A Enzo e Stefano per aver loro 'rubato', molto tempo delle loro mogli

 

I fantasmi del sergente

Non si uccidono gli editori

Incidenti

Orme

Un quadro diabolico

 

 

 

 

                                  

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

I FANTASMI DEL SERGENTE

 

 

Pioveva, diluviava anzi. A tratti le finestre del Posto di Polizia di  Chelsea venivano illuminate dai lividi bagliori  dei lampi che si susseguivano senza posa. Una notte da lupi poco adatta ad un giro di ronda, anche se il regolamento su questo punto era inflessibile.  Al sergente Applebottom non andava a genio uscire in una serata simile, ma il regolamento doveva essere rispettato. Stava per posare la penna, quando una folata di vento, infilatasi dalla porta aperta all’improvviso fece volare alcune carte.

- Che accidenti fai, O-Hara? E chiudi quella porta! Mi mandi all’aria tutto il lavoro!

L’uomo entrato improvvisamente nell’ufficio del sergente, non ubbidì. Si avvicinò alla  sedia più vicina alla porta, vi si lasciò cadere pesantemente e stette a guardare il sergente con occhi spiritati, le braccia ciondolanti ai lati del corpo. Aveva tutti i vestiti inzuppati e una macchia d’acqua si andava formando sul pavimento sotto i suoi piedi.

- Di nuovo ubriaco eh, O-Hara? - gli disse bonariamente il sergente. E poiché quello non si degnava di rispondere o di reagire, aggiunse: - Hai forse visto qualche fantasma?

- E’ proprio quello che ho visto - farfugliò il nuovo venuto con la bocca impastata.

- E dove? - scherzò il sergente. - In fondo ad un bicchiere di birra?

- Ti dico che l’ho visto. Una visione orrenda!

            Ci mancavano proprio i fantasmi dell’ubriacone O-Hara, pensò il sergente, ma in fondo erano i benvenuti se servivano a ritardare il giro di ronda nel quartiere.

- E dove l’avresti visto?

- Ti racconto, sergente - disse l’uomo, passandosi una mano tra i capelli zuppi d’acqua. - Ti racconto. Dunque, lasciati gli amici alla birreria, sono tornato a casa. Non mi importava se pioveva a dirotto, anzi. Tutta quell’acqua serviva a schiarirmi le idee. Appena ho aperto l’uscio di casa, ho cercato di accendere la luce nell’ingresso, ma la lampadina è rimasta spenta. Doveva esserci stato un corto circuito a causa del temporale. Tutto è successo in quel momento:  ho visto una luce argentea, spettrale, proprio vicino all’armadio. In mezzo alla luce c’era un tamburino, alto sì e no un metro. Aveva un piccolo tamburo appeso alla cintola e con una sola bacchetta vi batteva sopra lentamente. Era senza testa...

- Come senza testa! - lo interruppe il sergente Applebottom.

- Senza testa, senza testa! E mi guardava con occhi severi...

- Un momento, O-Hara. Anche se non ho intenzione di scrivere un verbale sul tuo fantasma, perché il mio capo mi caccerebbe a pedate e tu lo sai, quello mi vede come il fumo negli occhi e aspetta il momento adatto per trasferirmi altrove, vorrei che tu mi spiegassi come faceva il tuo tamburino senza testa a guardarti con occhi severi.

- Be’, la teneva sotto il braccio.

- Cosa teneva sotto il braccio?

- Te l’ho detto sergente, teneva la testa. E una testa ha gli occhi - spiegò O-Hara come se si trovasse di fronte a un bambino.

- Riassumiamo, O-Hara: tu sei rientrato in casa, hai aperto la porta e nell’ingresso hai visto un tamburino con tanto di tamburo, ma senza testa. O meglio, teneva la testa mozza sotto il braccio e gli occhi di quella testa ti guardavano.

- Sì, è proprio così. E aggiungo: la testa grondava sangue.

- Grondava sangue, - ripeté il sergente.

- E io a casa stanotte non ci ritorno.

- No, tu ci ritorni. Adesso usciamo tutti e due e andiamo a casa tua a vedere il tamburino senza testa.

Il sergente Applebottom si alzò dalla scrivania, indossò un impermeabile nero con cappuccio, calzò gli stivali e, prima di uscire, porse a O-Hara un parapioggia, lasciato da uno degli ultimi visitatori, un ladruncolo tradotto da quell’ufficio direttamente in gattabuia, dove, ognuno sa, gli ombrelli non servono perché nelle celle per lo più non  piove.

            Quella notte, invece, a O-Hara un ombrello serviva. L’acqua veniva giù scrosciando. Il Padreterno si divertiva dall’alto a rovesciare senza posa catinelle di acqua fredda, gelata. Imbacuccato nel suo impermeabile, il sergente procedeva speditamente, incurante delle pozze d’acqua, seguito da O-Hara che saltellava qua e là nell’intento di evitarle, non tutte perché quelle  non illuminate dalla luce dei lampioni pareva lo attendessero al varco e, inevitabilmente, vi finiva dentro.

- Hai lasciato tu la porta aperta? - chiese il sergente. quando raggiunsero la casa di O-Hara.

- Non me lo ricordo. Quando mi sono ripreso da quella orrenda visione, sono scappato senza pensare ad altro.

Entrarono. La luce si accese non appena il sergente azionò l’interruttore. L’ingresso era vuoto.

- Dov’era il tuo tamburino?

- Là, - disse l’uomo, indicando un armadio.

Il sergente si avvicinò al mobile e guardò a terra dove c’era una macchia scura. Vi intinse il dito e lo guardò. Il liquido era di color rosso scuro. Poteva essere sangue, ma poteva anche essere qualsiasi altra cosa.

- Ti sei avvicinato all’armadio?

- Ma tu sei matto, sergente! Con quello intento a suonare il tamburo e a reggersi la testa sotto l’ascella. Nemmeno a pensarci!

Il sergente Applebottom era scettico. Aveva subito accantonato l’idea di un fantasma. Per lui la spiegazione era semplice: O-Hara, ubriaco, era rientrato in casa; poiché la luce in quel momento mancava, si era avvicinato all’armadio e, senza accorgersene, aveva lasciato a terra una bella chiazza di fanghiglia, poi si era immaginato la visione del tamburino senza testa. Quando i fumi della birra raggiungono il cervello è anche possibile vedere il mostro di Loch Ness ballare nel salotto di casa.

- Io, comunque, stanotte in questa casa non dormo. Me ne vado alla locanda di Betty.

- E’ sulla mia strada - disse il sergente, senza nemmeno tentare di convincere l’amico a rimanere in casa. - Ti accompagno.

E uscirono nella notte, mentre il diluvio continuava.

 

*******

            Dopo una settimana di  pioggia insistente, una giornata di sole era la benvenuta e il sergente, dirigendosi verso il Posto di Polizia, pensava di trascorrerla all’aperto, lontano dalla scrivania e dalle scartoffie, sempre che il sovrintendente Wolf glielo permettesse.

            Il sergente Applebottom non aveva mai capito perchè il sovrintendente  Wolf fosse così prevenuto nei suoi riguardi. Non gli aveva mai fatto nulla, neppure uno sgarbo. Forse  il sovrintendente reputava sgarbi i successi ottenuti dal  sergente  Applebottom in tutta la sua carriera.

            C’erano momenti in cui lo odiava  e, se non avesse avuto il timore, anzi la certezza, di essere cacciato via, gli avrebbe assestato qualche magistrale ceffone, tirando poi un bel respiro di sollievo. Ma un giorno o l’altro si sarebbe presentata l’occasione per una bella lezione.

            Appena varcò la porta del Posto di polizia il piantone gli comunicò che il sovrintendente lo attendeva nel suo ufficio.          

            ‘Giornata rovinata!’ pensò il sergente, mentre bussava all’uscio del suo superiore.  Un ‘Avanti!’ ululato come solo una persona di nome Wolf sa fare, gli fece aprire la porta.

            Il sovrintendente Wolf se ne stava seduto dietro la sua scrivania, semisprofondato in una poltrona di pelle, usurata dal tempo e dalla pesante mole del suo proprietario. Wolf era un omone di oltre cento chili, con le spalle larghe come quelle di un  torello, il volto rubizzo, solcato da venuzze bluastre, gli occhi porcini, cisposi, sormontati da sopracciglia folte, con molti peli rivolti in alto alla mefistofele, la testa completamente calva, aureolata da una striscia rossa là dove si appoggiava la bombetta. Il sovrintendente lo guardava con gli occhi socchiusi.

            - Ho saputo, sergente Applebottom, che la settimana scorsa le è stata denunciata la presenza di un fantasma all’interno di una casa della mia giurisdizione: perché non mi ha presentato alcun rapporto?

            “Ma guarda tu, ‘sto maledetto! - pensò il sergente. - Se avessi fatto rapporto, mi avrebbe preso in giro e sbeffeggiato con tutti i colleghi. Ora se la prende con me perché non l’ho fatto!”

            - O-Hara - spiegò con calma - quando, si è presentato, era ubriaco fradicio; ho ritenuto che le sue fossero visioni dovute ai fumi della birra.

             - Lei non deve ritenere, sergente Applebottom: lei deve eseguire, deve applicare il regolamento, alla lettera, capito? - abbaiò Wolf rosso in volto.

             - Sì, signore, ai suoi ordini - rispose il sergente sottovoce, soffocando la rabbia.

             - E poiché  questa mattina si deve occupare di fantasmi e di ubriachi, veda un poco di capire che cosa è capitato al  tizio trovato da due agenti stanotte nella piazza del mercato. E adesso vada! - lo congedò seccamente.

            Il sergente uscì con la rabbia in corpo e si diresse verso il corpo di guardia dove era situata la cella in cui venivano rinchiusi coloro che dovevano essere presentati al magistrato.

            - Chi c’è in gabbia? - chiese ad un agente seduto di fronte alla cella.

            - Un certo Foller: due agenti lo hanno trovato stanotte, rintanato in un angolo del mercato, in mezzo ad alcune ceste. Era completamente nudo.

            - Nudo!

            - Nudo, nudo come Dio l’ha fatto. Sembrava un matto e  accusava una donna di avergli scucito tutti i vestiti di dosso.

            Il sergente scosse il capo quasi a liberarlo dai postumi della sfuriata del sovrintendente e far posto a quella novità.

            - Dammi il verbale degli agenti .

            L’agente glielo porse .

 

           “Ore 0,30 AM. A seguito di segnalazione da parte di un uomo che asseriva di aver udito alte grida provenire dalla piazza del mercato, noi, agenti Logan e Reagan, ci siamo recati sul posto dove abbiamo trovato un uomo completamente nudo, urlante e in preda a terrore. L’uomo di nome Jim Foller è stato condotto al Posto di Polizia. Interrogato, ha dichiarato: “Mentre stavo attraversando la piazza del mercato, ho incontrato una donna. Mi ha scucito tutti gli abiti di dosso e mi ha lasciato nudo”. Gli abiti sono stati ritrovati vicino al posto dove l’uomo fu fermato. Ritenendo non valide le sue affermazioni, lo abbiamo trattenuto sotto l’accusa di atti osceni in luogo pubblico.  F.to A.Logan. F.Reagan”

 

            - Aprimi la porta, - disse il sergente, dopo aver restituito il breve verbale dal quale si capiva solo che era stato trovato un uomo nudo nella piazza del mercato. Probabilmente un malato di mente o un esibizionista.

            L’uomo se ne stava rannicchiato in un angolo della cella, le braccia attorno alle ginocchia, la testa china. Per ricoprire le sue nudità, qualcuno gli aveva dato una tuta. Indossava anche un paio di calze di lana; non le scarpe. Quell’uomo non sembrava farci caso sebbene il pavimento fosse assai freddo.

- Lei è Jim Foller?

- Sono io, - rispose l’uomo, alzando la testa per guardare il sergente.

- Abita a Chelsea?

- Sì, in Via degli Oleandri, al numero tre.

-  Che professione esercita?

-  Sono un sarto.

- Lei sa perché si trova qui?

- Certo! Sono stato arrestato da due agenti perché mi hanno trovato nudo.

- Perché si è spogliato.

- Io non mi sono spogliato. Mi hanno spogliato.

- Chi?

- Una donna.

- Una donna l’avrebbe assalito per strapparle i vestiti di dosso?

- No, non mi ha assalito e nessuno mi ha strappato i vestiti.

- Non capisco: mi racconti l’accaduto.

- Allora: era passata la mezzanotte e attraversavo la piazza del mercato quando vidi una donna venirmi incontro. Attirò la mia attenzione perché aveva qualcosa di strano. Camminava come se non toccasse il terreno; vi scivolava, ecco sì, era come se vi scivolasse sopra. E poi mi sembrava trasparente.

- Trasparente, dice. Lei perché rientrava a quell’ora?

- Un mio amico si sposa domani e ieri ha dato l’addio al celibato con una piccola festa.

- Ho capito...

- No, lei non ha capito, - lo interruppe il sarto. - Se pensa che io fossi brillo e abbia avuto una visione, si sbaglia. Io sono astemio e ieri notte ho bevuto solo limonata.

- Allora continui: quella donna era trasparente, trasparente come?

- Diafana, diafana come un fantasma.

-  E quella donna-fantasma le ha detto qualcosa?

- Mi ha detto:”Tu cuci male; rivedi i tuoi punti. Sei un sarto di poco conto.”

- Allora la donna sapeva del suo mestiere; quindi la conosceva.

- Forse lei sì, ma io no. E poi c’è un’altra stranezza: quella donna indossava abiti non più di moda, abiti delle donne del Settecento ed erano tutti sbrindellati.

“ Ma tutti a me devono capitare!” pensò il sergente. E poi, rivolto al sarto:

- Vada  avanti!

- C’è poco da aggiungere. Quella non si avvicinò, ma io avvertii un gran freddo tutto intorno a me. Sentii un rumore come di stoffa lacerata e mi ritrovai completamente nudo. Cercai riparo tra alcune ceste e mi misi ad urlare per il terrore perché quella donna svanì davanti a me in una nuvola di fumo.

- In una nuvola di fumo - ripeté il sergente. - Sta bene, signor Foller. Tra poco verrà il giudice Mason. Dovrà ripetere a lui tutta la storia. Penserà lui a farla rilasciare.

Il sergente Applebottom uscì dalla stanza e chiese all’agente di guardia di mostrargli i vestiti del trattenuto. Quando gli fu consegnato il pacco, li esaminò attentamente. Non erano lacerati, come si era aspettato, erano semplicemente tutti  scuciti quasi una persona si fosse divertita a tagliare con una lametta tutte le cuciture, senza arrecare danni alla stoffa. La cosa lo impensierì. Si fosse trattato di strappi, il caso non avrebbe presentato dubbi ed era spiegabile. L’uomo era stato assalito; c’era stata una colluttazione; gli abiti si erano lacerati. Lo strano, però,  era che si fossero lacerati tutti, anche le mutande. Il sergente notò la mancanza delle calze dal gruppo degli indumenti. Si ricordò di averle viste ai piedi del fermato. Perché era rimasto solo con le calze? Le calze di lana non hanno cuciture, pensò: ecco perchè erano rimaste infilate nei piedi del sarto.

Prima di battere il verbale, rintracciò i due agenti che avevano provveduto al fermo di Foller per chiedere se nella piazza si fossero imbattuti in una donna vestita in modo strano. No, non avevano visto nessuno, tranne l’uomo nudo.

Con un sospiro il sergente Applebottom si sedette davanti alla macchina per scrivere. Due rapporti da fare; tema: un tamburino decapitato, con la testa sotto il braccio quasi fosse un melone e una donna trasparente, vestita come una signora del Settecento, esperta nello scucire i vestiti addosso alla gente.

- Che bella mattinata! - brontolò, premendo un tasto.

*******

Il sergente odiava i fumatori e li combatteva con tutti i mezzi a sua disposizione. Se poi sorprendeva qualche ragazzino con la sigaretta tra le dita, diventava un vero Cerbero. Non  mollava ceffoni, questo non era nelle sue abitudini e neppure nelle sue facoltà; ma di accompagnare il malcapitato, tenendolo per un orecchio,  fino dai genitori, questo sì,  a questo si sentiva autorizzato.

Quel giorno, durante il giro pomeridiano di ronda, i malcapitati fumatori caduti sotto le sue grinfie furono due, fratello e sorella. Se ne stavano seduti, acquattati dietro un cespuglio, intenti a tirare boccate da una sigaretta,  passandosela l’un l’altra.

- Mi brucia la gola, ma mi piace - diceva la sorella  più giovane di due anni e ancora inesperta nell’arte del fumo.

- Non devi ingoiarlo, Mary. Lo aspiri e poi lo soffi via, - le insegnava il fratello. Lui era un veterano: già da alcuni anni fumava di nascosto. Aveva iniziato nei gabinetti della scuola, il luogo ideale per apprendere l’arte del fumo.

