  seggetto con un  ampio foro  al  centro.   In esso  tutti  i  componenti  della  famiglia depositavano  il  "soverchio  pondo  del  corpo"  e,   quando   la  benengeia   era colma, il liquame veniva con cura travasato nella  barii , un barilotto di legno della capienza di 20/30  litri  che poi,  accuratamente  tappato con  un  turacciolo di legno, veniva avvolto in un telo di juta, u curauu, e portato negli orti o negli uliveti dove veniva utilizzato come ottimo concime.

Per le campagne oltre ai terüssi di cui già si è detto, vi erano pure i casui (metati) che tra l’altro servivano per l’essiccazione delle castagne. Erano costituiti da quattro muri perimetrali alzati a secco, con due finestre, una porta e il tetto senza soffitto. Il pavimento era in terra battuta. Servivano per riparo e anche per deposito di concime. Uno dei  pochi  mobili presenti  era il boregu, consistente in una sezione di un tronco d'albero, alta dai 60 ai 70 centimetri, nella cui parte superiore  veniva  praticato un  incavo profondo  30/40 cm.  Serviva  per depositarvi il cibo. Sull'incavo veniva posta una lastra d'ardesia   che fungeva da coperchio e al tempo stesso da desco.     

 

 

 

 L'agricoltura

 

Considerando  la valle nel suo complesso, si può  suddividerla  in  tre distinte zone: la  floreale che va dalla riva del mare sino ai 300 metri, la viticolo-olivicola che  va dai  300 ai 700 metri e la montagnosa.  Isolabona appartiene alla seconda  fascia e la  sua agricoltura ha   sempre   risentito dell'influenza altimetrica, della ripidezza e del frastagliamento del suolo. Sin dal più remoto passato i contadini, con lavoro costante e pervicace, durato per secoli, sono riusciti a scavare nei fianchi delle colline numerose fäsce o terrazze sorrette da muretti a secco, i müragni, che, impedendo alla terra di scivolare a valle, hanno permesso la coltivazione di viti e ulivi.

Per quanto concerne l'industria vinicola, i metodi non sono molto mutati rispetto al passato. Ancora oggi per la raccolta e il trasporto a valle su utilizzano i curbin e le curnüe. I primi consistono in gerle fatte con sottili lamelle di legno di castagno intrecciate a forma di parallelepipedo e vengono trasportate trasversalmente sulle spalle o poste in coppia  ai lati  del  basto  di un mulo. Una volta pieno, la parte aperta del curbin  viene chiusa da un telo quadrato di iuta, u curau, che ha ad ogni angolo una fettuccia di circa 70 centimetri.  La  forma del curbin, alto un metro circa, è  motivata forse dagli stretti sentieri e mulattiere che uomini  e animali devono percorrere e, inoltre,  rende  facile  il  trasporto  in  quanto  viene  portato trasversalmente sulle spalle, appoggiato su  un  sacco rigonfio d'erba  e piegato in modo  da formare un cappuccio  che ricopre la testa. Lo strano appoggio viene chiamato pagliassu.

La curnua è un recipiente di legno a forma di bigoncia. Le tavole con cui è composta sono tenute assieme da cerchi di ferro, uno  dei quali, quello superiore, ha due maniglie che servono per il  trasporto. Sebbene i due recipienti siano ancora in uso, oggi, con la costruzione di nuove strade, si utilizzano  recipienti in plastica  più idonei e maneggevoli.

Altri  attrezzi curiosi legati alla produzione del vino erano a cupa du vin, che veniva usata a mo' di mestolo per attingere vino da un tino o da una botte. La si ricavava da una  speciale zucca  (Lagenaria vulgaris) che cresce a forma di fiasco con un lunghissimo  collo.  Una volta  essiccata  poteva essere  usata in duplice  modo. Vuotata dei  semi dalla parte  del collo aveva  la funzione  di conservare un  liquido (in questo caso è nota anche col nome di 'zucca del  pellegrino', (quasi sempre presente nell’iconografia dedicata a S.Rocco). Se, invece, si praticava una  apertura nella parte  panciuta, la si poteva usare come un  mestolo.

Oltre a cupa du  vin veniva anche chiamata a ciuca  da marda, (la zucca per il liquame)  se si usava per vuotare i pozzi neri.

Altro  attrezzo è  l'apusauu,  o pigiatore. Consiste  in  un lungo  ramo  d'albero,  avente  ad  una  estremità il moncone di tre, quattro rami divergenti. Serviva durante la fermentazione dei raspi pigiati per spingerli verso il fondo della botte, dato che essi tendono sempre a risalire in superficie.

Per  la  produzione  dell'olio  alcuni  metodi  risalenti al passato hanno subito variazioni. Durante  il periodo della raccolta dei frutti si possono oggi vedere larghe reti di nylon poste  nelle fasce,  sotto ogni  pianta, pronte  a ricevere  i frutti  quando cadono.  Un  tempo si lasciavano cadere a terra ed erano le donne a  raccoglierli. Chine o  in ginocchio,  prendevano le olive una ad una  e le riponevano nel sacùn, una specie di sacchetto appeso a mo' di marsupio all'altezza della pancia. Un lavoro estenuante che rompeva la schiena e che durava per ore e ore.

Quando ancora non esistevano gli asili, non era raro  vedere appeso ai rami di un ulivo, a mo' di amaca, un curauu dentro il quale veniva posto qualche bimbetto strettamente avvolto in fasce affinché non cadesse o sfuggisse alla sorveglianza o, credenza popolare assai diffusa, non si addormentasse e rimanesse in balìa di qualche serpentello pronto ad introdursi nella sua bocca per succhiargli il latte precedentemente preso. Sebbene robusti, i bimbi non avevano la forza di Ercole per poterlo strozzare!

L'abbacchiatura avveniva e avviene ancor oggi mediante l'uso di lunghe pertiche flessibili e ramauire. Un tempo, quando non era in uso la rete di nylon, solo al momento dell'aramä, dell'abbacchiatura, si stendevano a terra larghi drappi bianchi, le tende, su cui cadevano frutti, foglie e rametti che la lunga pertica strappava all'albero, per cui occorreva, a fine giornata, separare i frutti da tutto il resto.

I sistemi in uso consistevano in una operazione definita con la frase lansää e aurive (lanciare le olive). Si piantava trasversalmente nel muro una pertica  all'altezza  di due  metri e su  di essa si  sistemava, quasi fosse un sipario,  un lenzuolo che scendeva fino a terra e che continuava per  un  certo tratto formando una  specie di largo di tappeto.  Il lanciatore si poneva  ad una certa è distanza e, usando le mani o una sassola, lanciava frutti, foglie e  rametti raccolti sulle tende in direzione del suddetto lenzuolo. Si otteneva così che le olive, più pesanti,  finissero  su di esso mentre foglie e  rametti,  più leggeri,  fermati per l'attrito  con l'aria, cadevano  durante  la traiettoria. Con un pratico accorgimento gli uomini addetti a tale lavoro  facevano  passare  un angolo  del  telo  che conteneva  il mucchio  da  mondare,  in mezzo  alle  gambe  e lo  fissavano alla cintura  dei pantaloni, nella  parte posteriore, per  evitare  che   durante il lancio le olive potessero disperdersi.

Un sistema più recente è  l'uso della "chitarra". Si tratta di una  specie  di scivolo  delle  dimensioni di 70x200 centimetri, composto  da  una  serie di  fili  posti  secondo la  lunghezza ed equidistanti  gli  uni dagli  altri quel tanto  da non  lasciar filtrare i frutti ma solo  le foglie.  Sulla  "chitarra",  posta inclinata,  venivano fatte scivolare foglie e olive; queste ultime rotolavano velocemente e si accumulavano in basso, mentre le foglie cadevano a metà  strada.

Chi oggi percorre la strada che da Ventimiglia va a Buggio, incontra  lungo il tragitto  ruderi anneriti dal  tempo, ricoperti d'edera, formati da un corpo principale, con a fianco delle vasche digradanti,  collegato con  un canale aperto.  É u defisiu, (frantoio), l'edificio dove i produceva l'olio. All'interno vi sono ancora le pile  entro le  quali venivano  frante le  olive e  u gumbau,  la grossa macina formata da una enorme pietra a forma di ruota che, azionata dalla forza idraulica, serviva per la  frangitura.  Nella pila si versava una certa quantità di frutti misurati a carte.

 A carta, quarta o minetta, è  la misura delle olive tuttora in uso. Consta di un recipiente cilindrico, attraversato  da  una sbarra di ferro,  della capacità  di un doppio decalitro. Quando la quarta  è  stracolma la si  pareggia con un matterello, a randa, che ha la funzione di togliere u curmurume, il soprappiù.

Altra misura piu piccola è u mauturää. Per formare una minetta ne occorrono circa sei e mezzo.

Un tempo non molto lontano, per trasportare l'olio dal frantoio fin nelle panciute giare che ogni famiglia possedeva e custodiva in cantina a fianco delle botti e delle damigiane di vino, si metteva in otri di pelle di capra che una volta vuotate nella  giara,  potevano essere  accuratamente  strizzate per recuperare l'olio fino all'ultima goccia.

Il  compenso  per il  frantoio non era  versato con una  somma in denaro, ma era uso lasciare al padrone (un tempo al feudatario locale cui appartenevano tutti i  frantoi) il  pannello  di pressatura, il  fiscolo,  che,  opportunamente  trattato,  produce ancora olio, il  cosiddetto öeriu  lavau (olio  lavato).  Al frantoiano  spettava pure u framegu, la sansa;  di  questa  il produttore aveva  il diritto di prelevarne una parte per suo uso e   consumo,  

 

 

 

L’ orticultura

 

L'orticultura viene praticata quasi esclusivamente in minuscole  fasce ricavate lungo i  versanti dei due torrenti o in prossimità di polle sorgive  o  di riane,  piccoli  ruscelli che scorrono tra le valli e che si immettono nei due torrenti.  In questi  due ultimi  casi vigeva  un tempo  (ed oggi  ne è  rimasta ancora  traccia) l'uso di ripartire  tra i proprietari degli orti adiacenti il consumo settimanale dell'acqua. A seguito  di  regole verbali e scritte i vari proprietari hanno acquisito diritti che permettono loro di usufruire di un determinato numero di ore d'acqua (giornaliero o settimanale) per irrigare. Durante i periodi di siccità, quando il ruscello o la sorgente sono ridotti agli estremi, i contadini mettono in atto accorgimenti che permettono lo sfruttamento completo dell'acqua. Si costruiscono lungo il ruscello,  per  una lunghezza  di cinquecento metri, piccole dighe in cui si formano polle d'acqua.  Dopo che per continue tracimazioni le polle d'acqua sono colme, si aprono simultaneamente e si convoglia il flusso verso la zona  da irrigare o meglio  ancora verso qualche capace  pozzo dal quale poi attingere l'acqua con comodità.

Il sistema  di ripartire il consumo d’acqua a ore, pur consolidatosi nel tempo, ha pur  sempre  generato liti  tra i proprietari di orti adiacenti.

Nel manoscritto Cane si leggono  testimonianze di acquisto  di ore di  acqua o di  terreni cui era legata una clausola relativa all'acqua.

"1804.  lì 8  Magio comprato dodeci  ore di aqua  al giardin da Sigr. Prevosto Cassini pagata lire cento. In tuto le registrazione scrittura  sono lire 112. Fato l'istrumento Pietro Paulo Cassini".

"1812...  lì 3  Maggio fato  estimare il  pesso di  fascia di  mia sorela Gerolima a Gautero atiguo la nostra con parte al  aqua  del troglio  delli trei giorni per  setimana e note abiamo  insieme co suo  figlio Giambatista  cioè la  metà perun. La stimata Antonio Cascin la fascia e laqua in tuto vale settanta lire e lo pagata.

“1813. li 16 Genaro hanno passato l'istrumento mia sorela e i miei Nipoti e mi anno abbonato una troglià di aqua per setimana. Stato fatto dal notaro Stefano Marchesana.

“1813. li 26 febraio comprato un pesso di terra gerbido dalla moglie di Gianbatista Rostagni in Bondon per impedire a morti particolari detta che non potesse vortar altra aqua o sia innovare altro bedale."

Per quanto invece concerne le liti tra vicini ecco quanto si legge sempre nel manoscritto:

"1808. la note delli 25 agosto cioè la matina mi sono alssato ad aurora per andare alla bottega mentre che io drovo la porta sottana vedo calare una croce che era arrenbata alla porta una croce di cana legata con una ena? di canapo in meso era legato tre teghe faiscioli già sechi jo lò presa e baciata e la canservo e questo vorgarmente si diceva che l'aveva avuta alla porta arenbata gioani Moro e suo figlio pe cagione che litighiavimo l'aqua di Bonda.

“1808. li 21 Novenbre è cascato mio nipote Gio Antonio Moro giù di un albero di oliva in Camegna e lan adiato dentro un lenzolo. Li 30 è pasato a miglior vita e questo si diceva che lui e suo padre avevan portato la croce alla nostra porta."

 

Per zone ortili in prossimità dei torrenti o dei canali all'aperto (bedali) che un tempo convogliavano l'acqua al mulino si usava u trabücu o a sigögna, una specie di noria a bilanciere che, applicando il sistema della leva, portava ad una estremità di un lungo braccio un peso (solitamente una grossa pietra) e dall'altro un'asta mobile cui veniva fissato un secchio. Un sistema universamente noto e utilizzato lungo fiumi o laghi. Fu largamente usato dagli Egizi,e lo è tutt’ora, lungo le sponde del  Nilo.

Fra gli attrezzi caratteristici per dissodare la terra veniva usato u magägliu, specie di zappa che al posto della pala aveva tre  lunghi denti di ferro. Maneggiato a due mani, penetrava nella terra   e  permetteva  di  sollevare  grosse  zolle  che  venivano frantumate  con lo stesso  attrezzo manovrato a  rovescio. Fino  a qualche  tempo  fa  era  l'unico  strumento  che   permetteva   di dissodare  la terra nelle fasce  e negli orti; oggi,  la meccanica moderna l'ha sostituito con piccoli, maneggevoli aratri a motore.

L'attrezzo  caratteristico  delle  donne era a messuira,  un falcetto messorio simile ad una roncola, ma con la parte tagliente fatta con una lamina sottile, adatta a tagliar l'erba. Era spesso affilata con una pietra di argilla schistosa, a cueta, che gli  uomini custodivano  in un  corno pieno  d'acqua  appeso  alla cintola.  Serviva,  infatti, anche  per  arrotare la  lunga  falce messoira  manovrata, sempre,  da  braccia maschili. Oggi  entrambi gli attrezzi sono stati sostuititi da falci a motore.

Si  deve rilevare  che non  per tutti le risorse  della valle offrirono  possibilità di sostentamento, per cui molti abitanti di Isola  dovettero lasciare  in passato  le loro  case  per  cercare lavoro  altrove, in particolar modo nella vicina Costa Azzurra o nella zona costiera ligure dove il turismo si andava prepotentemente sviluppando. Un esodo resosi ancor più necessario quando le tre uniche industrie del paese, il pastificio che sorgeva au Gau, una località poco distante dal paese, in riva al Nervia, una fabbrica di fiammiferi costruita all'inizio del paese e la cartiera di cui già si è parlato nella parte storica, furono distrutti dal fuoco o abbandonati per dissesti  finanziari.

 

 

 

 

 

 

Foklore domestico: dalla culla alla bara.

 

 

La nascita

 

Sino  a  qualche  decennio  fa  ancora  si  conservavano  con religiosa  tenacia  riti, usi   e  tradizioni,  tramandate  da   lontane generazioni, i quali accompagnavano le varie fasi della vita  di  ogni uomo. E ciò  perchè ogni popolo, in ogni tempo, ha  sempre  cercato una spiegazione, sia pure semplicistica per qualsiasi  atto  della vita ottenendo, risultati che a noi paiono puerili, ma che nella loro semplicità ci permettono di penetrare nell'animo di chi li accettò.

Nel  mistero  della  nascita,  ad  esempio,   la   conoscenza anticipata  del sesso  del nascituro  (fatto che  in  una  civiltà contadina  ha  sempre  una  grande  importanza),   si  riteneva di poterlo determinare dalla conformazione fisica della gestante: se la forma del ventre  era  tondeggiante  il  nascituro  sarebbe appartenuto al sesso femminile; maschile se la forma era  a  pera. Esisteva un proverbio che recitava "A tripa puntüa a nu porta capèli" (Pancia a punta non porta cappelli, intesi come copricapo femminile).

Al neonato, per evitargli il malocchio, veniva posto al collo un  nastro con  amuleto. In  paese si  usavano piccoli  scapolari, "abitini", formati da due rettangolini di seta ricamata, uniti tra di  loro e contenenti all'interno un’immagine sacra. Generalmente gli scapolari erano due, legati all'estremità di due nastrini. Uno di  essi appoggiava al torace e conteneva l'immagine della Madonna e  l'altro, posto tra le scapole, conteneva l'immagine di un Santo alla cui custodia il bimbo era stato affidato.

Al  corteo che andava  in chiesa, composto  dal padre,  dalla madre, dalla madrina e dalla levatrice cui era affidato il compito di  portare il  neonato, si  aggiungeva ora  un bambino,  ora  una bambina, che aveva il compito di portare un piccolo  recipiente  a forma  di  anfora u  tupin o tupinetu o bruchetu (a Dolceacqua era chiamato megietta, ad Apricale duletu) contenente acqua pura con cui il sacerdote, prima del rito, doveva lavarsi le mani.

A  cerimonia conclusa e dopo il rientro a casa,  genitori  e parenti  del neonato, affacciati ad  un balcone da cui  pendeva un drappo bianco, lanciavano sul capo della popolazione che affollava la strada o la piazzetta sottostante, noci, nocciole, mandorle. Ai frutti  seguiva un lancio di papioti (caramelle) e di ciücarìn, confetti che  i  più  astuti  coglievano al volo  alzando sopra la  testa un parapioggia  aperto, tenuto per il puntale. Assai di rado si aveva anche un terzo lancio composto da monetine.

Dopo  il battesimo la puerpera non poteva recarsi in visita ad amici e  parenti  se prima  non  avesse  superato il  rito  della purificazione.  Si recava in  chiesa e col  prete faceva tutto  il giro   della   stessa  prima   di   ricevere  la   benedizione.  A Castelvittorio  tale  cerimonia  era  definita  con  l'espressione pigliar a geija.

               

 

 

Infanzia e adolescenza

 

Nell'arco  della vita di  ognuno il periodo  più  sereno,  più  giocondo  e  forse  il  più   felice   riguarda  la  sua  inconscia fanciullezza. Lontano dal male perchè non lo conosce ancora, volge tutta la sua attività fisica ai giochi che diventano così lo scopo essenziale e naturale del suo vivere.

Tra i giochi che maggiormente hanno resistito  all'usura  del tempo, e che  ancora oggi permangono  nel ricordo  degli  anziani, vi  è  quello di bedin-bedò fatto con  fagioli che dovevano, a forza di bedinate (colpi di pollice), cadere in una buca.  Ogni tiro veniva  accompagnato dalla formula scaramantica "Bedin-bedò, cärä en tu ciò " (Fagiolo, finisci in buca).

Il cian ciapin consisteva in una specie di pampano.

E  arimete (le piccole anime) altro non era che la versione del  gioco 'testa o  croce' che si  fa con una  moneta.  Solo  che allora veniva eseguito con bottoni di diversa specie.  Sembra  che in ogni cultura contadina i bottoni abbiano  sempre  rappresentato qualcosa  di  importante: basti  pensare  al bellissimo  libro, La guerra dei bottoni scritto all'inizio del secolo dal francese  Louis Pergaud.

Altri  giochi erano: u  deliberu, una specie  di guardia  e ladri; a pimpirinala, la  lippa; a sgravaudura, la trottola; Pärte  Girölamu, una sorta di  moscacieca in cui un  fazzoletto non  serviva  da  benda ma  solo  per  colpire e  così catturare i compagni che tentavano di fuggire (una variante era u  mirorbu, la  moscacieca).  U nitussu,  un gioco che  si svolgeva lungo  le sponde  del torrente, consisteva in una sorta di battaglia fra bande opposte che si  scagliavano a  nita, il  muschio che  cresce sott'acqua.  U pistuletu era un  di gioco di destrezza che consisteva nel lanciare il più  lontano possibile un seme, per lo più delle beule d'agäiju (bacche di ginepro) mediante l'uso di un pistuletu, una corta cerbottana ricavata da un rametto di sambuco lungo una ventina di centimetri cui, con un ferro rovente, era stato tolto il midollo.

 

Tra i giochi dei grandi, in via di estinzione, si possono ricordare a mura, la morra, e u giögu du balun, il gioco del pallone elastico. Quest’ultimo, comunque e per fortuna, tutto il paese  tenta pervicacemente di salvarlo e di mantenerlo in auge.

 A mura veniva giocata da due o più  giocatori i quali gridano un numero compreso da zero a dieci, abbassando contemporaneamente e velocemente il pugno chiuso o con alcune o con tutte le dita distese. Vince chi indovina il numero ottenuto dalla somma delle dita distese delle due mani. Un tempo, in prossimità delle poche osterie le urla dei giocatori salivano alle  stelle...  e  le bestemmie di chi perdeva pure. Oggi tutto è silenzio.

Il  gioco del pallone elastico si svolgeva (e si svolge tuttora) tra due squadre di quattro  giocatori che scagliavano un pallone da un capo all'altro di una piazza colpendolo con un pugno. Ogni  giocatore  usava fasciarsi una mano con una benda per colpire un piccolo pallone di gomma. Un tempo il pallone era formato da liste di cuoio che fasciavano una vescica di animale dentro la quale si metteva il tuorlo e l'albume di un uovo e che poi veniva gonfiata. Durante il gioco l'uovo in continua sollecitazione tendeva 'a montare', a gonfiarsi, il che rendeva sempre  più  duro il  pallone e il  colpirlo a pugno  nudo o solo bendato  diventava  pericoloso.  Al  posto  della  benda   era, pertanto,  usato un bracciale  di legno che,  simile al cesto utilizzato dai pugilatori greci, fasciava la mano sino al  gomito.

Il gioco  del  pallone è  oggi in via  di estinzione per  mancanza di spazi adatti. Solo la piazza di Isola, adiacente alla Chiesa parrocchiale si presta in modo egregio allo scopo.

In passato una sua variante era u stringhetu.  Si trattava dello stesso gioco del pallone elastico eseguito però in spazi più ristretti nei quali non c’era bisogno dell’uso del pugno ma della pättä, cioè del palmo della mano. Veniva praticato  nei carruggi dove esistevano case con ballatoi esterni, le cui scale venivano usate come "rampa di lancio".

 

 

 

Fidanzamento e matrimonio

 

Il periodo del caregnää (amoreggiare) faceva parte dell'eterno gioco dell'amore. Gli innamorati, a seconda del paese, avevano una denominazione particolare. A Isolabona, ad esempio, lui veniva definito bardäsciu, un termine oggi totalmente desueto il quale aveva il significato di giovane da marito. Lei, a Dolceacqua, veniva definita u s-ciancurelo. Tale parola ha anche un altro significato e sta ad indicare un grappolino d'uva. Un gentile omaggio di galanteria che i giovani fanno alle fidanzate paragonandole a chicchi d'uva che  oltre a  contenere  zucchero possono anche, col loro contenuto, far girare la testa.

Vigevano  pratiche ingenue che  permettevano  alle ragazze di sapere  se si sposavano entro  l'anno. Ad esempio una sartina che  cercava un capo  del filo in  una  arruffata  matassa se non lo trovava rimaneva zitella.

Ogni  ragazza, per sapere se  avrebbe sposato un uomo  ricco, nascondeva sotto  il cuscino tre fave di cui una con la buccia, una sbucciata a metà  e l'altra interamente.  Durante la notte, al buio, ne sceglieva una e avrebbe così saputo se il futuro marito sarebbe stato una persona ricca, parzialmente benestante o povera.

Esisteva pure il sistema di gettare il primo giorno dell'anno una  pantofola contro la  porta: se questa  si fermava con  la punta  rivolta  verso l'uscio significava che  la ragazza si sarebbe sposata  entro l'anno. Il De Gubernatis, nel suo libro Storia comparata degli usi nuziali  in Italia  (Milano, 1869)  rileva che  persino in  Russia vigeva  un uso analogo e scrive  "si gettava una pianella sopra la strada;  lo sposo dovrà  arrivare da quella parte verso la quale si volge la punta della pantofola".

Per informare i genitori dell'intenzione di sposare  la  loro figlia  l'interessato  era solito porre sulla soglia di casa della prescelta ün ciücu, un piccolo ceppo d'ulivo. Se il giorno dopo il  ceppo non c'era  più era segno  che i genitori  approvavano la proposta.   Poteva   accadere   che   qualche  buontempone,  per divertimento, portasse via nottetempo il ceppo o che  un  innamorato respinto lo trafugasse per impedire il matrimonio.

Poteva  pure  accadere  che qualche  pretendente,  ignaro  di essere  stato preceduto, ponesse a sua volta il ciücu. In questo caso  la  famiglia pregava  il banditore del  paese, u batiuu  da cria, di passare di caruggio in caruggio suonando una trombetta e informando la gente che si affacciava alle finestre: "U  s'avarte che  chi ä  messu u  ciücu sciü a porta  de (seguiva il nome  della famiglia)  de  andärlä  a descciücää  perché  a  giuvena a  l'a giä enciücä"  (Si invita colui che ha messo il ceppo sulla porta della famiglia (...) di toglierlo perché la giovane é già promessa). 

Tale uso, scrive Giuseppe Ferraro, si riscontra anche a Serra San Bruno di Calabria dove "l'amante usa di notte mettere davanti alla casa della  ragazza, da lui presa ad amare, un ceppo adorno di nastri, fazzoletti  ecc. Se il ceppo é   ritirato, la ragazza accetta l'amor suo, se no i parenti dicono : 'Non abbiamo  figlie da marito'  e allontanano il ceppo".   Analogo  uso   si   riscontra   anche nell'Abruzzo".

A  Isola  gli  innamorati respinti  talvolta  si  vendicavano imbrattando  la porta della  ragazza con sostanze  maleodoranti  o le cantavano serenate con ingiurie più o meno sconce.

Eccone due riferite da un vecchio di Isolabona il quale, mentre le declamava, rideva forse ricordando la sua gioventù e i suoi trascorsi.

 

                 Bigina a Sciäcästrässe,          Bigina Schiaccapanni (Lavandaia?)

                 a figlia du bastéé ,                   la figlia del maniscalco

                 Cun tütte e sue cumpagne      con tutte le sue compagne

                 che stän per lu cartié,             che abitano nel quartiere

                 a seira a vä en retréta            di sera si apparta

                 cun tütti i giuvenoti                con molti giovanotti

                 e, envece de camije                 e, invece delle camicie,

                 a ghe stira i manegotti.         stira loro i manicotti.

                 Sti giuvenotti pöi,                  Di questi giovani poi

                 a nu ve ne digu ran.               io non vi dico nulla,

                 ché a ne dirìa trope               perché ne direi troppe

                 e u nu starìa ban.                  e non sarebbe conveniente.