L’ombra del sergente si proiettò su di loro e li fece sobbalzare. Conoscevano il sergente Applebottom e sapevano pure che era un nemico acerrimo dei fumatori. Lo intuirono subito:  per loro la pacchia era finita perché li avrebbe accompagnati a casa, tenendoli per un’orecchia, e avrebbe ‘fatto la spia’ ai genitori.  “Guai a non finire”, pensarono entrambi mentre, stando come angeli custodi ai lati dell’inflessibile tutore della legge, tentavano di mantenere il passo mentre il   sergente se li trascinava dietro, tenendoli per un orecchio.

Dopo la consegna ai genitori, la reprimenda e il castigo, Mary e John, imbufaliti con gli adulti in generale e col sergente in particolare, decisero di vendicarsi. Si dice: non esiste persona più vendicativa di una donna tradita e abbandonata. Un errore: ci si dimentica sempre dei ragazzini quando vengono puniti ingiustamente o per colpe lievi; e, a ben pensarci, che cosa c’è di più lieve del soffiare fumo dalla bocca?

John e Mary sapevano come fare, l’avevano già fatto. Bastavano solo alcune sterline e in qualche modo se le sarebbero procurate.

 

************

Se nei giorni seguenti il sergente Applebottom pensò di non aver più nulla da spartire con i fantasmi, si sbagliava. Aveva accantonato il caso del tamburino e della donna, pensando  si fosse trattato di allucinazioni, quando altri fatti attirarono la sua attenzione. Pur non essendo stato coinvolto direttamente, gli raccontarono della presenza in una casa  della contea di uno strano essere fluttuante a mezz’aria il quale aveva spaventato una intera famiglia. E inoltre in una villetta isolata gli inquilini avevano sentito rumor di catene, sospiri e il capo famiglia aveva visto uno spettro vagare per le stanze e attraversare i muri.

Probabilmente si trattava di una psicosi collettiva! Per fortuna chi aveva assistito ai   fenomeni e aveva visto i fantasmi era restio a parlarne per cui i fatti rimanevano circoscritti, isolati e solo la polizia ne era a conoscenza. Tra i più informati c’era, ovviamente,  il  sovrintendente Wolf. Ma lui affermava di non credere all’esistenza dei fantasmi. Comunque  la faccenda si presentava troppo ghiotta per non tentare di coinvolgere il sergente Applebottom, costringendolo ad occuparsi di qualcosa di evanescente, di etereo come un fantasma. Per cui tutti i casi in cui era presente un fantasma finivano sulla scrivania del sergente e il poveretto si arrovellava, incapace di uscire dalla pania in cui il sovrintendente l’aveva avvolto.

La sua rabbia raggiunse il colmo quando un fantasma apparve pure a lui.

Era rientrato dal primo turno di notte. Si sentiva stanco e non vedeva l’ora di sdraiarsi e di farsi una bella dormita. Ma, prima di finire tra le lenzuola, gli occorreva un mezzo bicchiere di bourbon. Stava chinato sul mobile bar, intento a versarselo, quando un improvviso rumor di catene alle sue spalle e urla forsennate lo fecero sobbalzare. Il bicchiere cadde a terra e si frantumò. Il sergente si voltò di scatto e rimase a bocca aperta.

Davanti a lui stava una donna vecchia, con catene alle mani e ai piedi. Le agitava e emetteva urla. I suoi vestiti fumavano; aveva i capelli strinati dalle fiamme e un puzzo orrendo di bruciato sembrava emanare da tutta la sua persona. Il volto era nero e sembrava scavato e devastato da lingue di fuoco. I denti brillavano là dove un tempo c’erano le labbra. Una visione orrenda capace di spaventare chiunque. Purtroppo per lo spettro quella notte il sergente Applebottom era stanco, aveva bisogno di dormire, aveva lasciato cadere a terra un bicchiere col suo liquore preferito e per di più di fantasmi ne aveva fin sopra i capelli.  No, non era la notte adatta per cedere allo spavento.

 Usando quella che in medicina si suole definire col nome di terapia omeopatica, cioè curare usando per l’ammalato medicine che in una persona sana dovrebbero provocare i sintomi della malattia da combattere, il sergente rivolgendosi a quella macabra apparizione,  cominciò a emettere urla da forsennato, ad agitarsi. Poi, afferrata una seggiola e, roteandola sopra il capo a mo’ di clava, si avventò per assalire  la vecchia con una  furia incredibile. Non pensava minimamente di poterle far del male o di produrre danni, perché la sedia passava attraverso il fantasma  senza incontrare resistenza, ma con ogni probabilità per quell’entità non doveva essere affatto piacevole perchè, presa alla sprovvista, cercava solo di evitare i colpi e alla fine si dileguò quasi fosse nebbia al sole.

- Adesso basta! - mugolò il sergente, posando a terra la sedia e sedendosi su di essa. - Devo trovare una risposta. Così non si può andare avanti!

Si ricordò di un suo conoscente, il canonico della chiesa presbiteriana col quale una volta aveva parlato di stregoneria, non ricordava più per quale ragione. Il canonico gli aveva confessato che la materia era di suo interesse e aveva una nutrita biblioteca sull’argomento.

Il sonno e la fatica, dopo lo scontro con l’apparizione notturna, si erano dissolti. La voglia di bourbon no. Guardò il bicchiere rotto a terra, la macchia formatasi e decise due cose: prima una bella bevuta del suo liquore preferito e poi una visita al canonico.  Non gli importava se l’ora era tarda e se il canonico era già a letto. Si sarebbe alzato, pensò: “Sveglio io, sveglio lui, svegli tutti!”

Ma non gli toccò svegliarlo, perché, giunto in prossimità della chiesa, vide le finestre dello studio del canonico illuminate.

- Scusi l’ora tarda, - disse all’uomo venuto ad aprirgli la porta, - ma non posso resistere senza una spiegazione e solo lei può darmela.

- Non mi disturba affatto,  sergente,  non mi disturba affatto. Stavo cercando di decifrare una vecchia pergamena semisbiadita e anch’io, finché non l’avrò decifrata  non sarò contento. Ma mi dica, perché vuole vedermi?

Il sergente Applebottom non si perse in preamboli e cominciò subito a raccontare la visione di O-Hara; poi passò al fantasma di Foller; riassunse alcuni casi di fantasmi di cui si erano occupati i suoi colleghi, poi finiti sulla sua scrivania  e concluse con la recente visita notturna della vecchia.  Poi tacque, guardando il canonico.

- Non mi è nuovo, sergente Applebottom, - cominciò il canonico - non mi è nuovo che nella nostra comunità si siano verificate apparizioni di entità astrali, ma non pensavo in numero così rilevante. Pensavo a qualche caso isolato, non ad una invasione. Sembra che i fantasmi di diverse nazioni si siano radunati a Chelsea per qualche convegno. Ma oltre ad essere una vicenda a dir poco strana, a mio parere non dovrebbe neppure essere possibile.

- Perché non dovrebbe essere  possibile?

- Perché i fantasmi sono esseri abitudinari e legati all’ambiente in cui sono apparsi per la prima volta. Non ho mai letto né sentito di fantasmi vaganti da una nazione all’altra. Non esistono fantasmi giramondo.

- Non la seguo.

- Un fantasma non si allontana mai dal castello, dalla casa, dal cimitero in cui vive. Non se ne va in giro come un comune mortale. I casi da lei descritti e i relativi fantasmi sono entità note ai cultori della materia, sono tutti fantasmi simili ai vini DOC, a Denominazione di Origine Controllata, legati cioè ad una determinata località. Prenda il tamburino. E’ un caso molto noto. Il suo nome è Peter, Peter Chanoix. Era tamburino di  una guarnigione di soldati acquartierata in un castello nei dintorni di Calais e ogni giorno, al mattino, a mezzogiorno, a sera, doveva battere sul suo tamburo per scandire l’inizio del lavoro, le pause, l’ora di pranzo e di cena. La guarnigione ospitata in quel castello aveva il compito di combattere i trafficanti di alcool i quali, collegati con una banda di briganti, terrorizzavano la regione. Un giorno i briganti catturarono il povero Peter e gli mozzarono il capo. Da quel giorno il suo fantasma vaga nel castello suonando il tamburo e portando la sua testa sotto il braccio.  Lo spettro femminile - continuò ad elencare il canonico - che ha fatto cadere di dosso tutti i vestiti al signor Foller, è originario della Bretagna e, guarda caso, si materializza qualche volta nei pressi dei ruderi di un castello, ma solo quando si trovano sarti a passare da quelle parti. Era il fantasma di una nobildonna la quale nel 1710 stava per convolare a nozze con un ricco signore del luogo. Mentre il corteo nuziale entrava in chiesa,  il lungo strascico della sposa rimase impigliato in un banco e il vestito le si scucì per tutta la schiena, mettendo a nudo un particolare tatuaggio. La donna non aveva mai confessato a nessuno di avere sulla schiena il marchio di Satana...

- E che cos’è? - chiese il sergente incuriosito.

- E’ un pentacolo: una stella nera a cinque punte, racchiusa in un cerchio rosso. A quella vista il ricco signore rifiutò di sposarsi e la promessa sposa fuggì. Quella notte la sarta che aveva cucito il vestito fu uccisa, si presume dalla mancata sposa, e due giorni dopo, ai piedi di una rupe su cui sorgevano i ruderi di un castello, fu ritrovato il corpo della sposa ripudiata. Da allora il suo fantasma vaga intorno al castello, ululando nella notte; ma lo si vede solo quando passa qualcuno  abile nel cucire o un mercante di stoffe.  Cosa facesse sulla piazza del mercato di Chelsea, non so proprio come spiegarlo.

- E quella megera da me vista stanotte in casa mia?

- Anche quella è una DOC, una DOC d’eccezione. Attenda un attimo: le sarò preciso.

          Il canonico si diresse verso uno scaffale pieno di libri, ne prese uno e lo sfogliò.

- Ecco qui: ho trovato! Lo sapevo! Kolosimo lo ha riportato nel suo libro “Cittadini delle tenebre”. Le leggo il passo. “Due secoli fa, a Great Leighs venne arsa sul rogo una madama nota come ‘la strega di Scrapfaggot Green’ e sulle sue ceneri fu posto, secondo una diffusa usanza, un grosso macigno, affinché lo spirito dell’incantatrice non se ne uscisse dalla tomba per combinare guai. Tutto filò liscio sino al 1944, quando a Great Leighs sorse una base americana. I bulldozers spianarono tutto, macigno sepolcrale compreso, e la strega tornò in circolazione. La degna signora cominciò a vendicarsi delle scottature subite suonando le campane della chiesa, trasportando branchi di pecore oltre staccionate che gli ovini non avrebbero in alcun modo potuto superare, sradicando alberi e pali telegrafici per scaraventarli come fuscelli a distanze incredibili”. Questo è il fantasma  lei apparso stanotte.

- Ma io non ho nulla da spartire con la strega di Great Leighs?

- Ah, questo non lo so, amico mio! Probabilmente col suo lavoro avrà  stuzzicato qualche persona dotata di poteri medianici e quella ha scatenato contro di lei la strega col solo scopo di spaventarla. I fantasmi si materializzano per lo più di fronte a persone paurose oppure a persone legate in qualche modo alla causa della morte. La signora dei vestiti scuciti nel caso del signor Foller, che è un sarto; il tamburino senza testa che combatteva contro i briganti e i contrabbandieri di alcool nel caso di quell’ubriacone di O-Hara,  Dio lo tenga lontano dalla birra!

- E nel mio caso?

- Non saprei. Ha forse avuto qualche diverbio con i Vigili del Fuoco?

- Assolutamente no.

- Ha arrestato qualche fuochista? Qualche cuoco? Qualcuno legato in qualche modo col fuoco, con le fiamme?

- No, ho solo tirato le orecchie a due ragazzini sorpresi a fumare, ma quelli  non c’entrano con i fantasmi. - Rimase un istante soprappensiero e poi chiese: - Secondo lei, dureranno ancora  a lungo queste apparizioni?

- Non glielo so dire, sergente: sono apparizioni anomale, dovute a qualcuno in possesso del potere di evocarle. E’ impossibile fare previsioni.

- Ho capito, signor canonico. La grana è della polizia e toccherà a noi risolverla. La ringrazio, comunque,  per le spiegazioni e le do la buona notte.

Il canonico ritornò ad esaminare la sua pergamena e il sergente uscì nella notte.

 

************

Il mattino seguente un sole malato lo investì non appena aprì la porta di casa per recarsi al lavoro. Quella notte aveva dormito poco e avrebbe continuato a starsene a letto se non avesse temuto la lavata di capo del sovrintendente Wolf  qualora non si fosse presentato al lavoro. Quando arrivava con qualche minuto di ritardo quell’essere maledetto, peggiore di un negriero,  lo attendeva nel corridoio, pronto ad aggredirlo.

- Buongiorno, sergente. Ha dormito bene?

Il sergente Applebottom si voltò e vide i due fratelli John e Mary, fermi con la cartella a tracolla. Lo guardavano in un modo curioso e sorridevano.

- Perché me lo chiedete?

- Così: ci preme la sua salute.

- Allora tranquillizzatevi: ho dormito saporitamente. E voi?

   I due si guardarono stupiti.

- Noi no, purtroppo - rispose per prima Mary. - Papà ha rifilato alcune bacchettate sul sedere di mio fratello. Mamma, invece, mi ha punito chiudendo nell’armadio tutti i miei vestiti più belli. E per di più hanno sospeso la paghetta settimanale ad entrambi.

- Non dovevate mettervi a fumare. Il fumo fa male alla salute e lo sapete.

- Fa male anche non dormire abbastanza la notte. Ma ha veramente dormito bene, stanotte? - chiese di nuovo John.

  Il sergente non riusciva a capire l’insistenza su come avesse trascorso la notte, ma decise di stare al gioco e rispose:

- Divinamente, John, divinamente.    

John  trasse in disparte la sorella, si chinò verso di lei e le  bisbigliò in un orecchio:

- Te l’avevo detto! Con lui non avrebbe funzionato. E’ uno della polizia e quelli sono abituati a tutto.

- Che cosa non avrebbe funzionato, John? - lo apostrofò rudemente il sergente niente affatto duro d’orecchio Aveva chiaramente udito le parole del ragazzo sebbene fossero state appena sussurrate.

- Niente, sergente. Son cose da ragazzi.

- Mi  piacerebbe conoscerle anche se sono un adulto - disse, allungando le sue manone verso le orecchie dei due.

- No, per favore no, sergente, le orecchie no! - disse Mary. - Le abbiamo ancora rosse dalla volta scorsa.

- Allora andiamoci a sedere su quella panchina e parliamo un poco, che ne dite?

       Mogi, mogi i due ragazzini si avviarono verso la panchina e si sedettero. Il sergente si sedette in mezzo.

- Dunque, fuori il rospo:  cosa che non avrebbe funzionato con me?

- Credevamo che non fosse allergico ai fantasmi, sergente Applebottom, - disse Mary, - e si spaventasse a morte al solo vederli, così...

- ... così - intervenne John - abbiamo pensato di mandargliene uno stanotte a farle visita...

- Che cosa mi avete mandato? - chiese il sergente trasecolato.

- Un fantasma, il fantasma di una vecchia strega, non l’ha visto?

- Qui sono io a fare le domande, amico. E come avete fatto a mandarmi la strega?

- Per la verità non l’abbiamo mandata noi: ci ha pensato l’agenzia.

- Quale agenzia?

       Senza rispondere, il ragazzo si mise lo zainetto sulle ginocchia, vi frugò dentro, ne trasse un pezzo di carta ritagliato da un giornale e lo porse al sergente. Si trattava di un trafiletto pubblicitario su cui stava scritto:

 

Uomini, donne, vecchi, bambini

AVETE PROBLEMI?

QUALCOSA VI ASSILLA?

Non rimandate. Veniteci a trovare.

L’agenzia AFFARI SEGRETI

risolve tutto, anche  l’ impossibile.

Via delle Centurie, 32. Tel.13.17.13

- Dove lo avete trovato?

- Su un giornalino. Sa, sergente, anche noi abbiamo i nostri problemi.

- Come vendicarvi di chi vi tira ogni tanto le orecchie?- disse sorridendo.

- Be’, sì - confessò Mary. - Abbiamo chiesto al signor Nostradamus di mandarle un fantasma; abbiamo pagato la quota e quello ha pensato a tutto.

       Sentendo suonare la prima campanella della scuola, il sergente ritenne opportuno lasciar liberi i fratelli. Al signor Nostradamus ci avrebbe pensato lui. Guardò Mary e John allontanarsi di corsa, si alzò dalla panchina e si avviò verso Via delle Centurie, una via veramente adatta ad uno di nome Nostradamus.

       Al numero 32 non c’era alcuna agenzia; c’era, invece, un negozio di antiquariato, zeppo di mobili antichi e di cianfrusaglie, conservate accuratamente dai proprietari e poi vendute, per chissà quale motivo, ad un negozio di antiquariato. Il signor Nostradamus, contrariamente a quanto il sergente Applebottom si era immaginato, non era un vecchio cadente, barbuto, con palandrana e un capello a cono in testa. Era un uomo di mezz’età, con una pancetta incipiente che tendeva i bottoni del gilé nero. Indossava una giacca a quadretti bianchi e neri e portava calzoni a zampa di elefante.

- Desidera? - lo accolse il signor Nostradamus. - Se vuole arredare la sua casa con qualche mobile particolare questo  negozio appagherà tutte le sue esigenze.

- No: i mobili vecchi non mi interessano.

- Guardi, - lo corresse il signor Nostradamus, - io vendo solo mobili antichi, non vecchi. Quelli vecchi li lascio ai rigattieri.

- Comunque non sono venuto per comprar mobili; sono venuto per questo. - E così dicendo, gli  mostrò il trafiletto.

- Ho capito. Si accomodi nel mio ufficio. Di là tratto gli affari dell’agenzia. Le faccio strada.

       L’antiquario si diresse verso una porta di mogano, l’aprì, si fece da parte per fare entrare il visitatore e gli indicò una sedia posta davanti ad una scrivania.

- Deve sapere, signor...?

- Applebottom, sergente di polizia - precisò, calcando la voce sulla parola ‘polizia’.

       La cosa non sembrò minimamente impressionare l’antiquario.

- Deve sapere, signor Applebottom, - riprese - che il mio mestiere è quello di antiquario, mentre mio padre, Dio l’abbia  in gloria, aveva una agenzia del tutto particolare. Alla sua morte, io l’ho rilevata e ho continuato a tenerla viva perché è una delle poche esistenti nel Regno Unito.

- Cos’ha per essere tanto particolare?

- Procura e  affitta fantasmi a chi lo desidera.

- Singolare! - esclamò il sergente. - E gli affari come vanno?

- Ottimamente, anche perché il nostro vecchio continente pullula di  fantasmi, mentre l’America, l’Australia, l’Asia ne sono carenti. Noi europei abbiamo la fortuna di avere una infinità di castelli, di vecchie case infestate da fantasmi. Come lei forse saprà, i fantasmi sono restii ad abbandonare le loro dimore e non lo farebbero mai se non vi fossero obbligati.

- Obbligati in che modo?

- Obbligati dai loro vizietti. Tutti ne hanno: anche i fantasmi! Ci sono fantasmi cui piace fumare sigari prelibati, ad altri piace il té profumato, la cioccolata, il gin, il wisky, le essenze pregiate, la birra, il rum: tutte cose parecchio costose e per le quali occorre denaro... e i fantasmi non ne hanno. La mia agenzia offre loro l’opportunità di procurarselo in modo semplice e senza abbandonare definitivamente le loro dimore. Basta una breve apparizione là dove dico io, fanno il loro lavoro, quello di spaventare la gente, e poi  possono ritornare ai loro rispettivi alloggi. Semplice no?

- Geniale, - disse il sergente.  - E come se li procura i fantasmi?

- Il mio mestiere di antiquario mi costringe a girare per tutte le località del Regno Unito, in particolar modo di visitare spesso la Scozia dove i castelli sono numerosi, i mobili antichi abbondano e i fantasmi pure. Sovente e volentieri mi reco anche in Francia. Pensi a tutti i castelli della Loira. Vado in Italia, in Austria, in Germania. Ultimamente sono stato in Transilvania dove ho scoperto fantasmi eccezionali. Io li incontro, stipulo con loro un contrattino vantaggioso per entrambi, li inserisco nel mio catalogo e aspetto la richiesta di qualche cliente. Il contatto con loro è immediato: avviene per via medianica. Io sono un medium naturale, mi basta un attimo di concentrazione per reperire il fantasma adatto a quel determinato lavoro richiesto dal cliente.

- E per trovare i clienti?

- Per quelli basta la pubblicità su qualche giornale. La mia agenzia è nota in tutto il mondo. Lei non immagina quanta gente in questa fine del millennio crede ancora ai fantasmi. Tutti ne hanno bisogno. Persino lei - aggiunse, guardando di sottecchi il sergente alquanto pensieroso.

- Non le sembra, diciamo pure inopportuno, coinvolgere anche i bambini in questo suo traffico?

- E perché? I bambini sono già predisposti ad accettare i fantasmi perché la loro fantasia è senza confini. Una buona fetta dei miei affari li tratto con bambini, ai quali faccio lo sconto del cinquanta per cento sul prezzo di affitto.

- E quanto costa affittare un fantasma?

- Dieci sterline per apparizione. Cinque per i bambini.

“Un prezzo onesto” pensò il sergente.

- Ci sono mai stati incidenti provocati dai fantasmi?

- Le dirò, sergente, c’è stato qualche infarto di poco conto; qualche rottura di arti inferiori per  chi fugge a precipizio senza guardare dove mette i piedi; qualche caduta per le scale; capelli  diventati improvvisamente bianchi per la paura; mal di visceri e conseguente uso del gabinetto per alcuni giorni. Robetta, insomma.

- Lei me la chiama robetta?  E se qualcuno si rivolge alla polizia?

- Perché, lei non è forse qui per qualche denuncia? Mi lasci  indovinare: sono i piccoli John e Mary la causa della sua presenza qui. Li ha torchiati col terzo grado per farli confessare? - disse, ridendo. - In fondo le hanno solo mandato la strega di Great Leighs. Una innocua vecchietta da me consigliata quando ho saputo del rimprovero a causa del  fumo e quella povera strega di fumo ne  ingoiò parecchio quando la bruciarono sul rogo. Probabilmente la vecchia in questo momento si starà scolando pinte di birra. A lei piace la birra, dice che controbatte l’arsura delle fiamme.  Tornando alla polizia, posso fare qualcosa per lei? La mia agenzia è in regola. Pago regolarmente il fisco; tengo i registri in ordine perfetto. Gli infarti e gli incidenti sono cosa di tutti i giorni e accadono anche indipendentemente dalla presenza di fantasmi. No, nessuno potrà mai accusarmi di qualcosa. Se lo vede il signor Murphy, il giudice di questa contea, agnostico per natura e incapace di credere all’esistenza dei fantasmi (anche se io non ne sono sicuro),  portarmi sul banco degli imputati con l’accusa di aver assoldato fantasmi a scopo di far paura alla gente! Sarebbe la fine della sua carriera tra le risate dei suoi colleghi. No, sergente Applebottom, io sono in una botte di ferro.

- Perché dice di non credere all’agnosticità del giudice Murphy?

- Tutti hanno paura dei fantasmi, sergente! Anche i giudici più riluttanti a crederci! - asserì con sicurezza il signor Nostradamus.

       Il ricordo del ghigno divertito apparso sul volto del suo superiore, il sovrintendente Wolf, quando gli aveva ordinato di occuparsi di fantasmi, risvegliò il rancore del sergente. E una idea, bizzarra (ma non tanto) cominciò a prendere corpo nella sua mente.

- Lei ha accennato ad un catalogo. Dove lo custodisce?

       L’antiquario aprì un cassetto, ne trasse un volume rilegato in marocchino rosso e lo  posò sul tavolo. Sulla copertina  in lettere nere c’era scritto: “Book Master Ghost’s”. Nell’aprirlo l’uomo spiegò:

- Le spiego, sergente: per ogni contratto firmato, la controparte, cioè il fantasma, mi rilascia una sua fotografia recante, sul retro, il suo curriculum, la qualcosa mi permette di consigliare i clienti e anche di offrire loro una possibilità di scelta. Oggi i fantasmi  più richiesti sono quelli simili ai personaggi horror di certi film. Non glielo nascondo, ma qualche fantasma modifica in peggio il suo aspetto per avere più possibilità di essere scelto.

       Mentre l’antiquario spiegava, il sergente Applebottom si era impadronito del catalogo e lo andava sfogliando. Conteneva fantasmi di tutti i tipi: andavano dagli ingenui fantasmi avvolti in bianche lenzuola, a quelli più truculenti, orridi, repellenti che grondavano sangue, avevano gli occhi venati di rosso fuori delle orbite, le guance flaccide con la carne molliccia e pendente, mani e corpo ischeletriti. Dopo averlo sfogliato completamente, il sergente trasse tre schede e le porse al signor Nostradamus.

- Bella scelta, sergente! Se vuol far venire un infarto a qualcuno non c’è nulla di meglio.

       Il sergente pensò al rapporto sui fantasmi richiestogli dal sovrintendente Wolf. Gli aveva ordinato di redigerlo subito, ma lui pensò di tergiversare per almeno due giorni. Le scuse non gli mancavano. Aveva bisogno di due giorni perchè il suo piano andasse a buon fine. Ultimamente era venuto a conoscenza di un fatto particolare. Il sovrintendente Wolf, sebbene  non lo avesse mai confessato apertamente, aveva un sacro terrore per il numero tredici.

- Che giorno è oggi? - chiese.

- Giovedì dodici.

- Quindi, domani è venerdì tredici, vero?

- Non c’è dubbio.

- Potrebbe mandare all’indirizzo che le fornirò questi tre fantasmi per domani notte?

       Scrisse l’indirizzo su un foglio e glielo porse.

- Non c’è problema: gliel’ho detto. Io mi metto in contatto medianico con loro e si precipiteranno. Da un po’ di tempo nessuno dei tre viene richiesto, forse perché sono troppo orribili. Saranno soddisfatti di esser finalmente scelti da qualcuno e non gli dispiacerà  di allontanarsi per una breve vacanza dalla loro dimora.

- Allora, signor Nostradamus, rimaniamo d’accordo: venerdì tredici a mezzanotte lei manderà i tre fantasmi a questo indirizzo. - Prese un foglio di carta, vi scrisse sopra l’indirizzo del sovrintendente Wolf e lo consegnò all’antiquario.

- Quanto?

- Trenta sterline.

       Il sergente Applebottom trasse dal portafoglio trenta sterline e, sebbene fosse di origine scozzese, le consegnò senza rimpianto al signor Nostradamus.

       Mentre si avviava al Posto di Polizia, pensava ai dettagli da inserire nel rapporto sui fantasmi. Lo avrebbe consegnato al sovrintendente Wolf nella mattinata di sabato... sempre che al sovrintendente non fosse venuto un infarto nella notte di venerdì tredici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                   NON SI UCCIDONO GLI EDITORI

                                   

 

“L’uomo gli voltava le spalle. Ne era  sicuro, non avrebbe mai cercato di ucciderlo, colpendolo mentre non lo guardava negli occhi. Era troppo gentiluomo per farlo. Ma non sempre le impressioni sono giuste e quando l’attizzatoio gli si abbatté sulla nuca, ebbe solo il tempo di atteggiare il volto ad una smorfia di sorpresa. Cadde a terra; una larga chiazza di sangue si allargò attorno alla sua testa e , dopo alcuni sussulti, morì.”

 

- E così abbiamo il primo morto ! - esclamò a voce alta e con un  sospiro di soddisfazione Nero Grant, considerato uno dei più abili giallisti viventi. Si alzò dalla seggiola e si avvicinò alla finestra, stiracchiandosi. Da ore stava seduto alla macchina per scrivere. L’estro gli era venuto all’improvviso e ne aveva approfittato per imbastire la trama, delineare i personaggi, creare l’ambiente, la suspense necessaria  alla trama di un giallo e per cominciare a spargere indizi a carico dei vari protagonisti.

            Nero Grant, aveva ben precisato un critico, lavorava a ondate. Era capace di scrivere di getto due o tre capitoli di un libro per poi interrompersi per mancanza di idee. Quando iniziava un romanzo non sapeva mai chi sarebbe stato il colpevole. Un sistema adatto a stuzzicare la sua fantasia e a permettergli di lasciare il lettore in sospeso fino alla soluzione definitiva e inaspettata.

            Gli stava accadendo la stessa cosa anche per la trama che stava intessendo. L’idea base era una serie di delitti legati ad un manoscritto del Quattrocento trovato da un frate bibliotecario in una vecchia abbazia ed acquistato da un magnate del petrolio intenzionato a farlo pubblicare. Attorno al manoscritto, opera di un oscuro scrittore esperto in magia e stregoneria, ruotava una vicenda di furti, ricatti e, ovviamente, delitti.

            Ora  la narrazione era giunta al primo delitto e Grant si sentì  svuotato, come una batteria scaricata, e doveva attendere la naturale ricarica che sarebbe venuta solo dopo aver riletto e riesaminato quanto aveva scritto, quasi a riprendere la spinta per il seguito.

            Si avvicinò alla finestra per guardare le luci delle case di fronte e i fanali della via sottostante in quel momento deserta, tranne la presenza di un metronotte  seduto su un parapetto, intento ad assaporare una  sigaretta.

            Osservare il panorama notturno gli era sempre piaciuto da quando aveva preso l’abitudine di dormire di giorno e di scrivere di notte, in piena tranquillità, nel silenzio della strada, rotto solo dal passaggio di qualche taxi, di qualche macchina della polizia o di qualche ambulanza. La notte gli schiariva le idee, lo aiutava a pensare.

            Il rauco suono del cicalino della porta lo distolse dai suoi pensieri. Guardò l’orologio; segnava le due e trenta.

- E chi  si permette di rompermi le scatole a quest’ora? - mormorò tra sé e sé.

            Pensando a qualche vicino di casa in difficoltà e bisognoso di aiuto, andò ad aprire.

            Si trovò di fronte ad un uomo corpulento, brizzolato, con neri baffetti che contrastavano col colore dei capelli, un vestito grigio, un gilé a quadretti, il cappello in mano.

- Desidera? - chiese Grant.

- Ho il piacere di parlare con lo scrittore di gialli Nero Grant?

- In persona.

- Mi fa accomodare? Dovrei fare due chiacchiere con lei a proposito del libro che sta scrivendo.

            Lo scrittore rimase un istante interdetto, poi, incuriosito, fece  cenno al visitatore di entrare.

- Si accomodi pure, - lo invitò. E non appena lo vide seduto su una poltrona  di fronte alla scrivania, gli chiese: - Come sa che sto scrivendo un libro?

- Non è forse il suo mestiere? Comunque,  me lo ha detto il suo editore. Io sono in ottimi rapporti con tutti gli editori.

- Ho capito: lei è un agente letterario. Ma prima di avanzare qualche proposta, signor...

- Water, Smith Water.

- Dicevo, prima di avanzare qualche proposta, signor Water, la informo di essere già tutelato da un agente letterario, con cui ho firmato un contratto...

- Oh no! - signor Grant. - Lei è in errore. Non sono un agente letterario. Non sono venuto per questo. Io sono un libraio.

- Non sarà mica venuto a quest’ora di notte per farsi firmare un autografo, spero! - disse lo scrittore sorridendo e guardando fisso quello strano individuo. Gli pareva di averlo già veduto o incontrato da  qualche parte, sebbene non ricordasse dove.

- No, sono venuto esclusivamente per parlare del  suo nuovo libro. Ora che c’è scappato il morto, la cosa comincia a farsi interessante...

- Come fa a conoscere questo particolare  se ho appena finito di scrivere il capitolo?

- Gliel’ho detto: me ne ha parlato il suo editore.

- Ma il mio editore non sapeva della conclusione del primo capitolo e neppure dell’avvenuto delitto. Io non gliene ho mai accennato.

- Dettaglio di poca importanza, signor Grant,. Piuttosto, vorrei una spiegazione: come mai lei sta accumulando tanti indizi sul conto di uno dei  personaggi della storia: per la precisione sull’editore.

- Quale editore? - chiese Grant soprappensiero.

- Ma Sir Moreland, il personaggio del suo libro: non certo il suo editore personale.

- Signor Water, - disse lo scrittore, evidentemente seccato per tutte quelle osservazioni, - non sono uso discutere i miei libri con estranei, almeno non prima di averli scritti e non certo alle due di notte.

- Mi spiace di averla importunata, amico mio. Deve, comunque, tener presente un fattore essenziale: tutti i suoi lettori, ed in particolar modo i suoi personaggi, hanno il diritto a spiegazioni per i ruoli da lei attribuiti e per le azioni che li obbliga a compiere. Troppo comodo costringere gli altri ad attuare quanto le passa per la testa! Mi dispiace se ho toccato la sua suscettibilità. Verrò in un altro momento. Ma si ricordi: non accumuli troppi indizi sull’editore Sir Moreland. E’ un mio intimo amico. Mi creda, signor Grant, non è opportuno né consigliabile farlo. Potrebbe pentirsene amaramente. Ora la saluto; e non si disturbi ad accompagnarmi. Conosco la strada.

            L’individuo si alzò dalla poltrona, si diresse verso la porta e uscì.

            Grant rimase un istante perplesso e poi si precipitò verso l’uscio. Lo spalancò e guardò sul ballatoio. Non vide nessuno.  Si sporse dalla ringhiera della scala, poi guardò verso l’alto, ma non vide l’uomo corpulento né scendere né salire.

“ Possibile - si disse - non può aver già disceso le scale ed essere uscito per la strada?”

            Grant scese a precipizio le due rampe, raggiunse il portone e uscì.