               

                 Gardei che bala scöra            Ma guardate che insegnamenti

                 a n'ä mustrau en Acòla,          hanno impartito  ad Acòla,

                 sta troia de Girola,                 a questa troia di Girola,

                 sta  cavälä.                               questa cavallona.

                 Caväle  de omi frusti              Cavallone di uomini frusti

                 a nu n'ämu mai vusciüu.        non ne abbiamo mai volute.

                 Adassu a me ne riu                 E adesso me ne rido

                 de tue belesse.                          delle tue bellezze.

 

Poteva  pure accadere che due innamorati, per rivalità  fra le loro famiglie tentassero di tenere nascosta la loro relazione. Non era raro che qualche pretendente respinto rendesse nota  tutta  la faccenda  tracciando per terra  un caminetu de sene (sentiero di cenere) una  lunga striscia di cenere che dalla casa di lei andava sino a  quella  di lui, e informando così tutto il paese.

Tali camineti de sene si tracciavano pure quando una donna sposata aveva una relazione illecita; in questo caso  la  striscia di  cenere non iniziava  dalla casa della donna, ma, in  senso di disprezzo, incominciava dalla porta della sua stalla.

Totalmente  scomparso in tutta la vallata l'uso riguardante i fidanzamenti  fra  giovani di  paesi  diversi. Consisteva  nel far pagare  una  somma  a chi veniva a sposare una ragazza in un paese  non suo.  Era forse  questa una  reminiscenza  del  diritto familiare  longobardo  in  cui  era  stabilito che, qualora un matrimonio avvenisse fuori della Sippe, lo sposo doveva  pagare alla  Sippe il guidrigildo pari al valore della sposa che si considerava in certo qual modo rapita alla sua comunità .

Un’espressione caratteristica  era ancora  in  uso  alcuni decenni  or  sono  per indicare  le  pubblicazioni  di  legge  che venivano  esposte  nelle bacheche  del  municipio e  della chiesa. Riferendosi  ai due fidanzati si diceva i sun en ta gäggiä, sono nella  gabbia, una allusione per indicare che il matrimonio era una trappola a due.

La cerimonia nuziale non presentava nulla di caratteristico, tranne l'analogia col battesimo.  I  due sposi,  infatti,  erano soliti  lanciare dalla finestra ciucarin, papioti e ciapelette dolciumi vari, per lo più caramelle, nonché   noci e mandorle. L'uso romano che la poesia di  Catullo  ha tramandato  rimase a lungo vivo  nella memoria degli Isolesi:  "Ne diu taceat procax/fescennina iocatio,/ nec nuces pueris neget."

Il lancio  delle noci conferiva  alla cerimonia un  sottile senso  di melanconia  in  quanto  stava  a  significare  l'addio  ai  giochi dell'infanzia  e l'abbandono della puerizia. Era una malinconia subito fugata durante il pranzo nuziale;perché non mancava  mai  qualche commensale che intonava strambotti e stornelli salaci che facevano arrossire  la sposa.  In questo  vi era  ancora un  ricordo della "fescennina licentia" di cui il poeta latino parla nel suo carme dedicato al matrimonio di Manlio Torquato e Vinia Arunculeia.

Circa il disfavore per le seconde nozze e l'uso del ciaravügliu si rimanda alla parte IV del libro dal titolo “L’aria di ponente”.

 

 

 

Funerali

 

Ancor oggi è consuetudine avvertire la comunità della morte di un suo componente mediante il suono delle campane, i cui rintocchi variano secondo il sesso; tre brevi serie di rintocchi se il morto è un uomo, due se una donna. Un tempo si usava pure "suonare l'agonia", consistente in brevi rintocchi cadenzati che  risuonavano a lungo e duravano finché  la persona non fosse morta.

A morte avvenuta il primo atto era  quello di  aprire le finestre,  atto dettato dall'ingenua  credenza che l'anima potesse volare via libera, poi le persiane venivano chiuse.  Ogni  specchio veniva coperto da un drappo per evitare, come scrive  Van  Gennep, "de  laisser le cadavre se reflechir", in quanto l'anima, se morta in stato di grazia, vedendosi bella nello specchio, per un eccesso  di narcisismo, non si decidesse a liberarsi dal corpo.

A Isolabona vigeva  l'uso di  legare con  una  fettuccia  le caviglie  del morto e, in tempi assai antichi, di mettere in bocca ad  esso una  moneta: reminiscenza  dell'obolo pagano  con cui  si voleva che il defunto pagasse il pedaggio per  essere  traghettato nell'aldilà.

Il  Rossi,  citando un  passo  del  "Procaccino ligure", a proposito del corteo funebre scrive: "circa le tre del mattino mi pervenne confusamente all'orecchio un lungo e continuato scampanio. Balzato dal letto e aperte le imposte di una finestra che mette su una piazza vidi avanzarsi una lunga processione di battuti che con torchie facea corteo ad un feretro. Lo seguivano femmine in veste bruna, discinte, scarmigliate, coperto il capo di larghi cappellacci, le quali    battendosi il petto  e le guancie  rompevano in  acutissimi  gridi di dolore. Attorno al defunto poi deposto non in una bara ma sopra  un lettuccio  e vestito  de' migliori  suoi abiti,  stavano tutti  i più prossimi parenti. Non tardai a richiamare in mente le "preficae",  i "vespillones", i "lectuli" e le "neniae" dei romani e  mi  convinsi  dei  riscontramenti  che  nelle  usanze  funerali si conservavano tuttora".

Di tale uso non ho riscontrato alcuna memoria nei vecchi isolesi intervistati.

Concluderemo segnalando ancora  un antico costume isolese. Sino all’inizio del secolo scorso si credeva  nel ritorno temporaneo  dei morti nel  giorno della  loro annuale commemorazione. Al mattino i familiari, prima  di  recarsi in chiesa per la messa, avevano l'avvertenza di  mettere  lenzuola pulite nei letti, di lasciar in ordine ogni cosa, di preparare sul desco  cibi e bevande e di porre un lume acceso in cima alle scale per   dar   modo  al  congiunto  morto,  se  fosse  ritornato,  di  rifocillarsi e di riposarsi.

 

 

 

Magia, stregoneria e credenze popolari.

 

Nei vari paesi della valle, di generazione in generazione, si sono tramandate una serie di conoscenze, di opinioni e di pratiche che  abbracciano  molte delle  scienze  relative alla  sfera della natura, e del magico e dell’occulto. La  maggior parte delle nozioni  è  frutto di un’esperienza fatta e collaudata direttamente dal volgo; un'altra parte deriva dalle briciole di quelle scienze occulte che parecchi secoli  fa  erano  molto  in  auge.

Benché  la scienza occulta anticamente  fosse esclusivo predominio  di un’esigua  casta, ciò non toglie che qualcosa dovette trapelare e incidere profondamente sulle credenze del popolo.

Venendo  a parlare più in  particolare delle streghe e  delle loro  azioni, occorre risalire  addietro nel tempo  per avere  una visione di quanto tali credenze fossero estese non solo nel popolo ma  anche  tra i  dotti.  E se  delle leggi emanate  a  suo  tempo contro di esse non rimane traccia se non in  polverosi  documenti, ho avuto modo, interrogando vecchi isolesi, di constatare che, pur sorridendo  all'accenno  alle  streghe, qualche  antico  timore  è  ancora  presente. E tali persone, attraversando  località  note per essere state luogo di convegno di streghe o scursi  o barbetti, furtivamente si fanno ancor oggi il segno della croce.

Gli scursi, nati nella fantasia popolare, non  avevano  una personalità   definita, ma dai segni che, si dice, abbiano lasciato doveva  trattarsi  di esseri  giganteschi,  dotati di  una forza prodigiosa.   Si racconta che gli scursi si divertissero a giocare a pallone servendosi di enormi macigni, i quali, colpiti da possenti pugni, volavano da un monte all'altro. Di tali macigni se ne trovano un po' dovunque e con un pizzico di fantasia si possono scorgere le impronte dei pugni ricevuti da detti giganti. In una località vicino ad Isolabona, chiamata Permean c'è un macigno di tal genere, del peso di parecchi quintali, il quale avrebbe sorvolato la valle - 700 metri in linea d'aria - dopo essere stato colpito da uno scursu.

I barbetti hanno una origine più recente. Risalgono alla seconda metà del 1700 e servivano soprattutto come spauracchio per i bambini. Per essi esiste un riscontro storico; si trattava di una banda di Savoiardi scesi nel 1745 nelle valli della Liguria di ponente dove seminarono terrore e morte. Sul capo del loro comandante, certo Olivieri da Cuneo, famigerato per i suoi orrendi delitti, pendeva una taglia di mille doppie, messavi dall'infante di Spagna. Tutti barbetti e il loro capo furono catturati in una grotta dei Balzi Rossi presso Mortola.  (N.Peitavino, Intemelio, p.309).

Ad essi sono legate alcune vicende di cronaca isolese che André Cane ha riportato nel suo libro Au fil du Nervia. A pagina 99 riferisce di una esecuzione capitale, avvenuta nel 1795, in cui furono coinvolti i fratelli Giuseppe e G.B.Veziano, rei di aver fatto parte della banda dei barbetti e di essersi resi colpevoli di "omicidi fatti ai francesi" nella zona di Forcoino.

Il Cane racconta pure un fatto accaduto al suo trisavolo. Questi, causa la carestia allora imperante, si era recato a Saorgio per comprare un sacco d'orzo. Sulla strada del ritorno i doganieri l'avevano fermato e gli avevano confiscato la merce, lasciandolo poi libero di tornare a Isolabona. In un bosco di imbatté in un gruppo di barbetti ai quali narrò la sua disavventura. Questi lo invitarono a condurli dove stavano i doganieri e, sotto la minaccia delle armi, pretesero la riconsegna del sacco confiscato al proprietario. Il che avvenne.

La parte più pittoresca che colpiva la fantasia del popolo era indubbiamente il "gioco delle streghe", cioé la loro riunione in luoghi prestabiliti, durante la quale si rendeva omaggio al Signore delle Tenebre.

Luoghi di raduno furono Castellaro (vicino a Mentone) per le streghe di Camporosso; il Valun de la Papeira e la Rocca per quelle di Dolceacqua e Isolabona. E queste ultime avevano anche  un altro luogo di ritrovo assieme a quelle di Apricale, sotto un noce, cresciuto vicino al torrente Merdanzo. Ma la località  aveva poca importanza perché, preparando un intruglio composto di polvere di rospo, sangue  di  dragone, ossa  di morto, il  tutto rimescolato con  un bastone  di avellano, e  pronunciando la frase  "Gira, gira,  balu bastun  e fäme vurää dunde e autre e sun" (Gira, gira, bel bastone e fammi volare dove stanno le altre", le streghe potevano recarsi dove volevano.  

Nicolò   Peitavino,  nel  suo libro  Intemelio,  riferisce  di   alcuni processi tenutisi nel XVI e nel XVII secolo.

A  Baiardo,  nel  1588,  venne  sottoposta  a  tortura  certa  Marietta  Ausenda, rea di  aver partecipato al  "gioco". Nel  1622 fu  intentato un processo contro Peirineta Raibaudo incriminata d'aver fatto morire alcuni ragazzi mediante malefici,  di  essersi tramutata  in  una gatta  e di aver  avuto commercio col  diavolo. Costei,  sotto la  tortura,  ammise  di essersi  fatta togliere  i segni  della Cresima e del Battesimo da due stregoni di nome Miran e  Barroban. La Raibaudo, dopo  aver abiurato fu strangolata  e poi  bruciata.  A  discolpa della  disgraziata  Peirineta dobbiamo rilevare  la  testimonianza  di  un  rettore  della  valle,  certo Bernardino Balauco, che asserì essere la donna inferma  di  mente. In quei tempi, però, la pazzia era considerata un  derivato  delle  pratiche di stregoneria.

Che tale  processo  abbia avuto  una  eco  in  Isolabona  lo dimostra  il fatto  che, quando  scoppia un  temporale e  lampi  e tuoni si succedono in continuità  illuminando di lividi bagliori il cielo e facendo risuonare i boschi alle pendici del Toraggio, si è  soliti  dire ai bambini che è  il baraban adirato che si scatena. Ora  dal  Barroban  di cui  si  parla  negli atti  del processo al baraban deve per forza esistere una connessione.

E'  fuor di dubbio che  in mezzo alla gran  massa credulona e ignorante  si insinuarono furbi e ciurmadori per portare a termine i loro disegni. Le donne venivano così suggestionate dietro facili promesse e  condotte ai più  delittuosi eccessi. Forse è  per questo che si parla più  di  streghe e raramente di stregoni.

Tali credenze si sono, in tempi recenti, riassunte in quello che viene definito  malocchio, gettato addosso  a qualche   malcapitato  da  fautureire  o  bäzure"  (fattucchiere) attraverso  una carezza o  con lo sguardo  o l'offerta di  qualche oggetto. Per toglierlo esistevano pratiche che variano tra paese e paese.  Ad Isolabona, ad  esempio, se si  riteneva che a  un bimbo fosse stato gettato il malocchio si procedeva nel  seguente  modo: si   faceva  bollire l'arba   da  Madona (Plantago maior o piantiggine)  in molta acqua e  in essa si immergeva il bambino. Se l'acqua si rapprendeva come latte cagliato era  segno che il  bimbo aveva il  malocchio  e  di  conseguenza,  per  toglierlo,   lo  si  doveva immergere  tre volte  consecutive. Se durante l'operazione  accadeva che  qualche  donna  venisse  a  bussare  all'uscio,  quella era la iettatrice.

Più  a lungo sono durate le 'superstizioni spicciole', sebbene la  loro presenza sia oggi molto sbiadita nella mente della gente.

Ecco le poche tracce riscontrate in colloqui con anziani.  