- Bella nottata, signor  Grant! E’ in cerca di ispirazione? - disse una voce proveniente dall’ombra di un albero

- ‘notte a lei, signor Murdgrave - rispose lo scrittore, vedendo il metronotte, un suo ammiratore, appoggiato al manubrio della bicicletta. - E’ da molto che si trova qui?

- Una mezz’oretta più o meno.

- Ha notato qualcuno uscire dal mio portone?

- No, non ho visto nessuno. Nessuno ama passeggiare a quest’ora di notte, signor Grant!

- Allora non ha visto un uomo di una certa età, sui cinquanta circa, capelli brizzolati, giacca grigia e gilé a quadretti...

- Non ho visto nessuno - ribadì il metronotte. -  Perché lo vuole sapere?

- Curiosità. Ho sentito suonare all’uscio e quando ho aperto ho intravisto un individuo scendere le scale - mentì lo scrittore.

- No, dal portone non è uscito nessuno, se no l’avrei visto di sicuro.  Probabilmente sarà qualche inquilino del caseggiato: ha suonato alla sua porta per chiederle qualcosa e poi ha rinunciato ed è ritornato nel suo appartamento.

- Di certo sarà come dice lei, signor Murdgrave. Grazie e buona notte.

            Mentre risaliva le scale, pensò agli inquilini del caseggiato. Li conosceva tutti, ma non ce n’era uno i cui connotati corrispondessero a quelli del signor Water.

            Si sedette alla scrivania per tentare di iniziare un nuovo capitolo, ma quello strano visitatore gli aveva tolto ogni pensiero. Le idee se n’erano andate e per quella notte non avrebbe scritto altro. Preferì rileggere alcune parti del suo libro. Correggere e limare era un lavoro oltremodo necessario.

            Cominciò a leggere. Cancellò, aggiunse, corresse, cercò qualche sinonimo per evitare ripetizioni di termini. Sentiva gli occhi farsi sempre più pesanti per la fatica, ma decise di leggere ancora qualche frase prima di smettere.

 

“L’editore  Sir Moreland  si fermò di   fronte alla libreria e guardò nella vetrina. Ormai era diventata una abitudine osservare quanti libri da lui stampati venivano esposti ed era anche un modo per sapere se il libraio gradiva le sue produzioni, privilegiandole con una costante esposizione. Pareva di sì perché tutte le ultime novità stampate dalla sua casa erano esposte.”

 

            A Grant non piacque la parola  ‘stampate’; la cancellò e la sostituì con ‘pubblicate’, poi proseguì la lettura.

 

“Entrò per fare quattro chiacchiere con il libraio, mister Bridgewater. Non lo conosceva, ma aveva letto il suo nome scritto a caratteri cubitali sulla vetrina della libreria.  Bridgewater, in giacca grigia, cravatta e gilé a quadretti, era un uomo corpulento sui cinquanta. Una barbetta nera  contrastava visibilmente con i capelli brizzolati. Udendo la campanella della porta, il libraio alzò il capo  e gli si fece incontro. Forse lo aveva scambiato per un probabile acquirente...

 

            Grant si fermò a metà frase per  rileggere le ultime righe.

            Ecco perché la fisionomia del visitatore notturno gli era nota! Non si trattava di una persona  conosciuta nella realtà, ma di un personaggio della sua fantasia: di una sua creazione. Persino il nome con cui si era presentato, anche se accorciato, gli suonava familiare. Aveva detto di chiamarsi Water, mentre nel libro si chiamava Bridgewater.

            Grant rimase a bocca aperta.

            A farle visita quella notte era stato uno dei suoi personaggi!

            Ci ripensò e si diede del pazzo.

- Sarà meglio scrivere di giorno - concluse, ridendo tra sé e sé - almeno alla luce del sole non mi vengono gli incubi.

            Sapeva di non poter mantenere quella promessa perché non avrebbe mai rinunciato alla sua abitudine di scrivere di notte.

                                               ***********

            E, infatti, continuò.

Delitti attorno ad un manoscritto” (per ora era il titolo provvisorio), contrariamente ai suoi romanzi precedenti,  procedeva speditamente. Probabilmente il visitatore notturno lo aveva stimolato, aprendogli nuovi orizzonti.

            Quando iniziava un romanzo, Grant non sapeva mai quale sarebbe stata la conclusione. Partiva con una scaletta degli avvenimenti, una specie di traccia da seguire, di sentiero da percorrere, ma lo sapeva in precedenza, alla prima occasione, avrebbe deviato dal sentiero tracciato per seguirne un altro più allettante. Qualche volta (raramente) gli era capitato di iniziare a scrivere avendo già in mente il colpevole di delitti, furti, rapimenti legati alla trama, ma aveva sempre cambiato idea strada facendo. Forse era la ragione per cui amava disseminare indizi su tutti i personaggi per avere la possibilità di scegliere quando sarebbe arrivato alla stretta finale.

            All’inizio di “Delitti attorno ad un manoscritto” aveva pensato di attribuire tutti i misfatti ad un oscuro fraticello del convento dove il manoscritto era stato ritrovato, ma il signor Water, col suo comportamento e la sua intromissione nella conduzione della trama, lo aveva stimolato, quasi sfidato a non colpevolizzare l’editore Moreland. E nelle pagine scritte in seguito, sebbene abilmente e accuratamente mimetizzati, sull’editore cominciarono ad accumularsi indizi larvati.

                                   **************

            Il libraio Water si ripresentò non appena Grant descrisse la scoperta in convento del corpo esanime di un fraticello. Un secondo, inspiegabile delitto, avvolto in un’aura di mistero e con un vago sapore di magia nera.

            Erano le due dopo la mezzanotte quando  Grant udì bussare all’uscio e, mentre andava ad aprire, immaginava chi si sarebbe trovato di fronte.

- Signor Grant, ho il piacere di salutarla - disse il libraio Water con un inchino, tenendo il cappello in mano. Indossava  sempre la giacca e il gilé a quadretti.

- Ancora lei? - fece Grant con una punta di acredine nella voce.

- Non si adombri, amico mio, - gli rispose Water, andandosi a sedere sulla poltrona di fronte alla scrivania, senza essere stato invitato. - Non si adombri, - ripeté  dopo aver posato  il cappello a fianco della macchina per scrivere. - Pensavo le facesse piacere scambiare  due chiacchiere con uno capace di apprezzare le sue trame e al corrente di quanto sta scrivendo. E glielo dico subito, nel romanzo ci sono due fattori importanti: uno positivo e uno negativo.  Quale vuole sapere per primo?

            Grant,  rimasto vicino alla porta, lo raggiunse.

- Non capisco a che gioco lei stia giocando, ma non intendo tirarmi indietro. Sentiamo il primo, quello positivo.

- Trovo ottima  l’idea di aver fatto morire il fraticello e, in particolar modo, quell’accenno alla magia nera. La sua prima idea di farne il colpevole non mi era piaciuta.

            Come avesse fatto a conoscere la sua intenzione di fare del fraticello il colpevole, era un mistero. Probabilmente quello strano individuo aveva il potere di leggere nella sua mente. Stava per chiederglielo, ma si astenne.

- E il fattore negativo?

- Non mi piace affatto la scelta dell’editore come capro espiatorio di tutta la vicenda. Eppure nel nostro precedente incontro mi sembrava di essere stato chiaro nell’avvertirla. Era poco salutare e pericoloso accumulare indizi su Sir Moreland,, Ma lei non ha voluto seguire il mio consiglio: ecco perché sono ritornato a farle visita.

- Mi vuole dire da dove viene lei?

- Non l’ha ancora capito? Sono un protagonista del suo libro: sono il libraio Bridgewater. Gli amici per brevità mi chiamano Water. La mia insistenza a favore dell’editore Moreland è dovuta ad una questione per me vitale e, a ben pensarci, anche per lei. E’ noto a tutti:  il compito di un editore è quello di stampare libri e quello del libraio è di venderli. Quindi, se non esistessero gli editori, non esisterebbero i librai e tanto meno gli scrittori. Lei ed io saremmo due disoccupati. E’, pertanto, lapalissiano che nel suo caso e nel mio uccidere gli editori sarebbe un controsenso.

            Grant lo fissò sbalordito, ma quello, imperterrito, continuò.

- E la cultura, dove la mettiamo? Se gli editori non stampassero libri, come si potrebbe educare l’uomo senza di essi?

- Signor Water, lei sta dicendo un sacco di assurdità - disse lo scrittore, incominciando ad  averne abbastanza di quell’uomo dalla prosopopea galoppante, - e non sono in vena di continuare ad ascoltarla. La prego, quindi, di andarsene, - concluse, porgendogli il cappello.

- Lei non vuole intendere ragione, signor Grant, - fece il notturno visitatore con un tono calmo, ma denso di minaccia. Gli occhi fissavano intensamente e severamente lo scrittore. - No, non ci siamo, amico mio! Io sono venuto da lei scevro da ogni preconcetto e con la sola intenzione di darle un consiglio. Ma lei  non intende seguirlo. Badi, però, - e così dicendo il libraio Water alzò un braccio verso Grant.

            Questi glielo afferrò a mezz’aria.

- Badare a che cosa? - gli gridò, avvicinando il suo volto a quello del signor Water. - Badare a  cosa? Crede forse di minacciarmi? Qui in casa mia? Se ne vada, quella è la porta e non osi  più farsi vedere.

            Grant lo guardò, mentre quello, calzato il cappello in testa, con un gesto nervoso, si avviava verso la porta.

- L’avverto ancora una volta, Grant, e sarà l’ultima: badi bene a quello che fa - disse il signor Water prima di uscire. - Conosco il suo stile e anche le sue idee e lo so anche per esperienza: nei suoi romanzi lei è sempre propenso, una volta scoperto il colpevole, a non consegnarlo mai alla polizia per un giusto processo. I suoi colpevoli o vengono uccisi da qualcuno oppure si suicidano. Lei si erge sempre a giudice e boia, senza alcuna attenuante. Glielo ripeto ancora: badi bene a quello che fa e ricordi: NON SI UCCIDONO IMPUNEMENTE GLI EDITORI.

            L’ultima frase la sibilò con fare minaccioso, Poi il notturno visitatore aprì l’uscio e uscì, sbattendoselo alle spalle.

            Grant rimase solo a covare la sua rabbia, aggirandosi per lo studio. Non guardò neppure dalla finestra per vedere se il visitatore era uscito dal portone. Non era possibile. Il suo era stato un colloquio con uno dei suoi personaggi o meglio, a ben pensarci, era stato un colloquio con se stesso. Quando se ne rese conto scoppiò in una sonora risata.

- Sono uno stupido! - esclamò. - E dire che di questi diverbi mi nutro continuamente quando nella mia mente immagino le scene e i colloqui dei miei personaggi. Adesso riesco addirittura a materializzarli, quasi fossi su un palcoscenico. Roba da matti! Be’, per questa notte la mia razione di mistero, sempre che sia tale, l’ho avuta, col risultato di aver perso la concentrazione.

            Tolse il foglio dalla macchina per scrivere, lo pose in cima a quelli già scritti e chiuse il tutto in un cassetto, dicendo ad alta voce:

- Caro il mio Moreland, stamperai pure libri, ma nel mio sarai il colpevole, checché ne dica il libraio Water!

                                               ************

            Le dita correvano veloci sui tasti e il ticchettio risuonava per tutto lo studio. Quando Grant stava per concludere una trama e per porre la parola fine al romanzo, ormai le idee erano delineate e non erano più suscettibili di alcun cambiamento. A quel punto lasciava libera la mente di esprimersi al meglio, il pensiero pronto a  tornire la frase, a cercare le parole più adatte per esprimerla e poi le dita materializzavano ogni cosa sulla pagina.

            Mentre scriveva, Grant sorrideva. Aveva trovato una soluzione a suo parere perfetta, nella quale aveva coinvolto pure il libraio Bridgewater, giocandogli una beffa finale.

            Scriveva veloce.

 

“Come Paolo aveva avuto una folgorazione sulla via di Damasco, così il sergente Quayle l’ebbe molto più prosaicamente mentre percorreva  in bicicletta Long Street,  per recarsi al  Distretto di Polizia. Fu una folgorazione inattesa, una visione, un pensiero che valse a risolvere tutti i  dubbi accumulatisi in quei giorni.

            Finalmente aveva scoperto l’autore dei vari delitti.

            Fece una conversione a U, sbandando con la bicicletta, rischiando di cadere nella cunetta e costringendo il camioncino del latte che sopraggiungeva in quel momento ad una brusca sterzata, accompagnata dalle imprecazioni del conducente. Il sergente Quayle non le udì neppure. Pedalando come un forsennato alla volta della villa affittata dall’editore Moreland per quell’estate, raggiunse il piazzale, lasciò cadere la bicicletta sull’erba e si diresse verso il portico dove stava un domestico, intento a spazzar via le foglie che il vento aveva accumulato durante la notte.

- C’è Sir Moreland?

- No, sergente, è uscito da dieci minuti.

- Solo?

- No, con lui c’era il libraio Bridgewater.

- Mio Dio! Chiami subito il Distretto di Polizia e dica di raggiungermi subito con una macchina. Dove si sono diretti Sir Moreland e Bridgewater?

- Verso il Salto dell’Orrido.

            Il Salto dell’Orrido era un profondo burrone sul cui fondo scorreva un torrente, vorticoso in quei giorni a causa di abbondanti piogge cadute. Si trattava di un salto di trenta metri il quale finiva su un ammasso di rocce appuntite e taglienti.

            Il sergente Quayle, nonostante la pancetta incipiente e il sudore, correva veloce.  Doveva impedire quell’ultimo delitto. Quando, da lontano, li vide, i due uomini stavano lottando, strettamente avvinghiati. L’editore aveva afferrato alla gola il malcapitato Bridgewater e l’andava stringendo, mentre l’altro cercava invano di allargare la stretta.

            Il sergente trasse la pistola dalla fondina e sparò alcuni colpi in aria, ma nessuno  parve avvertire gli spari. Quando Quayle fu addosso ai due, vide sul volto dell’editore un ghigno diabolico. La pazzia,  quella pazzia che nessuno sino a quel momento aveva supposto in lui e intuita poco prima dal sergente, appariva in quel momento evidente e Bridgewater ne stava facendo le spese.

            Senza pensarci due volte il sergente colpì al collo l’editore col calcio della pistola, tanto da costringerlo ad allentare la stretta. I due si separarono e il libraio cadde a terra. Quayle si chinò su di lui. L’uomo respirava affannosamente, tenendo la bocca aperta da cui usciva un penoso rantolo. Gli occhi parevano sporgere dalle orbite. Se non fosse arrivato in tempo sarebbe certamente morto soffocato. Quando Bridgewater riuscì a riprendersi, il sergente si guardò attorno. L’editore si era allontanato in direzione dell’orrido.

            Con le mani tra i capelli, quasi si stesse rendendo conto di quello che aveva fatto e uscendo momentaneamente dal suo stato di follia, Sir Moreland  guardava il libraio e il sergente. Poi, senza allontanarsi dal bordo scivoloso dell’orrido, guardò verso il basso. Probabilmente lo affascinava il rumore scrosciante del torrente e la schiuma biancastra  turbinante sul fondo.

            Il sergente gli si avvicinò lentamente, molto lentamente. Non voleva spaventarlo.

- E’ tutto finito, signor Moreland, ora venga con me. L’accompagno da un medico.

- Non si avvicini o mi butto di sotto.

            Il sergente si fermò. E’ sempre meglio assecondare i malati di mente.

- Io non volevo, - cominciò a farfugliare l’editore. - Io non volevo. Qualcosa di contorto  mi ha spinto a compiere i delitti.

            Il libraio, intanto, massaggiandosi la gola, si era alzato da terra e si era avvicinato al sergente.

- Perdonami, Water, - gli disse Sir Moreland, guardandolo fisso. - Perdonami, non volevo, non era mia intenzione farti del male, ma  tu avevi capito tutto.

- Non avrei mai parlato.

- Si dice sempre così, però, prima o poi, anche involontariamente... E ora che farò. In prigione o in una casa di cura non mi rinchiuderanno di certo, - disse a voce bassa.- Mi mi resta una soluzione, - concluse, guardando il fondo dell’orrido. - Una sola soluzione, - ripetè.

- No! - urlò il libraio, - no, non lo faccia!

            Con un salto nel vuoto e senza un grido l’uomo scomparve alla loro vista.

            Quando entrambi guardarono sul fondo, videro il corpo di Sir Moreland immobile, inerte, incastrato fra due enormi massi. L’acqua a tratti lo lambiva, colorandosi di rosso, per poi ridiventare trasparente non appena si mescolava alla corrente.

 

- Ed eccoti servito  caro il mio Water. Mi hai definito giudice e carnefice nei confronti dei miei personaggi. E avevi ragione: è proprio così, - disse sorridendo, alzandosi dalla sedia. - E poi ho fatto anche di più. Tu non volevi che facessi dell’editore l’assassino e poi lo facessi morire, ed io ti ho fatto quasi uccidere da lui e poi ti ho salvato all’ultimo momento. Dovresti, quindi, ringraziarmi, invece di discutere e di criticare i miei metodi.

            Udendosi parlare in quello studio vuoto e rivolgersi a uno dei suoi personaggi, Grant si domandò se non ci fosse anche in lui un filo di pazzia. Ma si consolò subito: in fondo un filo di pazzia c’è in ognuno di noi. Più o meno accentuata, ma c’è.

            Si sedette di nuovo alla scrivania, fece leggermente ruotare il rullo della macchina per scrivere e poi, a metà pagina, in lettere maiuscole, scrisse la parola FINE.

            Un leggero bussare all’uscio attirò la sua attenzione. Possibile che Water, dopo la loro ultima discussione, avesse ancora l’intenzione di tornare? Ormai tutti giochi erano stati fatti.

“Badi bene, - lo aveva minacciato il libraio nel loro ultimo incontro, - badi bene. Non si uccidono impunemente gli editori.”

            Che cosa aveva voluto dire?

            Aprì la porta. Water stava di fronte a lui, il volto torvo e accigliato. Senza essere stato invitato e senza parlare entrò nello studio e si chiuse l’uscio alle spalle...

 

            Verso le nove del mattino seguente, quando la donna delle pulizie aprì la porta dello studio, Grant era seduto alla scrivania. Il capo reclinato sul manoscritto. Un corpo senza vita.

            Qualcuno durante la notte lo aveva strangolato.

            Non si trovò mai il colpevole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INCIDENTI

 

                                                                      

- Non ti sembra che in questi ultimi tempi,  in una cittadina così piccola come Albisola si stiano verificando troppi incidenti?

            L'inattesa considerazione del responsabile redazionale della cronaca locale, pubblicata su un giornale di Genova, non aveva minimamente colto di sorpresa Mino Silvagni, giovane giornalista, ultimo acquisto della redazione, ma già apprezzato per  i suoi articoli sempre accurati, fedeli al vero, privi di voli fantastici. E come no! Pure lui aveva notato il fenomeno, sebbene la cosa non l'avesse preoccupato: perché stupirsi se la  sfortuna si accanisce contro qualcuno o qualcosa!

            Però, in un momento in cui i fatti di cronaca, quelli capaci di attirare l'attenzione dei lettori, languivano, valeva la pena spendere un po' di tempo per  approfondire l'osservazione del suo superiore. Per cui,  tutto rannicchiato nella poltrona anatomica  e per nulla a suo agio sebbene la pubblicità dicesse: "Sedetevi e vi sembrerà d'essere in Paradiso!" - una sedia comune sarebbe stata più comoda -  si era  messo a spulciare i suoi appunti, leccandosi spesso l'indice per girare le pagine del taccuino nero che non abbandonava mai. La prima notizia  risaliva al 15 gennaio.

 

"15 gennaio. Incidente automobilistico. Calvi Giovanni,  operaio edile, uscendo di casa per recarsi al lavoro in bicicletta, viene travolto da un camion. Unico testimone il figlio. Stava alla finestra. Afferma di aver visto il padre zigzagare per la strada. Un malore? Il ragazzo dice che, uscendo di casa, il padre stava bene. Aveva persino tirato un calcio ad un bambolotto di  pezza, il suo giocattolo preferito."

 

"26 gennaio.  Pierina Donati cade dal terrazzo dove era salita per stendere i panni. Inspiegabile la ragione per cui si è avvicinata al parapetto. Nessun testimone, tranne il figlio  Sandro di otto anni. Il bimbo si trovava nel cortile sottostante. Stava giocando con un pupazzo. Ha visto la madre salire sul parapetto e gettarsi nel vuoto. Suicidio o disgrazia?"

 

"12 febbraio. Sbranato dai suoi cani (due rottweiler). Il pensionato Verri Giulio viene inspiegabilmente assalito dai suoi cani. Alla scena ha assistito una bambina, abitante in una casa di fronte a quella del Verri. Dice che stava  parlando con la sua bambola di pezza e ha visto la scena. I due cani non avevano mai dato segni di violenza."

 

"25 febbraio. La caduta del cornicione di una scuola provoca la morte di Sebastiano Socci. Il Socci, detto 'Il Bidello', era solito bighellonare nei pressi della scuola elementare "Deledda". Aveva precedenti penali. All'incidente hanno assistito gli alunni della scuola elementare che giocavano a pallone nei giardini della scuola. Tutti testimoniano di aver visto l'uomo steso a terra, sanguinante. Nessuno ha seguito la dinamica dell'incidente, tranne un ragazzino. Era stato escluso dai giochi e si divertiva con un Pulcinella di stoffa.  Afferma di aver visto il cornicione staccarsi e colpire  il Socci."

 

"3 marzo. Garagista alla guida di un'auto in prova esce di strada e muore. Rottura dei freni. Il figliastro di dieci anni dice di averlo visto trafficare nel motore dell'auto che riparava."

 

"14 marzo. Annega in piscina davanti agli occhi della figlia. La bambina, handicappata, aveva voluto seguire la madre con la scusa di voler insegnare a nuotare alla sua bambola Barbie. La madre era una provetta nuotatrice."

 

- Sei incidenti mortali nell'arco di poco meno di due mesi, - mormorò il giornalista - sono decisamente troppi, anche se i calcoli delle probabilità non sempre sono esatti.

            Lo squillo del telefono lo distolse dalle sue meditazioni. Prese il microfono e mugolò un pronto.

- Che fai, Mino, dormi?

- Ciao, Nicco, novità?

            Nicolò Olivieri, Nicco per gli amici, un amico di vecchia data, compagno di scuola sin  dai tempi delle elementari, era diventato ispettore di polizia. Salvagni doveva in parte a lui se si era fatto strada in breve tempo nella giungla del giornalismo. Quando l'amico fiutava qualche caso interessante, era sua premura avvertire il giornalista per 'soffiargli', nei limiti consentiti dalla legge, qualche particolare  che avrebbe dato più sapore ai suoi articoli.

- Dovresti essere tu a fornirmi le novità, specie quando i fattacci avvengono nella tua zona.

- Quali fattacci?

- Dico: sei ancora all'oscuro di tutto?

- Senti, Nicco, non tenermi sulle spine. Che è successo?

- Una donna ad Albisola Superiore è morta in circostanze alquanto strane. Nessuno ti ha informato?  Stamane una assistente sociale si è recata in casa di una sua assistita, una bambina con problemi di famiglia. L'ha trovata seduta in camera di sua madre. La donna, stesa sul letto, sembrava profondamente addormentata. Non riuscendo a svegliarla, ha chiamato il Pronto Soccorso.

- E tu mi chiami per dirmi che una donna si è sentita male ed è stata trasportata all'ospedale! Non mi sembra una notizia importante!

- Avresti ragione se si fosse trattato solamente di un malore. Ma quella donna  è morta  in un modo, a dir poco, alquanto strano.

-  E in che modo?

- Te lo ripeto: in un modo del tutto particolare. E'  morta, sembra,  a causa di  un ferro da calze piantatole nel cuore da qualcuno. L'assistente sociale, pensando ad un malore,  ha telefonato al Pronto Soccorso e una ambulanza ha provveduto a trasportare l'infortunata all'Ospedale San Paolo. Solo dopo averla spogliata i medici si sono accorti di una puntura in prossimità del cuore.  Finalmente ho un caso su cui lavorare! - concluse il giornalista, dimostrando poca sensibilità nei confronti della donna morta.

- Sei il solito cinico.

- E' il mio lavoro. Dammi l'indirizzo della donna.

 

                                               ************

            Il timore di essere preceduto da qualche suo collega in cerca di notizie si rivelò infondato. Di fronte alla casa, situata poco distante dal torrente Sansobbia, non c'era nessuno, neppure il gruppetto dei soliti curiosi, sfaccendati, pronti a radunarsi subito quando accade qualcosa di strano. Molti avevano visto l'ambulanza portar via l'infortunata: ma quando mai una ambulanza ferma davanti ad un edificio attira l'attenzione dei passanti! E' cosa di tutti i giorni: si pensa solo ad un infortunio, all'ambulanza per fortuna giunta a tempo e si  tira diritto. E' già tanto se i vicini di casa si interessano a quanto accade nel loro caseggiato, ma dopo le prime domande e partita l'ambulanza, si ritirano nei rispettivi appartamenti.

            Il giornalista premette il pulsante del citofono.

- Chi è? - chiese una voce di donna. L'uscio rimase chiuso.

- Silvagni, un giornalista.

- Desidera?

- Mi apra, per cortesia. Vorrei alcune precisazioni sul suicidio della signora Neri.

            Usò volutamente la parola 'suicidio': fa sempre  impressione.

            La porta, infatti,  si spalancò di colpo. Evidentemente l'interlocutrice stava proprio dietro l'uscio.

- Quale suicidio! La signora Neri si è solo sentita male.

- Non le ha ancora telefonato nessuno dall'ospedale? Sembra che la signora Neri si sia, diciamo pure, suicidata con un ferro per fare la maglia.

- Oh mio Dio! - esclamò la donna, portandosi entrambe la mani alla bocca.

- Signorina, chi è quest'uomo: un medico?

            Una bimba di forse  sette, otto anni si era avvicinata ai due e si era fermata accanto all'assistente sociale. Guardava fissamente il giornalista. Bionda, gli occhi azzurri, un faccino serio serio, non bello. Teneva tra le mani una bambola.

- No, Serena, non è un medico: è un giornalista.

- E che cosa vuole?

- E' venuto per tua madre.

- Mia madre è all'ospedale - disse la bimba rivolta al giornalista. - E' venuto per dirmi che è morta?

            Silvagni guardò stupito la donna e non rispose.

- Era inutile, - continuò la bambina, - tanto ero sicura della sua morte. Lo sapevamo, vero Trillina? - precisò, parlando alla bambola stretta al petto. E, senza aggiungere altro, se ne andò.

- E' la figlia della  defunta?

- Sì... no... - rispose la donna confusa.

- O lo è o non lo è - le fece notare Silvagni.

- La situazione non è semplice come crede. Per questo vengo spesso a visitare la bambina nella mia veste di assistente sociale.

            La donna trasse di tasca un fazzoletto, si soffiò il naso e cominciò a spiegare.

- La signora Neri sposò in prime nozze un vedovo con una figlia: Serena, la bimba che ha appena visto. Poi il vedovo morì in un incidente.

"Eccone un altro! E ti pareva!" pensò il giornalista .

- La figlia rimase con la Neri - continuò l'assistente sociale. - Due anni dopo la donna si risposò e per la nuova coppia Serena divenne un peso e un ingombro, non essendo figlia di nessuno dei due. Comunque, legalmente, la bimba continuava a far parte della famiglia.

- E lei come c'entra in tutta questa faccenda.

- Io sono l'assistente sociale della scuola elementare frequentata da Serena e mi occupo di bambini in particolari situazioni familiari. La maestra di Serena mi ha segnalato che la bimba negli ultimi tempi si comportava stranamente. Rifiutava di far ginnastica, di giocare con i compagni e non voleva sottostare ad alcuna visita medica. Un giorno notò alcune abrasioni e alcune ecchimosi sulle braccia di Serena e me ne parlò. Interrogai la bimba e questa mi disse di essere caduta in casa. La spiegazione non mi convinse: per me era stata picchiata dal patrigno o dalla matrigna. La bimba, però, ha sempre negato. Poi il patrigno se n'è andato da casa, abbandonando la signora Neri. Da allora Serena si è chiusa in un mutismo ostinato. Ho saputo dai vicini che la matrigna l'accusa di essere stata la causa dell'allontanamento del marito e, sebbene nessuno abbia fornito alcuna prova, la Neri si vendicava picchiandola spesso. Ma, le ripeto, prove non ce ne sono.

- E adesso che ne sarà della bimba?

- Verrà affidata a qualche istituto per minori in attesa di qualche adozione.

- Ha parenti?

- Non ne sono a conoscenza.

- Posso parlare con Serena.?

            La donna ci pensò un poco, fece spallucce e rispose:

- Perché no? Purché io sia presente. - Poi, rivolta verso la stanza dove si era diretta la bambina, la chiamò.

            Serena si presentò, tenendo sempre la bambola stretta al petto, e, senza dire una parola, si fermò davanti ai due adulti.

- Serena, - iniziò il giornalista - poco fa, quando ti ho parlato della morte di tua madre, tu  hai detto "Lo sapevamo, vero Trillina?" Te l'aveva già detto qualcuno?

- Me l'aveva detto Trillina.

- Chi è Trillina?

- E' la mia bambola, la mia amica preferita. Lei sa sempre tutto. Lei mi disse: "Vedrai che la tua mamma morirà".

- Parli spesso con la tua bambola?

- Te l'ho detto, è la mia sola amica.

- Te l'ha regalata la mamma?

- Lei non mi ha mai regalato niente. Trillina è arrivata per posta.

- E lo sai chi te l'ha mandata?

- No.

- Va bene, Serena, e ora dimmi: dov'eri quando tua madre si è sentita male?

- Stavamo nel tinello. Mia madre lavorava con i ferri da calza per farsi un golfino. Era arrabbiata con me.

- Perché l'avevi fatta arrabbiare?

- Io non avevo fatto niente di male. Lei continuava a dire che suo marito se n'era andato per colpa mia, lasciandola sola e con un peso morto.

- E tu le hai risposto?

- Io stavo lontano da lei. Quando si arrabbiava con me, cercavo sempre di starle lontano.

- E stamane  com'era?

- Più arrabbiata del solito. D'un tratto si è alzata ed è venuta verso di me. Io mi sono allontanata verso quell'angolo e le ho mostrato Trillina, dicendo "Trilli, mandala via! Trilli, mandala via!". Allora mia mamma è corsa in camera sua. Dopo un po' l'ho seguita e l'ho vista stesa sul letto. Era morta.

- Come facevi a saperlo?

- Me lo ha detto Trillina.

            Sempre la solita risposta.

- E tu che hai fatto?

- Mi sono seduta su una seggiola e sono stata a guardarla.

- Perché non hai chiamato qualche vicino?

- Aspettavo la signorina Viani.

- E chi è la signorina Viani?

- Sono io - si intromise l'assistente sociale. Poi, rivolta alla bimba: - Ma come facevi a saperlo se io stessa ho deciso solo stamattina di venire a farti una visita.

- Me lo ha detto Trillina.

            C'era da aspettarselo!

- Ti dispiace se tua madre è  morta? - riprese il giornalista.

- Non era la mia vera madre. Però non mi dispiace, così... - La bambina si interruppe.

- Così cosa? - incalzò il giornalista.

            Serena non rispose. Si limitò ad accarezzare la bambola.

            Si trattava di una bambola dozzinale cui la bambina sembrava molto affezionata. Il vestito era cincischiato; le braccine, disarticolate, pendevano lungo i fianchi; i capelli di un biondiccio sporco erano arruffati. Tutto indicava che il giocattolo era stato manipolato a lungo. Solo gli occhi erano brillanti, due palline di vetro azzurro guardavano fisse nel nulla e davano una strana sensazione a chi li fissava. Se si fosse trattato di una persona viva, si sarebbe potuto pensare ad uno sguardo ipnotico.

- Va pure in camera tua, Serena,  - la congedò l'assistente e la bimba, ubbidendo, si avviò per il corridoio, sempre abbracciata alla sua bambola

- Che ne pensa? - chiese poi a Silvagni.

- Una strana bambina e una strana reazione. La prima impressione è che non si renda conto della morte della matrigna, ma non credo. Dalle sue risposte sembra  sapesse in anticipo dell'imminente morte. E se è così, non dimostra alcun rimpianto. Pare quasi contenta della sua morte.

- Che cosa avrà voluto tacere, quando le ha chiesto se era dispiaciuta?

- Da quanto ha raccontato, penso abbia voluto dire: 'Così non mi picchierà più'.

            Stette un poco soprappensiero e poi chiese:

- E ora che ne sarà di lei?

- E' presto detto: non ha parenti; il patrigno se n'è andato di casa e non si farà vivo, non avendo legami di sangue. Finirà in un istituto.

- Una triste sorte.

            Il giornalista salutò l'assistente sociale e se ne andò. Aveva abbastanza materiale per un articolo.

                                               +++++++

            Seduto alla scrivania, cincischiava con la biro. L'articolo non gli veniva. Avvertiva in confuso che quel suicidio - perché proprio di suicidio si trattava in quanto, quando la Neri era deceduta , in casa c'era solo la donna e la bambina - andava ben oltre il banale fatto di cronaca. Era una sensazione nata dall'osservazione fatta  quel mattino dal suo superiore: "Non ti sembra che si stiano verificando troppi incidenti in una cittadina così piccola?". Silvagni sorrise tra sé e sé: possono esistere dei serial-killer, non certo dei serial-incidenti.

            E se invece?