- Se  durante  una  processione  una  croce   viene   casualmente appoggiata al muro di una casa,   durante l'anno avverrà in  quella  casa una morte.

- Uscendo di  chiesa non occorre intingere la mano nell'acquasantiera  e  farsi  il  segno  della          croce,  perchè   si riprenderebbero  i peccati che,  entrando, erano stati  cancellati                    dall'acqua lustrale. 

- Ogni madre deve evitare di lasciare i pannolini del bambino stesi durante la notte perché                    qualcuno potrebbe attraverso essi gettare il malocchio.

- E' vietato seminar prezzemolo se non si vuole morire entro l'anno o far morire il più anziano      della famiglia. Il prezzemolo non si pianta, si trapianta.

- Se un pettine scappa di mano devono arrivar notizie. Così  pure se il fuoco soffia nel camino.

- E' segno  infausto se u ganavelu, la civetta, si posa su una casa.

- E' fatto  divieto alle  donne in  stato di  gravidanza  portare amuleti  o  collane  o  bracciali  a      forma  di  serpente,  perchè  potrebbero strozzare il feto.

- Versare olio,  rompere specchi,  spargere sale  è   presagio  di grandi calamità .

- Mai gettare capelli e unghie dalla finestra.  Potrebbero  essere usati per sortilegi o malocchio.

- Vietato indicare col dito  le cucubirtacee attaccate  alla  pianta perchè si anegiano (se ne interrompe la crescita e appassiscono).

 ... e l'elenco potrebbe  continuare

 

 

 

 

Medicina popolare antica

 

La  farmacopea moderna ha, lentamente,  finito per "uccidere" tutti quei mezzi empirici di cui la popolazione si è avvalsa  per far  fronte ai mali del corpo. Poco è  rimasto se non quelle cure a base di erbe che, pur non essendo troppo ortodosse, possono  venir accettate in base ai dettami della Scuola salernitana.  A  sparire totalmente sono stati quei metodi tanto strani assurdi e spesso contrari ad ogni norma igienica che ci si chiede se non sia stata una mente malata a idearli.

Si è, comunque, tramandato il ricordo di alcune cure che, per amor di cronaca, è  interessante ricordare.

Di  due di esse, come osserva L.T. Belgrano, negli Atti della  Società Ligure di Storia Patria (vol. XIX, p.645),  si  trova traccia  persino  in  un codice  genovese  di  medicina e  scienze occulte.  Si tratta  del modo  di resistere  al dolore. Il  primo recita:  "Accipe lac mulieris,  videlicet matris et  filiae dictae matris, et isti duo lactes simul miscantur deinde dentur  in  potu antequam  accedat ad turmentum: et non timebit".  Una ben strana medicina da somministrare a  coloro che stavano per essere torturati!

Il  secondo serviva nelle  prove ordeali. G.Rossi riferisce che  anche in  Val Nervia  un accusato  poteva dimostrare  la  sua innocenza  in un modo semplice:  afferrando con una mano  un ferro rovente.  Se  il ferro  non lasciava traccia  era libero; in  caso contrario  doveva subire la pena. Ebbene, per superare tale prova, si  legge  nel  manoscritto genovese,  "accipe  sucum  mircoyrolle [specie di euphorbia] et unge cum eo manus tuas optime  et  accipe  ferrum in manum et non nocebit".

Dagli  atti del notaio De Amandolesio, citati da N. Peitavino nel suo libro Intemelio (p.140) ricaviamo  due  altri  sistemi curativi  che servivano l'uno ad  attutire i dolori del  parto e a preservare la puerpera dalla morte; l'altro ad arrestare un flusso di sangue.

                Per  il primo si doveva  scrivere sopra un pezzo  di carte il noto quadrato magico

 

S A T O R

A R E P O

T E N E T

O P E R A

R O T A S

 

Bastava   legare    il   foglio  alla   coscia  destra  della  partoriente e l'effetto era sicuro.

Per il secondo rimedio occorreva una gallina che non facesse uova e dalle ali si faceva uscir sangue con cui scrivere sul polso e  sul  capo  dell'ammalato,  mediante  una  fraschetta  di  ulivo benedetto, le seguenti parole "Consumatum est".

Il suddetto sistema con la gallina, un  po' variato, serviva anche come rimedio contro le cadute. Si prendeva un gallo, gli si tagliava un pezzettino di cresta, si raccoglieva in un  cucchiaio il  sangue  zampillato  che,  ancora  caldo,  si  somministrava al paziente. L'operazione si ripeteva per diversi giorni.  Quando  il gallo non aveva più cresta, l'ammalato era guarito,

Altro  metodo in uso a  Isolabona era quello di  porre sopra una ferita aperta una ragnatela per fermare il sangue. Ho visto una vecchia metterlo in atto per un taglio alla mano. Un paio di giorni appresso la ferita si era cicatrizzata.

Altri sistemi.

-  Contro i vermi  si faceva odorare  ai bambini un  tipo speciale di  erba rua (Ruta graveolens)  dell'aglio  pesto; oppure  si metteva  loro al  collo una  collana fatta  con  spicchi d'aglio; o  ancora  si  faceva loro  bere  un  cucchiaio di  succo  di erba caramandrina

- Contro gli orecchioni esisteva un curioso sistema.  Si  prendeva un grosso sacco sporco internamente di farina, vi  si  introduceva la  testa del bimbo e  si agitava il sacco;  a cura terminata,  il sacco veniva buttato giù dalle scale.

-  Per   guarire u  mää du grupu" (difterite) si faceva bere al paziente un disgustoso intruglio composto di urina, limone spremuto, vino bianco moscatello e olio.

-  Per il mal di denti bastava applicare sulla guancia  dolorante un impasto di lumache o meglio ancora di durmigluse , piccoli insetti fasciati da un tegumento chitinoso i quali, appena toccati si appallottolano come ricci).

-  Oppure si pestava aglio e lo si applicava sul polso opposto alla guancia dolorante. Il mal di  denti dopo alcune ore  passava.  Il contadino  che  mi spiegò  il sistema mi  fece pure vedere  il suo polso  su  cui,  a distanza  di  anni,  si notava  ancora la pelle   bruciata dai solfuri contenuti nel succo dell'aglio.

-  Per  guarire  le risipole si poneva su di esse una moneta e poi con  un coltello o un  anello benedetto si facevano  piccoli segni   segni attorno alla moneta, recitando contemporaneamente il  "Confiteor".

- Per accelerare un processo infiammatorio occorreva  porre  sulla parte malata dello sterco di vacca.

-  Le ecchimosi guariscono se  su di esse si  applica un impiastro composto di sängure spargure (Parietaria officinalis), föglie de levantùn" (Verbascum thapsus) e aceto.

-  Per accelerare lo  sviluppo della rosolìa  il fanciullo  veniva avvolto in un drappo rosso.

-  Per guarire u russignö (crampo alla mano) era d'uopo legare al polso un filo di lana rossa.

-  Per mali interni  era consigliato di  inghiottire lumache  vive   (bagiäire).

Per  quanto esistessero altri sistemi empirici, mi limiterò a citare   ancora quelli riportati da  Dino Taggiasco nel suo  libro Bordighera e uno raccolto dalla viva voce del guaritore che, ancora cinquant'anni fa lo metteva in atto.

Racconta il Taggiasco che i colpi di sole "si guarivano da comari specializzate alle quali occorreva comunicare preventivamente il nome del sofferente. La comare faceva bollire mezzo pignatino d'acqua e vi metteva dentro tre grani di sale da cucina, accompagnando ognuno con tre Ave Maria e  diversi  Oremus; poi  capovolgeva  il  pignattino in  un  piatto.  Dopo 36  ore  lo toglieva con la mano sinistra. L'aria esterna, occupando il vuoto, emetteva naturalmente un piccolo sparo, il cosiddetto "petu". Dalla forza del "petu" la comare giudicava se la persona - indubbiamente guarita - poteva avere o meno conseguenze gravi".

Altro  sistema consisteva nel porre sulla testa dell'ammalato un asciugamani bianco, piegato più volte, e su questo veniva posto rovesciato  un  bicchiere  pieno  a  metà   d'acqua.  Nell'acqua si formavano bollicine  che salivano  in  superficie, tanto  da dare l'idea  che  il liquido  bollisse. Dopo una  diecina di minuti  il   colpo di sole spariva.

Sempre  al  Taggiasco dobbiamo il ricordo di questa cura  per  bambini effettuata  da una donna  di Ospedaletti. "La  Cumà  faceva  alcuni segni  di croce sulle mammelle della madre e sul capo del piccino. Poi  appendeva al collo di questo un sacchetto con tre, sei oppure nove grani di sale da cucina, a seconda della gravità  del male, ed ordinava   un  'caffè '  fatto  con  ossi  di  pesco  abbrustoliti, qualunque  fosse la  malattia, anche  se il  piccino avesse  avuto   putacaso un'unghia incarnata od un foruncolo su un piede."

L'ultimo  sistema empirico  per curare malattie comuni era la "misurazione dello stomaco", cui ho personalmente assistito. Nella  valle vi era una sola persona capace di effettuarlo, un certo signor Battista C. di Isolabona.

Quando  uno accusava sovente mal di stomaco veniva curato nel seguente modo: lo pseudo medico prendeva uno spago lungo tre volte la  distanza  che andava  dal suo gomito  alla punta del  suo dito medio.  Detto  spago  lo si  consegnava  al  paziente affinché   lo tenesse  premuto  sul petto.  Poi con esso eseguiva per tre volte la  stessa misurazione  sul paziente. Se le  tre misurazioni erano esatte  il male  era di poco conto e di sollecita guarigione.  Se, invece, lo spago non bastava o ne avanzava, significava che lo stomaco si era abbassato  o  rialzato  della  stessa  lunghezza  dello  spago che mancava o che cresceva.  In tal caso bisognava replicare  per  tre giorni  le misurazioni affinché lo stomaco andasse alla giusta altezza.

 

 

 

La cucina isolese

 

La cucina isolese non si discosta molto da quella ligure, tranne alcune particolarità degne di essere menzionate.

Una ghiottoneria negli antipasti è rappresentata dai ciücotti, piccoli funghi che vengono conservati in salamoia sott'olio.

Tra  i primi piatti che le massaie facevano nei bei tempi antichi v'erano  i menieti  formati con  farina bagnata, fregata tra  le mani e lasciata cadere in acqua bollente. Si otteneva  una  specie di  pappa molle, a grumi,  assai nutriente. Una variante  erano i menieti dusi, che si ottenevano usando farina di castagne.

Assai   graditi   erano un tempo  i  beroudi (sanguinacci) fatti con sangue di porco, latte, pinoli,  il  tutto insaccato  in budella e ventricoli. Si consumavano in brodo oppure tagliati a fette  fritti. Oggi maiali non se ne allevano più in tutta la valle.

Nel  periodo pasquale  erano di  moda i  massetti, cioè   le interiora  degli agnellini o capretti  da latte le quali  venivano attorcigliate  a  mo' di  gomitolo su una  mano, legate e  messe a cuocere in salsa bianca.

Di largo consumo fu  pure u fugassun una  specie di torta simile  alla torta pasqualina genovese, fatta però di sole erbe e cotta nel  forno  comune in  grosse teglie di rame, annerite dall’uso, del diametro di  80 cm. circa.  Su  queste  si stendeva  una  sottile  sfoglia  di  pasta, lavorata  sciü u tagliauu (sul tagliere  rotondo), e  su di  essa si  versava un  impasto di  erbe, in  prevalenza bietole  bollite, strizzate,  tritate e condite con olio e sale. Il tutto veniva poi ricoperto  da  un'altra sfoglia  di  pasta dello  stesso  diametro della prima. Era facoltativo mettere sulla sfoglia superiore olive o spicchi d'aglio.  Quando  u fugassun veniva cotto nel forno comune la massaia era solita contrassegnarlo con un simbolo e un tempo vigeva l'uso di non pagare il fornaio ma di ricompensarlo con un fugassun in formato ridotto detto u pagun che si lasciava al fornaio. I fugassui in formato ridotto potevano anche essere cotti nella padella e si otteneva così u fugassun  en ta paala.

Una variante erano i barbagiuäi, grossi ravioloni ripieni d'erbe, lasciati attaccati a due a due e fritti.

Tra i dolci le cubäite sono quelle che maggiormente hanno resistito nel tempo. In qualche famiglia ancora oggi vengono fatte nel periodo natalizio. Sono praticamente un vanto della cucina isolese.

Le cubäite sono  formate da  un sandwich  composto di  due ostie  rotonde del diametro  di quindici centimetri,  sovrapposte. Tra  di esse viene messo  un composto formato con  nocciole e noci grossolanamente tritate, cotte in molto miele. Le  cubäite vengono  distese su un tavolo,  coperte dal tagliauu, un  grosso  tagliere rotondo, e lasciate finchè  il miele non si è  rassodato.

Le  ostie venivano fatte  artigianalmente mediante un  grosso forbicione che al posto delle lame aveva due dischi di  ferro  del diametro  di  quindici  centimetri,  sui  quali  era  impresso un marchio o le iniziali del capo famiglia.  Per fare  le ostie bastava  mettere i due piatti a contatto col fuoco, scaldarli sino ad una  determinata temperatura  e versare sopra uno di essi un cucchiaino di pastella di  farina assai diluita.  Bastava chiudere le  forbici perchè la pasta si spandesse e l'ostia prendesse forma.

 

 

 

Feste profane

 

La  prima era il Carnevale che non presentava usi particolari tranne la tradizione dello scürottu, (vedi la III parte "Aria di ponente").