            Un serial-killer agisce sempre nello stesso modo e  colpisce persone di una determinata categoria e solo quelle. Rilesse gli appunti sul taccuino nero: due incidenti stradali; una caduta da un tetto; una morte dovuta a due cani impazziti; la caduta di un  cornicione; un annegamento.  No, non esisteva alcun rapporto. Anche le vittime erano di estrazione sociale diversa. Stava per scartare l'ipotesi quando notò un fatto comune. Testimoni degli incidenti accaduti erano solo bambini; nessun adulto era mai stato presente. Un caso? Non credeva ad un  caso ripetuto per  sei volte, anzi sette, nell'arco di poco più di un mese.

            Rilesse gli appunti e un altro fatto curioso gli saltò agli occhi: in cinque dei sei casi annotati  il bambino o la bambina avevano assistito all'incidente tenendo tra le mani o avendo vicino a sé un giocattolo:  un bambolotto, un pupazzo, una bambola, un Pulcinella di pezza, una  Barbie. Nell'incidente capitato al garagista non si faceva menzione di giocattoli.  Chissà se il figliastro, l'ultimo ad aver visto vivo il  patrigno, aveva accanto a sé un giocattolo. Una dettaglio da controllare.

            Anche nel  suicidio della signora Neri c'era una bimba, Serena. Anche lei teneva stretta al petto una bambola.

            Curioso! Valeva la pena di dedicare qualche ora a tutti quei casi, cominciando  proprio con quello del garagista.

            Silvagni afferrò il microfono e compose il numero del suo amico Nicco. Aveva bisogno degli indirizzi di tutti i ragazzini coinvolti nei vari incidenti.

 

                                               ++++++++++

            Il garage a piano terra era chiuso da una serracinesca semi arrugginita. Le poche macchine lasciate dai clienti sul piazzale antistante erano state ritirate e, per il momento, nulla lasciava presagire ad una imminente riapertura del garage. Il padrone morto nell'incidente d'auto era solito lavorare da solo, aiutato dal figliastro di undici anni.

             Un gattone di pelo rosso sonnecchiava vicino all'uscio di casa, una abitazione  bassa a un solo piano in cui abitava la famiglia del garagista.

            Silvagni suonò e attese.  Poiché nessuno rispondeva, si apprestava a suonare di nuovo quando l'uscio si aprì e un ragazzotto si affacciò alla porta.

- Mamma non c'è - disse.

- Non importa, posso anche parlare con te.

- Chi sei?

- Un giornalista.

- Che vuoi?

- Farti alcune domande.

- Su che?

- Sulla morte di tuo padre.

- Ah, sull'incidente! Ma io ho poco da dirti: non c'ero quando la macchina è finita fuori strada.

- Sì, questo lo so, però tu sei stato l'ultimo a vederlo quando è partito.

- Embè?

            Il giornalista guardò le mani del ragazzo: le unghie avevano un orlo nero, come se avesse lavorato a lungo a contatto di qualche motore.

- Vai a scuola?

- Sì, frequento la terza elementare, quella della maestra Terzi.

- Aiutavi tuo padre nel suo lavoro?

- Sì.

- E ti piaceva?

- Mi costringeva a farlo.

- Ma a te piaceva trafficare nei motori?

- No, a me piace giocare. Lui, però, ogni volta che giocavo mi trovava dei lavori da fare. Dovevo aiutarlo e se non lo facevo... - Il ragazzo si interruppe.

- Ti picchiava?

            Non rispose. Si limitò a fare spallucce.

- Che giochi ti piacciono?

- Un po' tutti.

- Hai un giocattolo preferito?

- Ultimamente una bambola.

- Una bambola! Ma tu sei un  ragazzo!

- Embè? Non posso giocare con una bambola anche se sono un ragazzo?

            La domanda non faceva una grinza.

- E tuo padre cosa diceva nel vederti con una bambola in mano?

- Si infuriava.  Anche il giorno dell'incidente, prima di salire in macchina, prese la bambola e la scaraventò nel bidone dell'immondizia. Poi mi mollò un ceffone, dicendo di non tollerare femminucce in giro per la  casa. Ma io ragazzine non ne ho mai portato in casa, - aggiunse innocentemente.

- E adesso la bambola dov'è?

- La tengo in camera mia Nel bidone si era macchiata e io non sono ancora riuscito a togliere tutto l'unto.

- Chi te l'aveva regalata?

- Nessuno: mi è  arrivata per posta.

- E non sai chi te l'ha mandata?

- No.

- Ti dispiace che tuo padre sia morto?

- Sì, no, non lo so. Sono solo contento di non dover più lavorare nei motori e di non dovermi più beccare ceffoni.

            Dal ragazzo non c'era altro da sapere. Lo salutò e se ne andò. Il gattone rosso continuava a sonnecchiare.

            Il copione si ripeteva ed era quasi identico a quello di Serena. Entrambi i ragazzi subivano percosse da un adulto; entrambi gli adulti erano morti; entrambi i ragazzi avevano ricevuto in dono una bambola da una persona ignota.

            E la situazione continuò a ripetersi per tutti gli altri ragazzi testimoni dei vari incidenti. Ognuno di essi, direttamente o indirettamente, era stato vittima di violenze da parte di adulti. Il maltrattamento di minori non era una novità per Silvagni; solo non si aspettava una tale frequenza in una piccola cittadina di provincia.

            Seduto alla scrivania, rileggeva i suoi appunti sul taccuino nero per trovare analogie e punti di contatto. E alcuni saltavano subito agli occhi: al momento dell'incidente era sempre stato presente un minore; quel minore, a sua volta, era stato vittima di violenze morali e materiali; ogni ragazzo o ragazza possedeva un giocattolo, una bambola o un pupazzo, che, al momento dell'incidente, teneva vicino a sé; quei giocattoli non erano stati acquistati: erano giunti per posta, inviati da persona sconosciuta.

            E proprio quest'ultimo era il dettaglio più stridente in tutta la questione.

            Senza una particolare ragione aveva chiesto a tutti gli interpellati quale scuola frequentassero e se si conoscessero tra di loro. La scuola elementare era la stessa (d'altronde nella cittadina c'era solo quella), ma i ragazzi tra di loro o si conoscevano di vista o non si conoscevano affatto perché frequentavano classi diverse e con maestre diverse. Quindi  gli incidenti non potevano far capo ad una persona sola, ad un ipotetico serial-killer.

            Ma che andava pensando! Eppure quella faccenda del giocattolo arrivato per posta lo intrigava. Doveva venire a capo del mistero, per cui afferrò il microfono e compose il numero di Nicco.

- Sei ancora alle prese con i tuoi incidenti? - gli chiese l'ispettore.

- Conosci il mio pizzicorino?

 - Sì lo conosco. Ti viene quando pensi di essere di fronte a qualche caso speciale?

- Lo sto avvertendo.

            E cominciò ad esporgli tutti i suoi dubbi e sospetti.

- E tu mi vorresti far perdere del tempo per fare un controllo presso gli uffici postali per sapere da dove i pacchi giocattolo sono stati inviati? Scordatelo, Mino. I miei agenti hanno altro da fare. E poi, ti posso offrire subito una soluzione logica:  tutti i giocattoli sono stati inviati da qualche ditta per una operazione promozionale. Alcune ditte lo fanno normalmente...

- Sì, lo so, - lo interruppe il giornalista. - Ma ragiona un istante: si trattasse di caramelle, di biscotti, di formaggini, di patatine fritte, potrei capirlo, perché i ragazzi le assaggiano e poi, se gli piacciono, se le fanno comperare e la ditta ottiene lo scopo di smerciare in continuazione. Ma qui si tratta di giocattoli e se tu una bambola ce l'hai già, non cerchi di fartene regalare un'altra. Non trovi?

            L'ispettore rimase a lungo in silenzio.

- Nicco, sei ancora all'apparecchio?

- Sì, ci sono. Almeno mi lasci il tempo di pensare?  Tu hai l'abilità di coinvolgermi sempre nelle tue inchieste. Non ti prometto niente. Non appena ho un agente libero gli farò fare delle ricerche. Tu continua a cercare per conto tuo, poi confronteremo i risultati.

- Grazie, Nicco

- Grazie un accidente! - gli rispose l'amico, mettendo giù il microfono.

 

                                               **************

            Sette incidenti diversi; sette situazioni identiche: tutti i ragazzi avevano subito violenza morale o materiale da parte di  adulti; tutti i ragazzi possedevano un giocattolo inviato per posta da persona ignota.

Escludendo che la causa dall'incidente fosse da attribuire ai ragazzi, i quali erano stati dei semplici spettatori, pareva quasi che una mano ignota avesse guidato, pilotato tutti gli incidenti, liberando così i minori da ulteriori maltrattamenti.  Pensò addirittura ad una nuova strategia del Telefono Azzurro e sorrise alla stramba idea.  Comunque, nessuno glielo toglieva di testa: fra tutti i casi esisteva un collegamento  e una mente diabolica  li aveva programmati.

            Pensò all'assistente sociale conosciuta nel caso di Serena e decise di parlarle.

            La trovò nella sala-insegnanti della scuola elementare in compagnia delle maestre.

- Come sta Serena? - le chiese.

- Serena sta bene. Si trova in un istituto di suore in attesa della sua sorte.

- Conosce qualcuno di questi ragazzi? - disse, porgendole  l'elenco  compilato in ufficio.

            L'assistente sociale lo lesse.

- Tranne Serena e Sandro, il figlio di Pierina Donati, quella precipitata dal terrazzo, gli altri non li conosco. Perché me lo chiede?

- Sto conducendo una ricerca sul maltrattamento minorile - rispose Silvagni. Era una mezza verità la quale attirò subito l'attenzione delle maestre presenti, ognuna delle quali aveva qualche caso da citare.    

           Seguendo il sistema di lasciar parlare gli altri e di ascoltare attentamente, Silvagni prese appunti sul suo taccuino ed ebbe la riprova di quanto già aveva saputo dai ragazzi intervistati.

            L'operaio edile Calvi Giovanni era solito maltrattare il figlio e la moglie, in particolar modo quando rientrava ubriaco dall'osteria.

            La Donati, la madre di Sandro, non si era mai occupata del figlio e spesso lo cacciava da casa quando invitava occasionali amici a passare qualche ora in piacevole compagnia. In quelle occasioni il ragazzo se ne stava seduto sul pianerottolo ad aspettare che quelli se ne andassero.

            L'insegnante di appoggio di Maurina, la bambina handicappata, costretta a vivere in carrozzella, non lesinò accuse contro la madre.

- Una donna senza principi morali. Incapace di essere una madre. Maurina aveva bisogno di affetto e di cure continue, ma quella passava il tempo presso la parrucchiera, l'estetista, lasciando spesso sola la figlia. Ultimamente, prima di morire,  - aggiunse con una punta di acredine - aveva preso l'abitudine di farsi  massaggiare da un aitante massaggiatore e Maurina, la quale sarà una handicappata, ma non è una stupida, mi ha confidato che sua madre non pensava più a lei e per contro lei aveva preso ad odiarla. E non posso darle torto. Magari  i genitori fossero tutti come quelli di  Paolina.

- Paolina chi? - chiese Silvagni facendo finta di non conoscere la bimba testimone della morte di Giulio Verri, sbranato dai suoi cani.

- E' un'altra mia alunna, anche lei molto sensibile e delicata. I suoi la seguono passo passo. Stravedono per lei.  L'hanno persino accompagnata da un pediatra.

- Perché, ha dei problemi?

- No, ma un mese fa le è capitato di perdere il gatto e, a distanza di una decina di giorni,  di assistere al ferimento grave di un uomo. Uomo e gatto sono stati sbranati sotto i suoi occhi da due rottweiler.

- Ti riferisci al Verri? - chiese una maestra.

- Sì, al padrone dei cani.

- Dei morti si deve sempre dire bene, ma per quell'uomo non si saprebbe trovare nella sua vita alcunché di buono. Se nella nostra comunità c'era una persona malvagia, quella era lui.

- Figurati: Paolina mi ha confessato di aver sentito il Verri aizzare i cani contro il suo gatto.

- Conosce altri ragazzi di questo elenco, - disse il giornalista, porgendoglielo.

            La maestra lo lesse e scosse il capo.

- No, tranne Maurina e Paolina, gli altri non li conosco. Forse li avrò visti in cortile, ma non sono miei alunni.

- Antonio che classe frequentava? - chiese Silvagni.

- Quale Antonio? Sa, ce ne sono diversi.

- Il ragazzo che ha testimoniato di aver visto il cornicione cadere in testa a quell'individuo soprannominato  'Il Bidello'.  

- Allude ad Antonio Masi. E' un mio alunno. - disse una della maestre. - Poverino, anche la sua famiglia ha avuto guai. Suo fratello di quindici anni  si drogava: è morto un mese fa per overdose. Dicono sia stato  proprio 'Il Bidello' a fornirgliela. Guardi, signor Silvagni, nessuno piangerà certo la morte di quello spacciatore; anzi molti hanno tirato un respiro di sollievo quando quel cornicione si è staccato dal bordo del tetto della scuola.

            Quando lasciò la sala delle maestre, il giornalista aveva messo a fuoco alcune idee, tra cui quella di scartare all'interno della scuola la presenza di una persona che conoscesse tutti e sette i ragazzi.

            Nel riporre in tasca il taccuino nero si accorse di averlo riempito quasi completamente. Rimanevano solo due paginette bianche.  Doveva comperarne uno nuovo e si diresse verso la cartoleria, nei pressi della scuola.

            Nel negozio c'erano un ragazzo e una ragazza. Stavano conversando col cartolaio. Dovevano trovarsi a loro agio con quel signore di mezza età, con i capelli già tendenti al grigio, gli occhi azzurri, un bel  sorriso sul volto, appoggiato con i gomiti al banco di vendita.

- No, glielo ripeto, signor Lorenzi, la maestra non è stata giusta nei miei confronti, - disse il maschietto. - Mi ha rifilato un cinque, ma meritavo almeno sei. Affibbiare un cinque o un sei a lei non costa nulla. Come lo dirò adesso al mio babbo?

- Hai così paura a dirglielo? Mica ti ammazzerà di botte per un cinque! - disse l'uomo, ridendo.

- Oh no, signor Lorenzi, mio babbo non mi ha mai picchiato. Però mi chiude il PC, così addio ai miei videogiochi!

- E tu? - chiese il cartolaio, rivolto alla ragazzina. - Ci sono novità?

- Sa, signor Lorenzi, Walter, il mio ragazzo,  mi ha scritto una lettera. Sapesse com'è carina?

- Me la fai leggere?

            La ragazzina aprì una borsetta, ma poi, rivolto uno sguardo severo al giornalista, disse:

- Gliela faccio leggere la prossima volta, signor Lorenzi.

            L'uomo sorrise. Prese alcune figurine e le donò al ragazzo. Alla ragazzina diede la foto con dedica di un noto cantante. I due uscirono.

- Bambini! - disse il cartolaio, rivolto al giornalista. - Vede, col mio mestiere conosco molti bambini; mi raccontano tutto di loro, quasi fossi un confessore o un amico e io mi diverto ad ascoltarli. Io bambini non ne ho,  o per meglio dire, ne ho a centinaia perché per i loro acquisti devono passare per forza dal mio negozio. Mi scusi del contrattempo, desidera?

- Un taccuino nero simile a questo.

            Silvagni pagò e uscì. I due ragazzini erano fermi davanti alla vetrina, incantati dai libri esposti, dagli oggetti di cartoleria, dai giocattoli di diverso tipo, da orsetti di peluche, da cani e gatti di pezza. Li lasciò alla loro estatica ammirazione e si diresse lentamente verso il suo ufficio dove si sarebbe immerso nella sua  poltrona (poco comoda) la quale aveva un solo pregio, quello di impedirgli di appisolarsi e di costringerlo a meditare.

            La giornata era calma e serena. Una lieve brezza soffiava dal mare portando l'odore di salsedine. L'idea di rinchiudersi nel suo ufficio non gli sorrideva e bastò vedere una panchina vuota, all'ombra di un tiglio, in un minuscolo parco, per derogare dalla prima idea e per sedersi, stendendo davanti a sé le gambe in posizione di relax. All'aperto si pensa meglio, si disse; e cominciò a riassumere tutte le notizie raccolte.

            Si andava sempre più convincendo di un fatto: la teoria del semplice incidente o del suicidio non era più sostenibile. No, si  disse, questi sono tutti delitti mascherati da incidenti. Ma se si trattava di delitti, come si poteva considerare il suicidio della signora Neri?  Chi l'aveva pugnalata con un ferro da calza? Non certo la piccola Serena! Non ne avrebbe avuto la forza. Allora quello era un suicidio bello e buono?

- No, no e poi no! - esclamò, alzandosi di scatto, preso da una subitanea ispirazione. Doveva vagliarla subito.

            A passi svelti si diresse verso la casa di Maurina, la bimba handicappata. Conosceva tutti gli indirizzi a memoria e la casa di Maurina era la più vicina.  Trovò la bimba nel cortile, seduta nella sua carrozzella, intenta a giocare con la sua inseparabile Barbie.