In  disuso sono pure cadute le tradizioni riguardanti il mese di maggio (le maggiolate). Il secondo conflitto  mondiale  le  ha  "totalmente uccise",  forse perché  la  tragedia bellica cancellò   quel  motivo psicologico  e quel senso di  stupore e di ammirazione  che l'uomo riceveva di fronte all'erompere della vita nella natura.

Ancora viva nella memoria dei vecchi è,  comunque,  la cerimonia del "piantar maggio", allorché  i giovani trascinavano da uno  dei boschi circostanti un pino privato dei rami, ma non della punta, e lo piantavano in mezzo alla piazza. Non aveva nulla a che vedere  con  l'albero  della  cuccagna,  sebbene  negli  anni  che precedettero  la sua scomparsa si  tendesse a mettere in  cima dei premi in natura e anche in denaro.

Sempre  di  maggio, nei vicoli le donne e  le ragazze attaccavano  cordicelle da  un muro  all'altro delle  case su  cui appendevano  corone fiorite che  venivano rinnovate ogni sera con fiori freschi colti nei campi.

Poesia d'altri tempi.

 

 

 

Festività  religiose

 

Lo spirito religioso ancora oggi presente nelle manifestazioni legate a particolari culti si è, invece, andato lentamente affievolendo in quelle manifestazioni esteriori che un tempo facevano da corollario al primo.  Ad  ogni  festa  era collegato qualche spettacolo che variava da paese a paese,  e  che a  lungo  andare  si focalizzò in  uno  solo e  fu  tramandato di generazione in generazione senza che nulla fosse mutato.

Dopo  l'ultimo conflitto alcune di queste funzioni sono state abbandonate;  altre hanno vissuto saltuariamente per poi cedere al progresso che tende a livellare ogni cosa.

Iniziando  dalla festa per  eccellenza, il Natale,  ancora in vita  è  l'uso di fare  il presepe, di addobbare  l'albero (oggi in plastica, un tempo prelevato, dopo ore di cammino, nei  boschi  di Langan o au Passu du rebissu (Passo dell'usignuolo) non  con  le moderne  palle colorate  e fili  argentati o  puntali  dorati,  ma con caramelle, cioccolatini, mandarini, aranci, noci, ...

La  vigilia  era  contrassegnata  da  una  cena  a  base   di stoccafisso   bollito   con   patate  e   frittelle  di baccalà. Altri invece,  scrive  Stefano  Rebaudi   in Monografia  di Imperia, consumavano u grän de Natäle e così spiegava: "Il Dio di amore, di misericordia, il quale nasce per redimere l'umanità, non può   essere più degnamente  glorificato dal lavoratore  dei campi, che  con  l'offerta ed  il sacrificio del  grano, il prodotto  più nobile  ed  eletto  della terra,  l'alma  mater,  madre amorosa  e soavissima." 

"Ed ecco quali sono le modalità, che informano il rito natalizio del  grano... Il 'grano  di Natale' per  essere reso  commestibile dev'esser liberato dalla crusca o cruschello; occorre  perciò   sia sottoposto  ad  una  operazione  di  pilatura,  di  brillatura, di    imbianchimento...  che viene condotta durante  il pomeriggio della  vigilia."

Per  l'operazione occorreva:  "un  mortaio ed un  pestello di  grandi dimensioni, costruiti grossolanamente in paese, utilizzando legno durissimo di sorgo o di castagno: i strumenti che si trasmettono in eredità di padre in figlio.  Il mortaio (denominato 'broeglia') di rozze fattezze, scavato in un tronco d'albero, presenta suppergiù le seguenti dimensioni: altezza 38 centm.; massima larghezza in alto 36 centm.; profondità  del  cavo interno  22 centm.; spessore delle  pareti 4 centm.. Il  pestello, denominato  in dialetto "pistun" che  misura in altezza centm.  20 circa ed è  munito di un manico pure in legno della lunghezza di 60 centm.   circa,  può   avere due  forme.  Nella  forma più  comune, costituita  da  due pezzi,  il manico si  innesta ad angolo  retto entro  l'impugnatura  del  pestello; nella  forma  meno frequente, pestello  e  manico  sono costruiti  in  un  unico  ramo  d'albero opportunamente scelto per la bisogna."

"Nel  pomeriggio della vigilia,  per solito, uno  degli uomini  di casa,  si siede sui gradini o sulla soglia dell'abitazione e quivi disposto  il mortaio  che riempie  di grano  grezzo, col  pestello impugnato  per  il  manico a  due  mani,  inizia  l'operazione  di pilatura, che a colpi cadenzati vien condotta sino a che i chicchi siano  lucidi,  bianchi,  splendenti  ossia  siano  spogli   della cuticola. Il grano viene frequentemente spruzzato con acqua calda, e  per liberarlo man mano della crusca che si stacca e seguirne il grado  di imbianchimento, l'operatore ne solleva dal mortaio delle manciate  su  cui  soffia con  forza.  Il  mortaio  sarà  riempito parecchie  volte,  sino  a  che  si  raggiunga   il   quantitativo necessario ai bisogni della famiglia. Il grano sopporta una bollitura piuttosto prolungata in abbondante acqua cui si è   aggiunto  sale, della  cotica di maiale e qualche pezzo di carne magra di agnello. Al ritorno dalla messa di mezzanotte, riscontrato il  grado  della cottura del grano (deve essere molto rigonfio ma  non  spappolato) si  toglie  da fuoco  e, dopo aver  posto in serbo  la quantità da consumarsi nei giorni successivi, si passa alla  confezione  della vivanda.  Viene scodellato  in un  gran piatto  profondo di  terra gialla a fiorami, ove si condisce con un soffritto all'olio a base di  porro:  ortaggio  che  si  coltiva  quasi  esclusivamente  per aromatizzare il grano di Natale, cui dona un profumo e  un  sapore appetitosissimi.  Il gran piatto è  deposto nel centro della tavola e da questo tutti i commensali pescano col rispettivo cucchiaio il  grano benedetto del Santo Natale." (p. 255)

Purtroppo la tradizione è completamente scomparsa. Oltre all'accurata descrizione del Rebaudi, ho raccolto una sola testimonianza in paese da una donna ultranovantenne.

Sempre nella notte di Natale viene acceso un grande  falò   in mezzo  alla piazza, dove nei giorni precedenti i ragazzi, passando di porta in porta, chiedendo "Pe u fögu du Bambin däine di ciüchi e  di  bigliui" (Per  il falò  di  Natale dateci ceppi  e tronchi), hanno ammucchiato una grossa catasta. Il fuoco veniva appiccato al momento del Gloria e durava tutta la notte.

Un  tempo alla messa di  mezzanotte partecipavano pure i pastori avvolti in ampi  mantelli, con fasce  alle gambe,  grossi  scarponi e un cappello a punta coperto di fronzoli. Il più anziano   portava tra le braccia un agnellino, l'ultimo nato.

La  tradizione di Capodanno consisteva nel giro del paese che la banda musicale faceva, soffermandosi in ogni vicolo, suonando e ricevendo vino e cibarie che venivano consumate quella  sera stessa in una grande "ribotta", specie di cenone  organizzato  dai  suonatori.

Recita  un proverbio  isolese: "A  Pifania tütte  e faste   a porta via, Carlevää u e turna a menää" (l'Epifania porta  via  con   sé  tutte le feste. Carnevale le riporta).

Tra queste c'è  la Pasqua.

Per quanto riguarda la Processione del Giovedì Santo si rimanda alla Parte IV "Aria di ponente"

Di  caratteristico nei giorni  che precedono la  Domenica  di Pasqua accadeva che, non  essendo permesso dalla  liturgia  l'uso delle  campane, non si  potessero avvertire i  fedeli dell'inizio delle funzioni religiose. Entravano allora in funzione le tarabale il cui suono richiamava la gente in chiesa.

La tarabala era costituita da una tavoletta di legno (30x40 cm), munita di maniglia, sulla quale venivano attaccati, da entrambe le parti, due ferri disposti a batacchio. Quando erano agitate, producevano un suono ritmico. Le usavano solo i ragazzi.

Ogni   bambino  a  Pasqua  aveva  il  suo  uovo,  non di cioccolato: si trattava  di un vero uovo sodo, col guscio colorato in  marron, rosso, verde,  dopo averlo fatto  bollire in fondi  di caffè,  in acqua di  barbabietola o in  radici di ortica. Se si voleva essere più originali e disegnare l'impronta di un fiore sul guscio, si avvolgevano in carta oleata le uova cui preventivamente erano stati legati fiori particolari, le beciciure de gatu (Muscari comosum) che hanno la forma  di gladioli in miniatura  e sono di colore violaceo.  Durante la bollitura lasciavano sul guscio forma e colore.

Con  dette uova si faceva il gioco dello scussetu. Due bambini picchiavano  le  loro  uova  l'una  contro  l'altra,  vinceva chi rompeva  l'uovo dell'avversario. E' questo un uso,  spiega A.  De Gubernatis, in vigore presso i latini, i Germanici e gli Slavi ed era considerato di  lieto presagio  e  augurio.

Altre  feste tradizionali erano San Giovanni (24 giugno) e S. Luigi (21 giugno)

La  prima cade al principio dell'estate e veniva solennizzata da grandi falò accesi dalla popolazione. La differenza nei falò rispetto a quello di Natale consisteva nel fatto che il falò di Natale era unico mentre quelli di di S. Giovanni ardevano ovunque, e inoltre a S.Giovanni non si bruciavano grossi ceppi o tronchi ma erba, fieno, paglia, rami d'ulivo, viticci.

Nell'uso di falò nella notte di Natale e in quella di S. Giovanni lo  studioso Pola Falletti  ha  voluto vedere  una reminiscenza di antichi riti  pagani, in uso  presso gli  antichi Celti.  A suo parere i fuochi non erano accesi per solennizzare una  festività  religiosa  e non  a  caso   essi avevano  luogo al solstizio  d'inverno e  al solstizio  d'estate. Se  si pensa  alla conoscenza  che del cielo avevano gli antichi, si potrà dedurre come debba essere loro apparso un fenomeno  inconsueto e  forse magico,  il  fatto di  vedere il sole  nel primo punto del Cancro cessar  di alzarsi sopra l'equatore  e sembrar quasi fermarsi  per   poi  incominciare a  calare; e  verso il  22 dicembre,  nuovamente vederlo nel primo punto del Capricorno cessare di  scendere  sotto l'equatore, fermarsi quasi, per poi riavvicinarsi ad  esso.  Dalla paura  che la stranezza di  questo fenomeno dovette produrre negli antichi  all'accensione di falò   propiziatori, il passo  è   breve.

Solo  in un secondo  tempo, con l'avvento  del Cristianesimo,   si ebbe  l'accostamento dei fuochi col  Natale e con la  festa di San Giovanni.

Mentre  i falò  bruciavano  i giovani saltavano  attraverso le fiamme  in segno propiziatorio.  Se il salto veniva fatto da una coppia di fidanzati, questi si sposavano entro l'anno.

Strana curiosità. Il giorno dopo si potevano vedere delle donne chine sulla cenere dei falò. Cercavano in mezzo ad essa "i  cavegli de Sän Giuäni" (I capelli di San Giovanni).  Sembra, infatti, che nei  residui dei falò fossero presenti dei capelli bianchi i quali avevano il potere di guarire le malattie e di portar fortuna a chi li trovava.

Oltre  alla tradizione  del fuoco  esisteva pure  a Isola  la tradizione  dell'acqua. Durante la  notte di San  Giovanni, mentre dappertutto ardevano falò, gruppi di  giovani, per lo più ragazzi  muniti di secchi e di schite (specie di siringhe di legno che servivano per spruzzar acqua - in tempi più vicini  a noi si  usarono pure pompe da  bicicletta) si divertivano a  bagnare passanti.

L'unione delle due tradizioni - acqua e fuoco -  proprio  sul principio dell'estate, stava a simboleggiare nella mente del popolo la  fertilità  e  la fecondità  della  terra  e della  natura data   appunto da questi due elementi.

Anche nella festività di San Luigi si  solevano accendere piccoli falò, ma la caratteristica della festa era data dagli scoppi di  mortaretti, i cosiddetti mäsculi e delle  "bombette di  San Luigi". I primi, che, durante i Vespri, al  momento del Magnificat, erano fatti scoppiare lontano dalla gente, a causa della  loro pericolosità, consistevano  in tubi di  metallo  della lunghezza di 15/20 centimetri e del diametro di 8 cm.,  chiusi  ad una  estremità. Lungo il tubo, a poca distanza dalla parte chiusa, v'era  il focone  in cui  veniva inserita  una  miccia.  L'interno veniva riempito per metà con polvere da sparo e l'altra  metà  era otturata  da stracci e  da terra impastata  e pressata. Accesa  la   miccia il risultato era prevedibile.

Le  "bombette  di  San Luigi",  chiamate anche scurifemera, erano  dei mäsculi in miniatura.  Al posto del tubo  di ferro ve n'era uno di cartone, ricavato da una cartuccia da fucile usata, a cui era stato tolto il cilindretto metallico contenente l'innesco. Prima di chiuderlo, da ambo le parti, il cilindretto veniva riempito di  polvere nera. A  metà cilindro veniva  praticato un  minuscolo foro  per introdurvi un  pezzo di miccia  a lenta combustione.  Il tutto era legato con spago. Una volta acceso,  veniva  lanciato tra le gambe dei passanti e dei fedeli che uscivano  dalla  chiesa   dopo le funzioni religiose.

A  tutte le feste  partecipavano i  rappresentanti   della Confraternita  religiosa che aveva  la sua sede  nell'Oratorio  di Santa  Croce, adiacente alla  chiesa parrocchiale di  Santa  Maria Maddalena e i priori e le prioresse nominati dal  parroco durante la messa del  primo giorno dell'anno.