- Ciao, Maurina, mi riconosci?

- Sì, tu sei il giornalista che mi ha fatto delle domande. Vuoi sapere ancora qualcos'altro?

- No, vorrei da te un favore. Mi fai vedere la tua Barbie?

- Tieni, - rispose la bimba, porgendogliela.

- E' sempre la stessa, quella ricevuta in regalo per posta?

- Sì, è sempre quella. Non ne ho altra.

            Il giornalista la prese e cominciò a spogliarla.

- Sta pure tranquilla, Maurina, non te la sciupo. Poi la rivesto.

- Sarà meglio che lo faccia io. Sono più esperta.

            Era una Barbie come tutte le altre. Il corpo modellato sapientemente era fatto di una specie di gomma rosa, solida al tatto e al tempo stesso morbida come pelle umana.

            Silvagni scrutò tutta la superficie della bambola, scuotendo il capo in segno di soddisfazione per quello che vedeva. Se l'era aspettato. Restituì la Barbie alla bambina e, prima di allontanarsi, disse:

- Proprio non le volevi bene alla mamma, vero?

- Allora no; adesso ne sento la mancanza. Per fortuna c'è papà.

            Silvagni si allontanò. Voleva altre prove.

            Più difficile fu farsi prestare la bambola dal figlio del garagista. Il ragazzo vi era morbosamente attaccato ed era restio a staccarsene.

- Ma poi me la dai subito, vero?

- Certo, te lo prometto. Voglio solo darle una occhiata.

- La devi proprio spogliare? - si preoccupò, vedendo il giornalista apprestarsi a togliere i vestiti ancora sporchi di unto.

- Sì, devo vedere con quale tipo di plastica è fatta.

            Il ragazzo stette a guardare, sempre preoccupato.

            Silvagni trovò subito quello che cercava e si affrettò a riconsegnare la bambola al ragazzo il quale si premurò di rimettere i vestiti a posto. Il giornalista lo salutò e se ne andò.

            Proprio come pensava. Per scrupolo andò dagli altri ragazzi, tranne Serena, ospitata in un istituto di suore a Savona.  Ognuno gli mostrò il suo giocattolo e su tutti, anche su quelli di pezza, sebbene non fosse facile individuarlo, trovò lo stesso indizio.

            Ormai ne era certo. Occorreva che Nicco venisse subito informato. Chissà se il suo agente  aveva scoperto qualcosa circa il mittente delle bambole e dei pupazzi.

 

                                               ************

- Delitti!  - esclamò l'ispettore dopo aver ascoltato pazientemente la teoria del giornalista. - Delitti! - ripeté. -Tu sei pazzo. Mino, pazzo da legare. Ma ti rendi conto delle tue supposizioni? Sette ragazzini sarebbero gli autori di altrettanti delitti.

- Bada, non li ho definiti gli autori  materiali dei delitti, ho solo parlato di  mandanti e, al tempo stesso, di esecutori  per procura.

- Ti stai contraddicendo, amico! Come può uno essere mandante ed esecutore di un delitto! O lo commette da solo o lo affida ad un esecutore!

- Lo sai che cos'è la "magia per simpatia"?

- Ci mancava pure la magia per completare il quadro! Sì, lo so, ma rinfrescami pure le idee.

- Secondo la concezione della "magia per simpatia", tutto il male attribuito ad un simbolo, o per maggior chiarezza ad un  feticcio, può essere trasmesso alla vittima.  Ti faccio un esempio: se tu prendi un feticcio, cioè un oggetto inanimato a forma umana, una bambola o un pupazzetto,  e, con pratiche magiche, racchiudi in esso uno spirito che abbia il potere di provocare la morte di una persona da te odiata, prima o poi detta persona morirà. Questa è la "magia per simpatia".

- E come faresti a racchiudere detto potere nel feticcio?

- Mediante spilli conficcati nel corpo del feticcio e pronunciando formule magiche...

- Mino, mi stai raccontando un sacco di fesserie! Ma ci credi veramente?

- Che ci creda o no, ha poca importanza: comunque, quella è una pratica abbastanza diffusa. E io in tutte le bambole e i pupazzi dei bambini, bada bene, tutti testimoni degli  incidenti, ho  riscontrato traccia di minuscoli forellini prodotti da spilloni o da chiodi. Se tu non credi alla magia, mi sapresti spiegare perchè ci sono tali segni  su tutti, dico tutti i pupazzi e le bambole?

            L'ispettore non trovò una risposta adatta. Si limitò a chiedere:

- D'accordo: e ora cosa dovrei fare?

- Iniziare una inchiesta.

- Su quali  basi? Te la immagini la reazione del mio capo se gli presentassi una pratica di magia!

- L'agente addetto alle ricerche presso gli uffici postali, ha scoperto qualcosa?

- Un buco nell'acqua. Tutti gli impiegati postali interpellati gli hanno fatto presente la difficoltà di  reperire il mittente di un pacchetto o di un campione di merci su cui chiunque avrebbe anche potuto mettere un indirizzo fasullo. E poi occorrerebbe conoscere la data di spedizione o di arrivo. Trattandosi di bambini, non penso abbiano conservato la carta con cui bambole e pupazzi furono spediti. Niente da fare da questo lato.

- E io non ne vedo altri. Eppure deve esistere da qualche parte il mittente dei doni "magici",  la persona esperta in fatture e pratiche magiche.

- Ammesso ci sia - gli fece notare l'ispettore - non dovrebbe proprio questa persona  essere interpellata dal mandante? Solo lui può dargli indicazioni sulla persona da colpire. Te li vedi i ragazzini andare da costui e dire: 'Mio padre o mia madre mi picchiano; non si interessano a me. Io li odio e li voglio veder morti in un incidente. Faccia una fattura a una bambola e me la spedisca!' Mino è semplicemente assurdo; la tua teoria fa acqua da tutte le parte.  E ora lasciami pensare a cose più serie, - concluse congedandolo.

            Stavolta il giornalista ritornò all'ufficio e si sprofondò nella poco comoda poltrona.

                                               ************

            L'indomani, senza sapere perché, si ritrovò a bighellonare intorno alla scuola elementare. Nel cortile pieno di ragazzi riconobbe i  bimbi coinvolti nella sua inchiesta. Alcuni lo salutarono con un cenno e Antonio, quello che aveva visto il cornicione cadere  sulla testa dello spacciatore di droga, si avvicinò alla cancellata.

- Ha visto, signor giornalista, non l'hanno ancora aggiustato.

- Cosa.

- Il cornicione.

- Ah, il cornicione - disse Silvagni soprappensiero. Alzò il capo verso il tetto. - Già, è ancora rotto. Chissà come si è spaccato.

- Io lo prevedevo.

- Come facevi a prevedere la sua caduta?

- Me lo ha detto Pulcinella.

- Ah, già, tu  possiedi un Pulcinella di stoffa. - Silvagni rilevò che la risposta del ragazzo era uguale a quella fornitagli da Serena.

- Hai pensato qualcosa mentre guardavi il cornicione?

- Avevo visto sul marciapiede  'Il Bidello' e ho pensato: 'To', se il cornicione cade lo becca proprio sulla testa.

- E perché hai pensato proprio questo?

- Perché 'Il Bidello' mi stava antipatico e poi perché mia madre ha detto che era la causa della morte di mio fratello.

"Peccato non ci sia Nicco: avrebbe la prova della validità della mia idea sulla magia. Antonio aveva in mano il Pulcinella, ricevuto in dono da persona ignota, il quale recava segni evidenti di essere stato trafitto da punture di spillo o di chiodi (lo aveva appurato nel precedente incontro col ragazzo, quando gli aveva chiesto di  mostrarglielo). Antonio  odiava lo spacciatore e avrebbe voluto punirlo per aver causato la morte del fratello. Forse aveva pensato ad un incidente ed ecco lo spacciatore colpito al capo. Se quella non è una prova!"

"No, non lo è! - gli avrebbe risposto l'amico. - Nessun giudice sarebbe disposto ad accettare una prova simile. E poi una prova contro chi?"

            Il suono della campanella  annunciava la fine della ricreazione. Antonio si voltò e corse verso i compagni.  Silvagni lo guardò  mentre si allontanava. Aveva ancora una domanda da fargli, ma quello ormai era lontano.

             Camminava lentamente e si accorse appena di un bimbetto con  un righello nuovo in mano. Stava correndo e quasi lo investì. Probabilmente tornava dalla vicina cartoleria dove l'aveva comperato e ora si affrettava a raggiungere la sua aula.

            La cartoleria!

            Il giornalista si fermò di scatto, poi, quasi di corsa, raggiunse la vetrina dove erano esposti in bella mostra bambole e pupazzi oltre agli oggetti di cartoleria. Aveva cercato a lungo e senza esito il punto di contatto di tutti i ragazzi e non aveva pensato minimamente ad una cartoleria, dove ogni scolaro fa abitualmente i suoi acquisti e dove incontra sempre la stessa persona.

"Vede, col mio mestiere conosco molti bambini" gli aveva detto il cartolaio, quell'uomo di mezza età, tranquillo e affabile. Guardò di nuovo le bambole e i pupazzi e fu sicuro di aver trovato l'elemento di unione tra tutti i ragazzi. E di aver anche trovato l'ignoto distributore per posta dei 'doni magici'.

- Buongiorno, signor Silvagni.

- Mi conosce?

- Lei è venuto giorni fa a comperare un taccuino. Me ne ricordo perché lo ha voluto con la copertina nera. Sa, il nero mi ha sempre affascinato.

- Eppure per molti è indice del male. Pensi ad un gatto nero.

- Quale colpa  ha un gatto se è nato col pelo nero. Il nero è un colore necessario perché permette agli altri colori di spiccare e di emergere. Tolga di mezzo il nero e tutto risplenderà.

- Difficile togliere di mezzo tutto il nero.

- In qualche caso si può fare.

- Forzando il caso?

- E perché no, quando si riesce ad aiutare qualcuno.

- Come nel caso di un incidente capace di togliere di mezzo la parte marcia per salvare quella ancora sana?

            Il cartolaio socchiuse gli occhi e guardò fisso in faccia il giornalista.

- Non la capisco, signor Silvagni, si spieghi meglio.

- Ho in proposito una mia teoria e la sto elaborando in questi giorni. Mi serve per una serie di articoli. Non so se lei lo ha notato, ma in questi ultimi tempi si sono verificati alcuni incidenti e alcune persone poco raccomandabili sono state tolte di mezzo: pensi ad esempio a quello spacciatore, Socci detto 'Il Bidello'. Morto lui, molti giovani non saranno avviati all'uso della droga. Oppure pensi a Pierina Donati, una donna di facili costumi. Costringeva il figlio ad aspettare sulla scala mentre riceveva in casa visite particolari.

- Povero Sandro, lei non sa quanto quel ragazzo soffriva. Ora non soffre più.

- Lo conosceva?

- Io li conosco tutti personalmente. Gliel'ho detto la volta scorsa: tutti i ragazzi della scuola mi raccontano le loro piccole storie e io ascolto.

- L'ho notato. Ho pure notato che ha regalato qualcosa ai suoi piccoli clienti.

- Piccole cose di poco conto.

- Come bambole e pupazzi.

- E perché no? - rispose l'uomo, sorridendo dolcemente. - Se possono procurare loro gioia.

            Praticamente il cartolaio aveva, anche se non esplicitamente,  confessato di essere lui  a regalare e a spedire per posta i 'doni magici'.  Il giornalista si astenne dal chiederglielo. Rimaneva ancora un dubbio da sciogliere.

- Tra i suoi libri ce n'è qualcuno di magia nera?

- Qui in cartoleria no. Ai ragazzi non interessano.

- E a lei?

- Oh, a me sì. A casa ne ho uno scaffale pieno. I riti magici, esoterici, il voodoo, le pratiche stregonesche  mi hanno sempre affascinato, anche se sono scettico  e ci credo assai poco - aggiunse guardando in modo enigmatico il giornalista.

            Silvagni guardò il cartolaio intento ad incartare un bambolotto. Sul banco c'era una etichetta con sopra scritto: "A Cosimo Salvatore. Via dei Conradi, 214  17011 ALBISOLA". L'uomo osservò il giornalista e sorrise.

- Ci pensa, signor Silvagni, - disse bonariamente - se in pieno ventesimo secolo, mentre l'uomo lancia sonde sulla Luna, dopo averla visitata personalmente,  si portasse in tribunale una causa di magia, stregoneria e roba simile? Farebbe ridere, anche se molti ne rimarrebbero affascinati. L'occulto fa sempre sensazione.

            Silvagni uscì dalla cartoleria. Ora sapeva tutta la verità: era il cartolaio a fare le fatture ai pupazzi e alle bambole, ma non su richiesta esplicita dei bambini. I bambini si limitavano a raccontargli i loro problemi  e poi ci pensava lui a risolverli. Mandava semplicemente un 'dono magico' contenente il potere di costringere una persona ad uccidersi. Ma non era malvagio sino in fondo, perché lasciava a quella persona una possibilità di salvezza. Se quella persona si comportava bene,  non sarebbe accaduto nulla; il potere del feticcio non avrebbe funzionato. Ma se avesse in qualche modo offeso o fatto del male al possessore del feticcio, quello avrebbe manifestato il suo odio e il suo desiderio di liberarsi da chi li tormentava. E il potere si sarebbe scatenato, liberato, colpendo inesorabilmente.

             I bambini erano proprio i mandanti e gli esecutori materiali dei delitti, anche se non ne erano consapevoli.

"Vallo a raccontare a Nicco!" pensò. " Quello, come minimo, mi riderebbe in faccia. Meglio lasciar perdere."

            E lasciò perdere anche la notizia comunicatagli da un collega.  Un certo Turi Salvatori, si dice fosse uno legato alla mafia, si era ucciso incidentalmente mentre puliva un fucile. Unico testimone il figlio Cosimo. Stava giocando con un bambolotto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                       ORME

 

 

 

            Sì, abbandonare, la città era stata una idea sensata. Non ne poteva più delle  occhiate di compassione dei familiari e degli amici; non sopportava di sentirsi commiserata per la disgrazia che le era caduta addosso.

Quando l’ultimo pediatra consultato le aveva confermato la diagnosi degli innumerevoli dottori  che prima di lui avevano visitato suo figlio (una rara forma di anemia perniciosa), lei aveva deciso di lasciarsi alle spalle tutto e tutti e di ritirarsi in un solitario paesino di montagna dove poter trascorrere col suo Dario, e solo con lui,  tutto il tempo che il figlio aveva ancora da vivere.

- Quanto tempo, dottore?

            Il pediatra l’aveva guardata negli occhi. Come si fa a dire ad una madre quanto tempo le rimane prima di perdere il figlio? Era proprio necessario dirglielo? Una domanda che spesso si era posto e alla quale non aveva mai saputo dare una risposta. Col tempo si era abituato ad essere sincero, anche se era sempre doloroso dire a qualcuno che alla persona da lui amata rimangono ancora  tre, sei mesi, un anno di vita.

- Sei mesi, signora, massimo un anno. Mi spiace.

            Glielo aveva detto e la donna non aveva battuto ciglio. Era preparata.

- Grazie, dottore, - aveva mormorato. E se n’era andata.

            Giunta a casa, aveva telefonato ad una agenzia per affittare una casa in montagna: aveva preparato le valigie e, senza salutare nessuno, era partita col suo Dario.

 

                                                           *********

            Guardò la vallata sottostante, dipinta di un verde intenso, tranquilla, gli abeti le cui cime erano appena appena mosse da un leggero  soffio di vento e suo figlio che giocava sullo spiazzo antistante la porta di casa, stuzzicando un gatto bianco e nero che pareva accettare senza ribellarsi i giochi del bambino, mosse il capo, approvando la sua decisione.

            La casa era isolata e, tranne alcune capanne di boscaioli disabitate, non c’era nei dintorni alcun’altra abitazione. Il paese distava sì e no un chilometro e il sentiero che portava alla strada carrozzabile era ampio e in leggera pendenza. Nessuno in paese era al corrente del dramma che lei stava vivendo per cui nessuno aveva nei suoi confronti moti di compatimento. La consideravano una villeggiante che era venuta a godersi  il fresco assieme al figlio. L’assenza del marito era giustificabile in mille modi e poi, a chi poteva interessare se l’aveva lasciata per costruirsi un’altra vita?

            Lei e Dario: un minuscolo mondo, una piccola sfera appartata nell’immensa sfera che è l’universo.

            Guardò la Lena, una donnona del paese che il medico condotto le aveva raccomandato come donna di fatica. Stava venendo su per il viottolo, carica di alcune sporte piene di cibarie acquistate presso l’unico negozio del paese. Grassoccia, camminava caracollando sulle gambe tozze e corte, ansimando leggermente.  Lei l’aveva presa subito a benvolere per il suo carattere contadinesco, chiuso, di poche parole, ma soprattutto perché si era affezionata a suo figlio. Lena non aveva mai tentato di sapere perché una donna sola si fosse rifugiata in quella casa solitaria. Non era curiosa, sebbene una idea se la fosse fatta. Aveva subito immaginato qualcosa vedendo quel ragazzino dal volto esangue su cui il sole non era riuscito a dipingere alcun colore rosato, né tanto meno a tinteggiare di bruno quella pelle liscia e sottile.