Tali  istituzioni  hanno  una origine  assai  remota.    Nilo Calvini  scrive "E' difficile  stabilire l'epoca cui  risalgono  i movimenti   religiosi  che  hanno   dato  origine  alle numerose Confraternite esistenti nei nostri paesi. Due furono i principali: uno proveniente da Perugia nel 1260 che si estese rapidamente di città in città, specialmente verso nord, arrivando anche a Genova; l'altro, che risale al 1399, partito dalla Provenza, si diffuse anche nella Liguria occidentale. E' probabile che a questa seconda ondata  di  entusiasmo  religioso si  debba  la  ferma volontà  di fondare in ogni nostro paese le Confraternite".

Nelle Confraternite confluivano i facoltosi del paese i quali dovevano  fornire  un  contributo in vino,  olio,  grano, avena, castagne  che serviva per allestire  i banchetti per i  poveri che avevano luogo durante la festa di Pentecoste e ai primi di Agosto.

Vestigia di tali usi ormai perduti si potevano riscontrare ancora qualche tempo fa  quando  minestre  di  legumi  venivano pubblicamente  cotte per le  strade e consumate  dai poveri:  tali minestre erano chiamate grijöi.

Nel  dopoguerra  è  pure lentamente  scomparsa  una gerarchia presente in seno alla chiesa che vedeva la presenza di Priori (che duravano in carica un anno);  Sottopriori (che sarebbero diventati Priori l'anno successivo); Massari; Prioresse; Sottoprioresse.  La carica  di  Priore era  assai  ambita nella  comunità,  nonostante comportasse  oneri e  spese.

Il manoscritto Cane è a tal proposito assai eloquente. Riporta in più pagine le attività  di  un priore  e  le  sue  mansioni.  L'autore  ricoprì  più  volte  tale carica e in alcune pagine trascrive con precisione le spese da lui sostenute per conto della comunità.

 

1796. Sono stato nominato Priore della Compagnia del Santissimo Rosario. Entrata di quest'anno

Per offerte e collette in tutto lanno sono                                          £.         24.8

per canapo venduto                                                                                        6.2

per ovi venduti                                                                                                2.4

ricevuto dal mio antecessore Gianbatista Cane

       fù Giuseppe                                                                                            33.0

 Per oglio venduto in questo anno cioè Rubi 8

                e libre dieci a lire dieci sordi doceci

                cadun rubo                                                                                     88.16

ricevuto da debitori della Compagnia                                                           15.0

                                                                                                                    ---------

                                                                                                                      169.10

 

1796. Spesa fata per deta Compagnia

Per aver fato sbatere e racolte le olivi

                e spesa alli deficiei in tuto sono                                                     6.12

Per aver fato lavorar in Giroso una giornata

                bovi e quatro homini in tutto sono                                                8.10

Per candele comprate libre sedici a sordi

                cinquanta quatro caduna libra vale                                            43.4

per porve libre cinque vale                                                                            7.0

per ellemosina al Signor Prevosto Cassin

                per li aniversari                                                                             6.0

per tella comprata per da far una tovaglia

                parmi sedici                                                                                   9.12

per pizzetti                                                                                                     5.0

 

1797. Per parmi quindeci damasco rosso da far

                un contra artare a lire tre e sordi

                dodeci cadun parmo vale                                                             54.0

per pizeto in argento parmi trentasei                                                          12.0

per froda cioè tella parmi quatordeci                                                           3.10

par manifatura al sartor Gio Antonio Cavassa                                            3.10

per telaro legname e fatura                                                                           2.10

rimesso al mio successore Gerolamo Boer                                                 15.0

                                                                                                                   ---------

                                                                                                                    165.8

 

In altri rendiconti sono pure presenti spese per funerali, per acquisto candele, per acquisto libri, per pagamento di prestazioni varie, per riparazioni di infissi o arredi sacri oppure vengono elencate entrate per vendita di olio, di orzo, di grano di fichi o di altro.

Da ciò si deduce che i Priori dovevano assistere ad ogni cerimonia religiosa, riscuotere le elemosine, dispensare il cibo ai poveri che lo richiedevano, radunare dopo i Vespri tutta la gerarchia compreso il parroco, il sindaco e le altre autorità per offrir loro loro cibi e bevande come in un'agape fraterna.

Le Prioresse avevano gli stessi doveri dei Priori e durante le cerimonie religiose indossavano un vestito blù e un lungo velo   bianco.

Durante  le  processioni,  che si  facevano indifferentemente alla luce del sole o in  ore notturne, il paese presentava aspetti spettacolari  e pittoreschi dovuti alla conformazione delle strade e ai fondali del paesaggio. La processione era sempre formata da due lunghe  file  parallele  di  gente  che  avanzava,  separata l'una dall'altra di uno, due metri. In testa vi erano le figlie di Maria biancovestite,   recanti   il   loro   stendardo   ricamato;   poi la Confraternita preceduta da uomini che portavano croci di legno, il   prete  e,  infine,  la popolazione, sempre su due file    distanziate.

Durante la processione del Corpus Domini ogni casa  che  dava sulla strada percorsa dalla processione, aveva i  muri  e le  finestre  tappezzate di  lenzuola  bianche o  drappi colorati, mentre  il  terreno veniva  ricoperto da una  coltre di fiori,  in particolar modo di fiori di ginestra, che i partecipanti gettavano a terra.

Più  suggestive erano le processioni  notturne, effettuate in occasione  di particolari festività.  Durante il loro  svolgimento ogni  vicolo veniva illuminato da centinaia di luci prodotte da lumi  ad olio,  lanterne e  gusci di  lumaca riempiti  di olio  e muniti di uno stoppino.

Poiché le due file dei fedeli tendevano talvolta a restringersi  e a confondersi,  alcuni chierichetti, aventi  sulle spalle un sanrocchino blu ricamato con fili d'argento,  muniti  di una  bicocca, avevano il compito di mantenere l'allineamento. La bicocca" era  un  bastone lungo  due  metri circa col quale si spingevano, con  delicatezza,  i fedeli  immersi nella preghiera invitandoli a riallinearsi.

 

 

 

 

 

Folklore letterario 

  

Il patrimonio letterario isolese raccolto nel territorio attraverso i ricordi dei più anziani è piuttosto esiguo. Tutto si è perduto nella notte dei tempi  e qualsiasi indagine ha dato risultati negativi perché si è trovata di fronte all’oblio in cui sono cadute vecchie fiabe, vecchie leggende e vecchie storie. Il materiale recuperato consiste in una favola, in proverbi, in modi di dire e frasi tipiche, in qualche ninna-nanna e filastrocca di bimbi , in qualche poesia e canto popolare.

La favola U luvu e a vurpe mi è stata raccontata da una vecchietta. I personaggi derivano dall’ambiente esopiano e di esso mantengono le caratteristiche e l’elemento morale. La favoletta non è altro che la spiegazione di un modo di dire  locale “Are,äre pe  u cian che u maroutu u porta u sän” e cioè il trionfo dell’astuzia sulla dabbenaggine.

 

 

FAVOLA

U luvu e a vurpe

Una vouta u gh’eira a l’ Isura üna vurpe ch’a l’avia recevüu ün tortu da ün luvu de Vrigää; e scicume a ghe brüjia un poucu, a l’ä sercau ün modu pe färghelä pagää.

Un balu  di a l’a andää a truvää u luvu e a g’ä ditu:

- Cumpää,  a äi descrüviu ün fundu de fräti lundu g’a de ögni ban de Diu e se ti n’äi cuvea staseia a s’andemu a ence a bustüfäirä.

U luvu, che da chela aureglia u ghe sentia, u l’ä acetau.

Cändu u s’a fäitu buru, i se sun atruväi tüti dui denai u cunvantu di fräti e da ün sgärbu i sun enträi en t’ün fundu. U luvu u l’a arestau meju babulu cändu u l’ä visto luche gheira. En t’ün cantun üna pila de tumete cun de giäre de brusu, ent’ün autru da sausisa e di salämi, di bighi de stucafissi e arenghi; u gh’eira pöi dui boreghi de mèè ch’i averia resüscitau i morti, e tänte autre couse.

U luvu, sansa pensärghe due voute, u l’ä cumensau a mangiää mentre a vurpe a mangìa poucu e ögni tänto a se n’andeija föra pasandu dau sgärbu, pöi a turnia a vegnii.

Cändu a vurpe a s’a acorta che u luvu u l’eira cen cume un porcu e rundu cume üna bute e che u nu seria ciü pasau dau sgärbu, fasandu mena de ran a l’ä fau arebatää di stüci chi än fau un fracässu de la Madona. I fräti alauu i sun ariväi cun di bastui e i än cumensau a menää bote da orbi.

A vurpe che a l’eira ciü stranscia a l’a sübitu scapä dau sgärbu, mä u luvu c’u nu puria ciü pasää tänto u l’eira ensciu u te n’ä pigliau üna rusta ch’a l’ä lasciau megiu strusciau e mortu.

Cändu u l’a revegnüu u l’ä vistu veijin a elu a vurpe ch’a faijia mena de asse ancuu svegnüa. Apena a s’a arevegliä a l’ä cumensau a laumentärse pe e bote ch’a l’avia pigliau e a dii ch’a nu puria ciü caminää. U luvu alauu u se l’ä caregä sciü e späle e u l’ä cumensau a andää.  E mentre u caminia a vurpe de sciü e späle a cantia:

- Are, äre pe u ciän che u maroutu u porta u sän,

- Luche ti di?

- A digu che a äi una see ch’a nu ne pösciu ciü e se ti me däi a mentu andemu a beve en t’ün pusu che mi a saciu.

U luvu ch’u l’avia ascì see u l’a ditu de scì. I sun cuscì ariväi dau pusu che però u l’avia pouca äigä. A vurpe alauu a l’ä ditu:

- Pe beve a faremu cuscì: prima a läpu mi e tu ti me tegni pe a cua. Pöi ti läpi tu e a te tegnu mi. - E cuscì i än fau.

Ma cändu u la stau a vouta du luvu, a vurpe, ch’a u tegnia pe a cua a l’ä ditu:

- Cumpää, ti me l’äi fä üna vouta mä auu läpä che mi da cua a te läsciu.

E cuscì a l’ä fau lasciandu anegää u poveru luvu entu pusu.

Murale: Chi a fä, l’aspeite.

 

 

 

“Il lupo e la volpe

C’era una volta a Isolabona una volpe che aveva ricevuto un grosso torto da un lupo di Apricale e siccome era rimasta assai scottata, pensava di vendicarsi. Un bel giorno andò a trovare il lupo e gli disse:

- Compare, ho scoperto una cantina di frati piena di ogni ben di Dio e se tu ci stai, stasera andremo a riempirci la pancia.

Il lupo, che da quell’orecchio ci sentiva benissimo, accettò. Al calar della sera si trovarono tutti e due di fronte al convento e da un buco penetrarono in cantina. Il lupo rimase mezzo sbalordito quando vide tutto quello che conteneva. In un angolo un mucchio di formaggio pecorino con due giare piene di ricotta fermentata; in un altro mucchi di salsicce e salami e inoltre due recipienti di legno pieni di miele che avrebbe resuscitato un morto e molte altre cose.

Il lupo senza pensarci due volte cominciò a divorare, mentre al contrario la volpe mangiava poco e ogni tanto usciva passando dal buco per poi ritornare indietro.

Quando la volpe si accorse che il lupo era sazio come un porco e rotondo come una botte e che non avrebbe più potuto passare attraverso il buco, facendo finta di niente, fece cadere alcuni barattoli che produssero un gran rumore. Arrivarono allora i frati con bastoni e cominciarono a menar botte da orbi. La volpe che aveva mangiato poco riuscì a scappare subito dal buco mentre il lupo che non poteva passare tanto era gonfio si prese tante bastonate da lasciarlo mezzo rotto e mezzo morto.

Quando rinvenne vide vicino a lui la volpe che faceva finta di essere ancora svenuta. Appena questa aprì gli occhi, incominciò a lamentarsi per le botte prese e a dire che non poteva più camminare. Il lupo allora se la caricò sulle spalle e cominciò ad avviarsi.  E mentre trotterellava, la volpe sulle spalle canterellava:

- Arri, arri per il piano, l’ammalato porta il sano.

- Che stai dicendo? - chiedeva il lupo.

- Dico che ho una sete tale da non poterne più e se tu mi dai ascolto andiamo a bere in un pozzo che io conosco.

Il lupo, che aveva anche lui sete, acconsentì. Arrivarono al pozzo nel quale c’era poca acqua. La volpe allora disse:

- Per bere faremo così: prima bevo io e tu mi tieni per la coda; poi bevi tu e ti terrò io. - E così fecero.

Ma quando fu il turno del lupo, la volpe che lo teneva per la coda disse:

- Compare, me l’hai fatta una volta, quindi ora bevi, bevi e intanto io ti mollo.

E così fece, lasciando annegare il povero lupo nel pozzo.

Morale: Chi la fa, l’aspetti.

 

 

NINNE NANNE

 

Le ninne. nanne riportate non sono prerogativa della sola Isolabona, ma, con qualche variante, erano diffuse in tutta la valle. Oggi il potere soporifico è affidato dalle mamme ad altri mezzi.

 

 

Fä a nänäa pupun de Zena                               Donda, dundina, Santa Catarina

che ta mä a vä en bütega                                  San Peiru e San Faustin

e te pä u vende u vin,                                        fäi durmii stu bambin.

fä a nänä pupun pecin                                       Stu bambin u nu vöö durmii

                                                                           perché u l’ä pauu de muirii.

 

Fa la nanna, bambolotto di Genova               Donda, dondina, Santa Caterina

tua madre se ne va in bottega                          San Pietro e San Faustino

tuo padre va a vendere il vino                          fate dormire questo piccino.

fa la nanna, bambolotto piccino                       Questo piccino non vuol dormire

                                                                           perché ha paura di morire.

 

 

                Nanna [nome del bambino]/respondi a chi te ciämä,

                U te ciamerä u Segnuu       /che ti väghi fin d’auu.

                A m’aissu, a me vestu,       /A cäru giù dau leitu

                a vägu deree l’autää           /e a me metu a strumbetää.

                U cärä u prave pecin           /u me dä un gotu de vin,

                u cärä u prave megiän        /u me dä üna feta de pän,

                u cärä u präve grosu           /u me da üna bastunä sciü l’ossu.

 

                Dormi [nome del piccino]   /rispondi a chi ti chiama

                il Signore ti chiamerà.         /e affrettati subito.

                Mi alzo, mi vesto,                /scendo dal letto

                vado dietro l’altare,             /e mi metto a strombettare

                Arriva il prete piccino,        /e mi da un bicchiere di vino,

                arriva il prete mezzano,       /e mi da una fetta di pane

                arriva il prete grosso.          /e mi da una bastonata sull’osso

 

 

 

                Fä a nänä pupun de pessa   /che ta mä a l’a andä a Messa

                te päire u vegnirà                 /e ün pupun u te purterä.

 

                Fa la nanna bambino di stracci /  perché tua madre è andata a Messa

                tuo padre verrà                           / e una bambolotto ti porterà.

 

 

FILASTROCCHE

 

(Alla vista di un gufo i bambini erano soliti dire)

                               Aujagäto, cändu a te vegu a me ne scäpu     Gufo, quando ti vedo scappo

                               ögli griji, pän mufiu                                       occhi grigi, pan muffito

                               cändu a te vegu a me ne riu.                           quando ti vedo me la rido

 

                                

 

                               Sauta pilautu                                       Salta più in alto                   

                               a Madona a me piglia en brässu       la Madonna mi piglia in braccio

                               a me dä ün cügliää de risu                 mi da una cucchiaiata di riso

                               e a me porta en Paradisu.                   e mi porta in Paradiso.

 

                 .

 

 

(I bambini, tenendo in mano una coccinella e spingendola verso la punta delle dita, erano soliti recitare:)

                               Gaglineta du Segnuu                          Coccinella del signore

                               vätené pe u camin d’amuu                vattene sul cammin d’amore

                               cändu ti ariveräi sciü chela cola       quando arriverai su quella collina

                               vola, vola,vola, vola.                          vola via.

 

                                

 

                               Ciöve, spurghina,                               Piove, pioviggina

                               i gäti i vän enta marina                       i gatti  vanno alla marina

                               Catin a ghe vä deree                           Caterina va loro dietro

                               e a se ne porta ün balu panèè.          e ne raccoglie un bel cesto.

 

                                .

 

 

                               Angera, tant’Angera                          Angela, zia Angela

                                [oppure: Ciancegura Barlegura] o    (Ciancegura Barlegura)

                               a  pastia i tagliarin                               impastava le tagliatelle

                               e i eira tänto longhi                             ed era tanto lunghe

                               da Nisa enfia a Turin.                         da Nizza sino a Torino.

 

                                

                               Angera, tant’Angera                          Angela, zia Angela

                               a pasia sciü beää,                                passava sul bordo del canale

                               a l’avia a camija cürta                         aveva la camicia corta

                               e a mustria l’arimää.                            e mostrava “l’animale”  (le pudende)

 

 

                               Ciüca perà u l’ä fau i fresciöi             Zucca Pelata ha fatto le frittelle

                               e u n’ä dau ai sei figliöi.                     ma non ne ha dato ai suoi figli.

                               I sei figliöi i än fau a fritä                   I suoi figli han fatto la frittata

                               Mä i nu n’än dau a Ciüca perà.         ma non ne han dato a Zucca Pelata.

 

                                

                               Padre nostru che t’ei en ti celi          Padre nostro che sei nei cieli

                               fighe giänche e canestreli,                 fichi bianchi e canestrelli

                               i aujieli e fän ci pìu                            gli uccelli fan cipìu

                               u Pater nostru  u l’ä finiu.                  il Pater nostro è finito.

 

                                

                                

 

                               A bala a se fä i rissi                            La bella si fa i ricci

                               cun u mänegu da cässä,                    col manico del mestolo

                               ciümpoucu a se g’amässä                 per poco non s’ammazza

                               sciù bordu du barcun.                        sul bordo del balcone.

                               Tralala, pum pum                              Tralala, pum, pum

                               vä a cantää sciù trävu du Busciun.  va a cantare sul trave del Boscione.

 

                                

                               A lanterna de Zena                             La lanterna di Genova                        .

                               a la fä a trei pissi                                 è fatta con tre pizzi

                               Rusina cui rissi                                    Rosina con i ricci

                               lascemura pasää.                                 lasciamola passare.

 

                                

                               Pater nostru da rumänä                      Pater Nostro della romana

                               chi u cäntä e chi u l’ämä.                   chi lo canta e chi l’ama.

                               Sän Martin u vä en cielu                    San Martino  va in cielo

                               a pregärne l’Evangelu.                       per recitare il Vangelo.

                               L’Evangelu corpu sänto.                   Il Vangelo corpo santo.

                               Corpu Säntu bon giagiün                  Corpo Santo buon digiuno

                               Bon giagiün che ti faräi                     Buon digiuno che farai

                               Paradisu ti averäi                                in Paradiso finirai.

                               Paradisu bona cosa                            Il Paradiso è un buon posto

                               chi ghe vä se g’arepousa                  Chi ci va si riposa.

                               A l’enfarnu marie giante                    All’inferno brutta gente

                               chi ghe vä se ne pante.                      chi ci va se ne pente.

 

 

 

POESIE

 

In questa parte sono trascritte poesie d’ogni genere raccolte dalla viva voce degli isolesi e alcune tratte dall’Antologia A Barma Grande.  Si tratta di brevi componimenti talvolta di dubbio gusto e di dubbio significato o di poco senso, tramandate di generazione in generazione le quali, se per noi hanno oggi perso qualsiasi significato logico, probabilmente un tempo dovevano muovere il riso di chi le ascoltava.

 

 

 

I l’än mese en t’ün cavägno                                             Tre lire e cätru soudi

pe andärle a semenää.                                                       e sun tre lire e megia.

I credia che fusse fäve                                                      U mère de Mentun

mä eiran bäle da giugää                                                     u l’ä una fea veglia.

 

Le han messe in una cesta                                                Tre lire e quattro soldi

per andarle a seminare                                                       son tre lire e mezza.

Credevano che fossero fave                                            Il sindaco di Mentone

ma eran palle per giocare.                                               ha una pecora vecchia

 

 

 

Vä a cagää e däghe de päte                                              U gheira ün omu en t’ün curegliu

Dighe a ta mä che sun fugässe.                                       cu se pichia u cüü cun ün cavegliu.

Vä a cagää, däghe di pugni,

e di a ta mä che i sun sempugni.

 

Va a cagare e dalle degli schiaffi                                   C’era un uomo in un corridoio

e di’ a tua madre che son focacce.                                 che si batteva il sedere con un capello.

Va a cagare e dalle dei pugni

e di a tua madre che è un cespo di insalata.

 

 

 

Vrigarenchi da sigärä                                                      Apricalesi della cicala ( loquaci)

tüti i di i munta e i cärä                                                   ogni giorno salgono e scendono

i mete i pei en t’a Madona                                               entrano nella chiesa della Madonna

tüta a nöite u trona, u trona.                                           e per tutta la notte tuona e tuona.

 

 

 

Carlevää u l’a mortu                                                       Carlevää u l’a mortu,

envriägu cume ün porcu,                                                 u l’a grossu cume un porcu,

u l’ä fau u testamentu                                                      u l’avia säte figliöi,

sciü a porta du cunventu,                                                 macarui e raviöi.

lasciandu ai sei figliöi                                                       Carlevää nu te ne andää

tagliarin e raviöi.                                                              a te daremu da mangiää

                                                                                          da mangiää e da durmii,

                                                                                          Carlevää turna a vegnii.

 

Carnevale è morto                                                            Carnevale è morto

ubriaco come un porco                                                     è grosso come un porco

ha fatto testamento                                                           aveva sette figli,

sulla porta del convento                                                   maccheroni e ravioli.

lasciando ai suoi figlioli                                                    Carnevale non andar via

tagliatelle e ravioli.                                                           ti daremo da mangiare.

                                                                                           da mangiare e da dormire,

                                                                                          Carneval torna e venire.

 

 

 

 

 

 

 

Proverbi e modi di dire  

 

Dopo vari esempi di forme narrativo-popolare è il momento di passare a quella letteratura  spicciola a testo fisso che comprende i proverbi e i modi di dire.

Di proverbi e modi di dire ve ne sono moltissimi ma, in pieno accordo con Alberto Cane il quale si è occupato in questa monografia di tutta la parte dialettale, si è deciso di restringere il campo a quelli più caratteristici e curiosi, tralasciando, invece, quelli che altro non sono se non la traduzione dialettale di proverbi italiani.

Una parte di essi si presenta sotto forma di massima; un’altra parte, invece, sotto forma poetica. Non è qui il caso di vedere se esiste una corrispondenza tra le varie rime in quanto, spesso, si trattava di assonanze.

I proverbi più diffusi sono quelli concernenti aspetti di vita pratica o aspetti agricoli e in essi il buon senso e l’esperienza si sostituiscono alla scienza e alla filosofia.  Circa l’aspetto esteriore hanno una forma breve che contiene in sé la doppia possibilità, quella di essere facilmente ricordati e quella di poter essere agevolmente tramandati a generazioni future appunto per la forma sintetica e per la loro semplicità che può adeguarsi ad ogni mente.

Per comodità del lettore che ha poca familiarità col dialetto, ogni proverbio o modo di dire sarà seguito dalla traduzione o da un commento esplicativo.

 

 

 

Proverbi moraleggianti

 

 A forsa d’andää a l’äigä cun ün brocu u se ghe rumpe u mänegu  (Continuando ad attingere acqua con la brocca, finisce per rompersi il manico)

A marda ciü i a remes-cia e ciü a spüsa  (La merda più si rimescola più puzza)

A vurpe a nu fä levre (La volpe non genera lepre)

Ae giante de marina enceighe a män e gireighe a schina  (Alla gente di mare riempite loro la mano, ma voltatele la schiena)

Ai  Sänti vegli nu g’asande ciü de candere  (A santi vecchi [passati di moda] non accendere più    candele)

Andää a vee e sciure daa pärte de raije  (Andare a vedere i fiori dalla parte delle radici. Morire.

Basta ün suru luvu a fää scapää santu fé  (Basta un solo lupo a far scappare cento pecore)

Baujairu cunusciüu, u nu l’a ciü credüu  (Bugiardo conosciuto non viene più creduto)

Besögna pigliää u mundu cume u van  (Bisogna prendere il mondo come viene)

Caciaüü e lumasèè i porta e strässe denai e derèè   ( Cacciatori e cercatori di lumache  portano toppe davanti e di dietro)

Cändu a vidua a se maria a penitansa a nu l’a ancuu finia (Quando la vedova si risposa la penitenza non è ancoea finira)

Cändu u figu u s-ciopa , l’anghila a toca (Quando il fico matura, l’anguilla è pronta per essere catturata)

Cändu turta e cändu grili  (Quando torta e quando grilli)

Cändu u poveru u fä u pän u se deroca u furnu  (Quando il povero riesce a fare il pane il forno si sfascia)

Cändu u tampu u l’a en burräscä u van da dii u Credu (Quando il tempo è brutto, si è portati a recitare il Credo)

Cärne c’a se striglia a nu va üna caniglia, ma cändu a l’a strigliä a nu se pöö pagää  (Persona che   si stiracchia  non vale un frutto marcio, ma una volta stiracchiata non si puo pagare)

Cärne ch’ a cresce a bugia    (Carne che cresce è vivace. Detto di bambini assai vivaci)

Chi ciü n’ä ciü ne vuria  (Chi più ne ha più ne vorrebbe)

Chi dorme cun ün cän u s’areveglia cun e purije  ( Chi dorme con un cane si sveglia con le pulci)

Chi en giuventüra ciänta, en veciäirä  cänta ( Chi semina da giovane, raccoglie da vecchio)

Chi gägnä de prima män u se ne vä cun e bräghe e män (Chi vince di prima mano se ne va spogliato)

Chi maneggia, lecheggia  (Chi maneggia soldi può soddifare i piaceri)

Chi nu ä üna cruije u l’ä üna cruijäsä e se u nu a pöö purtää u a stiräsä  (Chi non ha una croce piccola ne ha una grande e se non può prtarla la trascina)

Chi nu ne ä  u se nega  (Chi non posiede nulla, affoga)

Chi nu n’ä u nu n’asgäirä  (Chi non ne ha non ne sciupa)

Chi nu s’encälä nu se sciälä  (Chi non osa non gode)

Chi rie de bon matin, ciägne de seira (Chi al mattino ride, piange la sera)

Chi se maria föra de cä u fä ustaria e u nu u sä  (Chi si sposa fuori del paese, fa di casa sua un’osteria e  non lo sa)

Chi serca rugna u saa grätä  (Chi cerca guai se li gratti)

Chi spande e u nu ne mette  u l’arasta cun e mäe nete (Chi spende e non guadagna, rimane a mani nude)

Chi u nu dä a mentu au päire e a mäire en arba, sciü i gareti u ghe cärä a marda  (Chi da piccolo     non ascolta i genitori, da grande se la farà nei calzoni)

Chi vä au boscu pärde u postu  (Chi va al bosco perde il posto)

Chi vive sperandu möie cagando   (Chi vive sperando muore disperato)

Cun ran u nu se fä ran  (Con niente non si fa nulla)

De andää descausi e de lavurää ban fundu u nu s’a mäi arichiu nesciün au mundu  (Andare scalzi e scavar fondo non si è mai arricchito nessuno)

Dopu u riäsu u van u ciagnäsu  (Dopo il ridere viene il pianto)

E fee ciorneghe e se mängiä u semenau  (Le pecore miopi distruggono il seminato)

Entu mundu chi nu nöa vä a fundu  (Nella vita chi non sa nuotare, affonda)

Fari da tägliu, done e müra, beätu chi gh’enduvina   (Ferri da taglio, donne e mulo, beato chi ci azzecca)

Finché u ghe n’a aviva Giausà, cändu u nu ghe n’a ciü aviva Gesù  (Finché ce n’è evviva Giuseppe, quando non ce n’è più evviva Gesù)

Grämu  l’änse che u nu sää purtää u sè bästu  (Gramo l’asino che non sa portare il suo basto)

I brävi e i giüsti i än e scärpe de vedru   (I bravi e i giusti han le scarpe di vetro)

L’änse dunde u s’arebätä üna vouta u nu s’arebätä ciü  (L’asino non casca due volte nello stesso   posto)

Lunde u g’a ciü pässi che bucui, läsciäghe andää i cugliui (Dove c’è più da cmminare che da mangiare, lanscia andare i coglioni)

Mangiää e gratää u basta cumensää  (A mangiare a a grattarsi, basta incominciare)

Ne a tortu ne a reijun nu te fää mete en preijun  (Ne a torto ne a ragione non ti far mettere in prigione)

Strentu au brenu, lärgu aa farina  (Avaro con la crsusca, prodigo con la farina)

Tütu u van au tägliu cume e unge pe perää l’agliu (Tutto viene al pettine come le unghie per pelare l’aglio)

U ban u stä sampre suvre cume l’öriu  (Il bene sta sempre a galla come l’olio)

U ciöve sampre sciù bagnau  (Piove sempre sul bagnato)

U fä fää u se porta u fau   (Il continuare a costruire si mangia il costruito)

U l’a ciü bon u vin du rugliu che chelu da räpä (E’meglio il vino della botte che quello dei raspi)

U l’a sampre megliu lecää che morde una vouta sura ( E’ sempre meglio leccare che mordere una sola volta)

U se vä aa fin de tütu  (Ogni cosa ha la sua fine)

U tampu bon u nu pöö durää,  u brütu mäncu  (Il tempo buono non può durare, il cattivo  nemmeno) 

Una vouta perün en bräsu aa mämä  (Una volta per ciascuno in braccio alla mamma)

 

 

PROVERBI DELLA CAMPAGNA

 

A Sän Michèè u ciöve chinse di avanti o chinse di derèè   (A San Michele piove o quindici giorni 

prima o quindici dopo)

A Säntä Catarina u freidu u s’aveijina  (A Santa Caterina si avvicina il freddo

Aigä tria a bägnä e a nu bäte a cria  (Pioggia fine bagna senza far rumore)

Cändu e nivure e fän u pän se u nu ciöve ancöi u ciöve deman  (Quando le nubi sono a pecorelle, se non piove oggi piove domani)

Cändu i foi i se mete a ruscegää, meteive a semenää  (Quando i larici ri mettono a rosseggiare,      mettetevi a seminare)

Cändu Tauräge u l’ä u capelu u tampu u l’a bälu. Cändu Taurage u l’ä a centüra un tampu u nu     düra  (Quando il Monte Toraggio ha il cappello [di nubi] il tempo è bello. Quando,                 

invece, ha la cintura il tempo non dura)

Cändu u cäntä u cücu, aa matin u g’a bagnau e aa seia sciütu  (Quando canta il cuculo al mattino  il terreno è bagnato e alla sera asciutto)

Cändu u cäntä u tron avanti u cücu a l’a üna bona anä de tütu  (Quando si sente il tuono prima di   sentire il canto del cuculo, è una buona annata per tutto)

Da Säntä Caterina a Deneää u g’a un balu mesu engää  (Da S.Caterina a Natale c’è ancora un   mese)

Dopu trei di de nage o äiga o vantu  (Dopo tre giorni di nebbia o acqua o vento)

Fin a Sänt’Anä i faijiöi i munta sciü a cana. Da Sänt’Anä en sciü i nu munta ciü  (Fino a             

SantAnna i fagioli cresco e dopo non più)

Fin a Sän Sebastiän u se semena u  grän. De Sän Sebastiän en là u se semena luche i än  (Fino a

San Sebastiano si semina il grano. Da S. Sebastiano in poi semina quel che ai.

Una giurnä d’äigä de magiu a vä tant’ouru  (Un giorno di pioggia a maggio vale tanto oro)

 Su ciöve cändu u suu u l’a en Leun e aurive e cärä sansa bastun  (Se il sole è nella costellazione   del Leone le ulive cadono senza abbacchiarle)

Su ciöve u di da Cruije, pouche castägne e tänte nuije  (Se piove il giorno di Santa Croce, poche  castagne e molte noci)

Vä ciü ün rugliu che santu spurghinäe  (Val più una pioggia abbondante che cento pioggerelline)

 

 

Modi di dire e frasi tipiche

 

 A dirla s-cetta  (Per dirla chiaramente)

A l’a cume a foura du bestantu  (Detto di cose di cui non si viene mai a capo)

A n’äi  üna fura   (Non ne posso più)

A nu m’encälu  (Non oso)

A sun sciäiru e stransciu  (Sono fiacco e magro)

A vä andandu  (Tiriamo innanzi alla bell’e meglio)

Andää a dää mangiää au pürije   (Andare a dar da mangiare alle pulci. Fare lavori inutili)

Andää a tirää   (Andare alla visita di leva)

Andää de cansää   (Camminare in malo modo. Camminare di sghembo)

Andärse en peti e menieti   (Andarsene in brodo di giuggiole)

Andärsene a l’amüsu  (Andarsene a muso lungo???)

Ase aa coca   (Essere allo stremo) ????

Ase cume ün pin bugiu   (Essere come una pigna verde)

Ase en chicura  (Essere in forma)

Aseghe de bon fää  (dicesi di terreno facile a coltivarsi)

Au tampu di ruländi i pecìn i cumända i grändi  (Dopo la vedemmia sono i più piccoli a  comandare) 

Avèè e grunde caräe   (Essere aggrondati)

Avèè u muru brütu cume u cüü da paala    (Avere la faccia sporca come il fondo della padella)

Avèè u pisciu ägru  (Aver la luna storta)

Averlu in tu stupin   (Essere fregato)

Averne ün tocu pe cheicüun  (Aver a che ridire su qualcuno)

Balu bardotu   (Bel garzone)

Beijärse u gumeu  (Baciarsi il gomito. Fare una cosa impossibile)

Cagää sciu una ciapa  (Fare i bisogni su una lastra)

Candu u ciöve e u g’a u suu e fautüreire e fan l’amuu  (Quando piove e c’è il sole le streghe fanno l’amore)

Che lavastru!   (Che pioggia torrenziale!)

Ciü en lä u g’a i Barbeti  (Oltre ci sono i Barbeti - spauracchi per bambini)

Ciucärghere  (Suonargliele)

Cruije e biscia  (Croce o biscia - Testa o croce)

Dää a mentu  (Badare, ascoltare)

Därghe modu  (Dare la possibilità)

Därghere tüte vinte  (Dargliele vinte tutte)

De bona mena   (Di buona maniera)

Düru cume un becu   (Duro come un caprone)

En cega ögli   (A occhi chiusi)

En con du diu  (Alla fine del giorno)

Fää e bruchete  (Fare le bullette)

Fää ün sgärbu a bägnu   (Fare un buco nell’acqua)

Giugää ae longhe   (Giocare alla lunga nel gioco delle bocce)

I bruti i sun taneri  (I rami d’ulivo sono teneri  detto di uno che sta per ribellarsi o esplodere)

Lambicärse u servelu  (Spremersi le meningi)

Lége a vita   (Leggere la vita)

Levää dau semenau   (Togliere dal seminato. Togliere dagli impicci)

Levärse d’en t’ün sbregu   (Togliersi da un pasticcio)

Luche ti bumbuni?  (Che cosa borbotti?)

Luche ti cifugni ?   (Che cosa traffichi?)

Luciää en tu mänegu  (Vacillare nel manico)

Mägru cume ün picu  (Magro come un piccone)

Mäie  i me piglia- läsciäte pigliää- mäie e me cöije- läsciäte cöije- mäie i me mängiä-läsciäte mangiää- mäie i me veve- läsciäte  beve u vin adosu - figlia ti ei parsa.  (Madre mi pigliano, lasciati prendere; madre mi cuociono, lasciati cuocere; madre mi mangiano,  lasciati mangiare; madre mi bevono il vino adosso. Allora, figlia mia, sei persa. Tutto  ciò detto nel senso di tollerare fino ad un certo punto e non oltre.

Mätu cume ün curbin   (Matto come una cesta da uva, nel  senso: essere fuori di testa o ubriaco)

Mes-ciärse u belin cun un servelu  (Andar fuori di testa)

Nu m’ensciää a teta  (Non gonfiarmi la tetta  nel senso di: lasciami in pace)

Nu me fää muntää u sacramentatätu   (Non farmi andare in bestia)

Oh, mi povera bagäscia!   (Oh, me povera sgualdrina! Espressione usata da tutte le donne che ormai l’hanno adottata come esclamazione quando voglio esprimere stupore)

Parää u säcu   (Tener aperto il sacco)

Pescauu de cänä, caciauu de viscu, purtauu de Cristu i sun i tre ciü belinui che g’a sciü sta  tara (Pescatore con la canna, cacciatore con il vischio e portatore di Cristo, durante le processioni, sono i tre più stupidi di questa terra) 

Picärghe du muru  (Sbatterci con la faccia)

Pigliärserä düra  (Prendersela a cuore)

Revirärse cume un cän   (Rivoltarsi come un cane)

Sa nu l’a vera a l’a bärca  (Se non è vela è barca nel senso di Se non è così è il contrario)

Sarne en tu mäsu   (Scegliere  nel mazzo)

Sbäte l’äigä   (Sbattere l’acqua)

Sciavasärsene e bäle  (Sbattersene allegramente le palle)

Sciütu cume l’esca  (Asciutto come un’esca)

Stärsene ciuri  (Stare rannicchiati al caldo.)

Ti ei apenisau cume ün rebisu  (Te ne stai rattrappito come uno scricciolo)

Ti ei üna bala basara  (Sei una bella intrufolona)

Tirää i gambin  (Tirare le cuoia)

Ti s-ciupessi!  (Ti venisse un colpo!)

U cärä i beiocchi  (Dicesi di bimbo che sta per addormentarsi)

U l’a bon cume u pän ma ciü longu du Säbu Säntu (Buono come il pane ma lungo come il Sabato  Santo)

U l’a cübu  (E’ buio)

U l’a mätu cume ün cavägnu, stüpidu cume üna crävä e grämu cume u töscegu  (E’ matto come un cestino, stupido come una capra e gramo come il tossico)

U l’a megliu un änse sansa pee che a canderäiä cun u surèè  (E’ meglio un asino senza pelo che una ???? con il solaio)

U l’a un balu vee  (E’ una bella vista)

U l’a ün peugliu revegnüu   (E’ un pidocchio rinato. Si dice di un miserabile arricchito)

U m’a  carau en te unge di pei  (Mi è sceso sin nelle unghie dei piedi. L’ho gradito moltissimo)

U nu gh’eia ärimä viva   (Non c’era proprio nessuno)

U nu sä mäncu fää üna O cun ün canun de cänä   (Non sa fare una O neppure con un cilindro di canna)

Un beelin che te neghe  (Un pene che ti strozzi nel senso di:Un accidenti che ti colga)

Vä a cagää en ta sene  (Va’ a defecare nella cenere)

Vègliu cume u cüucu  (Vecchio come il cuculo)

Vöu cume S.Paulin  (Vuoto come S. Paolino)

 

 

 

Conclusione 

 

 Più che concludere con considerazioni legate al solo paese di Isolabona,  si  ritiene  più  opportuno  analizzare l'intera vallata.

 Le tradizioni pervenuteci dal passato hanno tentato, come edera sempre viva, di aggrapparsi all'humus fertile della memoria per poter continuare a vivere. E' noto però che la sopravvivenza di motivi folkloristici tende a resistere in località che, per la loro natura geografica (isolamento o lontananza dalle grandi vie di comunicazione) hanno più possibilità  di custodirli, mentre questi motivi tendono rapidamente a scomparire nelle località "più esposte al contatto con l'esterno".

 In  Val Nervia le  tradizioni hanno resistito  fino a  quando l'uomo  ha trovato possibilità di sopravvivenza; ma quando è  stato costretto  a  cercar  lavoro  oltre  le  mura del paese e ad abbandonare per lunghi periodi o per sempre il focolare, anche le tradizioni sono lentamente sbiadite e hanno perduto le loro radici.

 L'insieme delle tradizioni recuperate sul  filo della memoria ci  permette, comunque, di  definire il carattere  generale  degli isolesi, che  poco si  discosta dal  carattere generale degli  abitanti della Val Nervia.

 L'isolese  è  in  linea di massima  persona osservante dei precetti morali; grata ai  benefici ricevuti e  di rado facile  a dimenticarli;  attaccata al  lavoro e alla  terra;  fiera  e inesorabile  con chi gli vuol  nuocere; intraprendente e al  tempo stesso  circospetta;  non  si lascia  facilmente abbattere dagli ostacoli ma cerca sempre di  vincerli; fissa ad una  meta qualora intraveda un facile guadagno, ma pronta ad abbandonare  quando  il  danno gli si profili.

                           

  

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