            Anche Dario si era affezionato a quella donna che chiamava Tata e le stava sempre alle calcagna mentre faceva le pulizie di casa o si dava da fare per aggiustare qualcosa.

            La Lena era stata veramente un ottimo acquisto. Si mosse per andarle incontro e aiutarla a portare le sporte, ma già Dario l’aveva preceduta. E tutti e tre entrarono in casa conversando allegramente.

                                                           **********

            Pioveva.

            Ormai l’inverno era alle porte e sulle cime la neve aveva fatto la sua comparsa. Fra breve, aveva pronosticato la Lena, sarebbe arrivata anche lì e, alla notizia, Dario aveva fatto salti di gioia.

            Per ora, comunque, dalle nubi basse e scure scendeva una acquerugiola fine fine, impalpabile, la quale lentamente bagnava i rami sempre verdi degli abeti e le foglie della piante del sottobosco ancora dipinte dai colori spruzzati dall’autunno.

Lei se ne stava col naso appoggiato ai vetri della finestra per godersi lo spettacolo e per seguire le gocce che si formavano dall’altra parte del vetro e che correvano verso il basso. Ma ciò che più l’affascinava erano i colori della natura, le pennellate di colore, le sfumature delle foglie che passavano dal rosso tenue al rosso fuoco, fino a stemperarsi in un grigio pallido che precedeva la caduta. A terra, poi, si mescolavano e lentamente marcivano.

Le vennero in mente alcuni versi letti di recente su una rivista. Erano di un certo Jabès  e dicevano:

                       Sur le bord de la route,

                       il y a des feuilles

                       si fatiguées d’ètre feuilles,

                       qu’elles sont tombées.

            Il ricordo di quei versi le strappò un sospiro. “Foglie affaticate di essere foglie, quindi pronte a cadere”. Anche il suo Dario era una foglia affaticata e presto anche lui sarebbe caduto. Le venne da imprecare, ma non lo fece. Ormai era rassegnata. E poi suo figlio era ancora saldamente attaccato al ramo. Lo sentiva. Ora se ne stava nella sua camera intento come al solito a giocare.

            Ultimamente aveva preso l’abitudine di giocare non più da solo, ma con un amico immaginario. Se l’era creato, costruito lui e gli serviva a non sentirsi più solo. E con questo amico teneva continui colloqui, parlando di quelle cose che tanto piacciono ai bambini.

            Da quando, chiuso nella sua stanza, lo aveva sentito parlare, lei aveva sempre evitato di interferire. Dario faceva discorsi ad alta voce, ponendosi domande e fornendo risposte quasi l’interlocutore fosse presente. Una cosa del tutto normale. Anche a lei bambina (e qualche volta anche da adulta) era capitato di parlare ad alta voce, quasi a voler ascoltare i suoi pensieri per meglio puntualizzarli.

La voce del figlio che stava parlando col suo amico immaginario le giungeva in quel momento nitida.

- Lo sapevo - stava dicendo Dario - lo sapevo che ci sarei cascato come un fesso. Ecco, adesso devo sostare per tre giri nella casella della prigione e devo rinunciare a tre tiri. Accidenti!

Immaginava Dario seduto  a terra sul tappeto, intento a guardare la cartella del gioco dell’oca, i dadi e i pedoni sulle caselle. Il gioco dell’oca era l’ideale per intavolare un discorso con un immaginario antagonista, seduto di fronte.

Udì il rumore dei dadi che rotolavano.

- Doppio sei! Che bel colpo! Guarda, Dario, adesso ti sorpasso e poi ho ancora due tiri. Sei bello che spacciato. Stavolta vinco io.

- Che strano, - si disse la donna, ascoltando il suono di quella voce, - non sembra neppure la  voce di Dario. Vuoi vedere che sta addirittura imitando la voce del compagno per rendere il gioco più veritiero?

- Sei sempre la solita fortunata.

- Non si tratta di fortuna, caro il mio Dario, ma di abilità. Ho la manina d’oro io nel lanciare i dadi.

Una bimba!

L’immaginario compagno di giochi di suo figlio era una compagna. Non ci aveva mai badato. Però che abilità aveva il suo Dario nell’imitare le voci! Ecco perché rimaneva così affascinato davanti al televisore quando si esibiva qualche imitatore!

Si era sempre ripromessa di non disturbare i giochi di suo figlio, specialmente quando si trovava  in compagnia  e parlava ad alta voce, ma stavolta era troppo incuriosita per mantener fede alla sua promessa. E, tolto il naso dal vetro appannato dal fiato, si diresse verso la camera del figlio e aprì la porta.

Dario se ne stava seduto sul tappeto col gioco davanti. Teneva due dadi in mano e si apprestava a lanciarli.

- Mi fai giocare con te?

- No, mamma, Andreina non vuole.

- E chi è Andreina?

- La mia nuova amica.

- E dov’è? Non la vedo.

- Ti ha sentito arrivare e si è nascosta. A lei gli adulti non piacciono.

- Dove si è nascosta? In questa camera non ci sono posti dove potersi nascondere.

- Oh, lei sa sempre dove trovarli. E’ inutile che tu la cerchi, non riusciresti a scovarla.

- Peccato, mi sarebbe piaciuto conoscerla - disse la donna sorridendo.- Quando l’hai conosciuta? - continuò, volendo stare al gioco.

- E’ venuta tre giorni fa, quando tu sei andata in paese a farti scrivere le ricette dal dottore. Le ho chiesto da dove venisse e mi ha risposto che vive da sola nella radura, quella dietro gli abeti. Quando è venuta a sapere che anch’io ero solo, si è presentata e mi ha chiesto di giocare assieme. Sai, mamma, Andreina mi piace, anche se quando giochiamo vuole vincere sempre lei. Le fa piacere e io, a volte, lascio che vinca, così la faccio contenta.

            La donna sorrise.

- Va bene; visto che non mi volete far giocare me ne vado in cucina a prepararvi una bella cioccolata calda. Che ne dici dell’idea?

- Dico che è ottima, mamma. Ad Andreina la cioccolata piace.

            Appena uscita, la donna rimase in ascolto presso la porta chiusa, in attesa che il gioco di Dario riprendesse.

- Dai, Andreina, adesso puoi venire fuori! Mia madre è andata in cucina. Ma perché devi sempre aver paura dei grandi?

- Te lo spiegherò un’altra volta. Adesso tocca a me tirare i dadi, - rispose la voce della bambina.

            Era una voce decisamente femminile, dolce, con le erre che rotolavano e conferivano al tono un alcunché di esotico.

            In punta di piedi la donna si diresse in cucina. Fece la cioccolata e, per stare al gioco,  portò nella camera di Dario un vassoio con dei biscotti e due tazze fumanti: una per Dario e una per Andreina. Bussò prima di entrare e, quando varcò la soglia, vide suo figlio sempre solo, davanti al gioco dell’oca.

- Ha ancora paura di me la tua amichetta?

- Sì, mamma, ha paura e mi ha detto che mi spiegherà perché.

- Sta bene, bevetevi pure la cioccolata in pace e badate a non rovesciarla sul tappeto.

            Quando, mezz’ora dopo venne per ritirare il vassoio, rimase stupita. Le due tazze erano vuote. Quel birbante di Dario se l’era bevute entrambe tutto da solo. Anche i biscotti erano spariti.

“Ben vengano le Andreine - pensò la donna - se riescono a risvegliare l’appetito nel  mio Dario!”

                                               *************

            Quell’anno la neve cadde presto, sebbene si fosse limitata ad una leggera imbiancatura, un assaggio di pochi centimetri che aveva avuto il pregio di conferire al paesaggio un biancore allucinante, in particolar modo quando il sole, forando le basse nubi, si riverberava sulle valli e sui monti circostanti.

            Fu un Dario tutto felice quello che si precipitò nella camera di sua madre per darle l’annuncio. Tutto eccitato correva a piedi nudi dal letto alla finestra che aveva spalancato, incurante del freddo che annullava il tepore emanato dai termosifoni.

- Sì, la vedo, bambino mio, ma chiudi quella finestra se no qui geliamo tutti e due.

- Ma vieni, vieni a vedere! - continuò quello tutto eccitato. - Vestiti, mamma, così usciamo a fare un bel pupazzo di neve.

- Non credo che ci riusciremo, Dario. Dovrai aspettare qualche altra nevicata più abbondante. Con quella che è caduta stanotte tutt’al più potrai fare qualche palla di neve - gli disse la madre dopo essersi messa la vestaglia ed essersi affacciata alla finestra.

            Dario spazzò con una mano la sottile coltre di neve che si era posata sul davanzale e dovette ammettere che sua madre aveva ragione. Ce ne sarebbe voluta molta di più per fare un pupazzo. Si consolò pensando che il divertimento era comunque assicurato. Bastava cogliere di sorpresa la Lena al suo arrivo per bombardarla con qualche palla di neve.

            La nevicata che gli permise di costruire il pupazzo arrivò due giorni dopo. Nevicò intensamente per tutta la notte e i fiocchi bianchi, farinosi, continuarono a venir giù anche nella mattinata. I rami degli abeti e degli altri alberi più bassi erano piegati sotto il peso e a tratti scattavano violentemente verso l’alto quando la troppa neve cadeva a terra come un blocco unico, liberando l’albero dal peso eccessivo.

            Con la faccia incollata al vetro Dario guardava la nevicata e, con impazienza, attendeva che cessasse per mettersi al lavoro.

- Tata, che ne dici, durerà ancora a lungo?

            La donna guardò il cielo e poi la cima dei monti.

- No, Dario, tra poco cessa.

- Come fai a saperlo, Tata?

- Lo so - rispose laconicamente la Lena, senza aggiungere alcuna spiegazione. - Sta tranquillo, oggi pomeriggio costruiremo il tuo pupazzo di neve. Ti aiuterò anch’io.

            Come aveva previsto la Lena, la nevicata cessò e le nubi si diradarono. I tre si ritrovarono sullo spiazzo antistante la casa dove Dario era solito giocare, intenti ad ammucchiare la neve per il tanto atteso pupazzo. La Lena per fare gli occhi gli  ficcò nella testa due mezze patate annerite con nerofumo, una carota per fare il naso e un cetriolo verde per formare la bocca. Un ampio cappello trovato in soffitta completò l’opera.

- Per oggi basta, - disse la madre. - Domani penseremo ai ritocchi.

            A malincuore Dario rientrò in casa. Avrebbe ammirato il suo capolavoro di neve dalla finestra della sua camera e l’avrebbe fatto vedere anche a Andreina.

“Peccato, - pensò - peccato che abbia paura degli adulti, se no si sarebbe divertita pure lei a costruirlo.

            La notte che seguì fu piena di stelle brillanti, luminose, così vicine che si potevano toccare con una mano, ma Dario non le vide perché dormì saporitamente.  Sognava il suo pupazzo in compagnia del quale avrebbe trascorso la mattinata.

            La madre fu la prima a svegliarsi e, avvolta in una morbida vestaglia, si avvicinò alla finestra. Guardò il pupazzo e si accorse che c’era qualcosa di diverso da quando lo avevano lasciato il giorno prima. Sì, c’era qualcosa in più. Qualcuno aveva aggiunto una lunga sciarpa rossa che scendeva sin quasi a terra.

            La donna avvertì un moto di rabbia verso il figlio per averle disubbidito. Glielo aveva detto a chiare lettere che non doveva uscire di casa senza il suo permesso, eppure era sgattaiolato fuori di buon mattino per sistemare la sciarpa. Si precipitò nella camera di Dario per redarguirlo. Lo trovò a letto, addormentato. Chiuse lentamente la porta e, indossato un paio di stivali, uscì.

            Sembrava che l’omino di neve, con quegli occhi neri di patata, la fissasse in modo enigmatico. La donna prese tra le mani la sciarpa di lana e la guardò. Era rigida per il freddo ed era una sciarpa che lei non aveva mai visto in casa. Probabilmente qualcuno, durante la notte, l’aveva avvolta attorno al collo del pupazzo. Ma chi? Chi poteva aver pensato di arrivare sino a quella casa isolata solo per mettere una  sciarpa di lana attorno al collo di un pupazzo di neve?

            Guardò per terra per vedere se c’erano altre impronte oltre a quelle lasciate da lei, da Dario e dalla Lena. Ma la neve era troppo pesticciata. Però...

            A qualche metro dal pupazzo vide sulla neve delle piccole orme che provenivano da un gruppo di abeti oltre i quali c’era un’ampia radura. La donna cominciò a seguirle; oltrepassò il gruppo degli abeti, raggiunse la radura e si fermò a metà di essa dove le orme si interrompevano bruscamente, quasi chi le aveva lasciate fosse improvvisamente sbucato fuori dal terreno. Si chinò per esaminarle meglio. Erano orme piccole, troppo piccole per un adulto. Sembravano orme lasciate da un bambino. Le paragonò con quelle che aveva lasciato lei venendo e solo allora si accorse di un’altra stranezza. Le orme piccole andavano in direzione della casa. Iniziavano improvvisamente a metà radura e si dirigevano verso il pupazzo, ma non ce n’erano altre a dimostrare che lo sconosciuto visitatore fosse ritornato indietro.

            La donna si guardò attorno, osservò una colomba che volava in tondo e ritornò dal pupazzo. Pensò che lo sconosciuto donatore della sciarpa potesse essersene andato per altra via e lei avrebbe visto le piccole orme allontanarsi dal punto in cui l’omino di neve era stato costruito. Le cercò invano. Non ce n’erano.

            Dovette concludere che qualcuno fosse comparso all’improvviso a metà radura, fosse venuto per mettere una sciarpa al pupazzo e poi? ... e poi fosse scomparso così com’era arrivato. Dissolto nel nulla.

- Mamma, che fai?

            Dario si era svegliato e se ne stava affacciato alla finestra della sua camera.

- Che bella quella sciarpa! Grazie, mamma! Era il tocco che ci voleva: adesso vengo anch’io.

- No, aspettami. Prima devi fare colazione.

            Quando venne la Lena l’episodio delle orme passò in secondo ordine e fu dimenticato perchè la donna aveva altre cose a cui pensare.

            Tre giorni dopo nevicò di nuovo.

            Quel pomeriggio, dopo una breve siesta pomeridiana, la donna si affacciò casualmente alla finestra e guardò  l’omino di neve. Sulla neve fresca tutt’attorno al pupazzo c’erano di nuovo delle orme, piccole, provenienti dalla radura.

            Mentre le osservava udì la voce di Dario provenire dalla sua stanza e poi udì la voce della bambina. Sembrava che lui leggesse e lei lo interrompesse per chiedere spiegazioni.

            Ma si trattava proprio di una compagna immaginaria creata dalla fantasia di Dario... oppure? Finora aveva accettato la spiegazione che Dario le aveva dato cioè che Andreina non voleva avere contatti con gli adulti e si nascondeva quando sentiva qualcuno avvicinarsi. Ora, però, voleva vederci chiaro. Si diresse verso la stanza del figlio ed entrò senza bussare.

            Dario era seduto a terra su un cuscino e teneva in mano un libro di fiabe che la Lena gli aveva regalato. Davanti a lui, a terra, c’era un altro cuscino. Portava una impronta come se qualcuno si fosse seduto di recente.

- Che fai?

- Stavo leggendo ad Andreina la fiaba della principessa sul pisello, ma tu ci hai interrotto.

- Dov’è la tua amica?

- Te l’ho già detto: non le piacciono gli adulti e così si è nascosta di nuovo.

- Ma dove si è nascosta?

- Oh, lei è veloce a sparire. Io non so come faccia.

            La donna si guardò attorno. Vicino alla porta c’erano alcune macchie di umido.

- Perché sei uscito fuori?

- Io non sono uscito, mamma.

- E allora: chi ha lasciato quelle orme di bagnato? - disse indicandole col dito.

- Le avrà lasciate Andreina quando è arrivata.

- Dario, non mentire. Io non ho sentito aprire la porta di casa, che tra l’altro è chiusa a chiave. Mi spieghi come avrebbe fatto Andreina ad entrare?

- Non lo so, mamma, - rispose Dario imbronciato e con voce piagnucolosa. - Andreina va e viene a suo piacere.

- Ti sei fatto spiegare perché non vuole vedere gli adulti?

- Dice che le hanno fatto del male.

- Ti ha detto chi?

- No, questo non me lo ha detto.

            La donna non chiese più nulla. A parte il mistero delle orme, non c’era in fondo nulla di grave se a suo figlio piaceva giocare con un personaggio da lui inventato per passare quelle uggiose giornate in cui era costretto a stare in casa. Che importanza poteva avere l’esistenza di una immaginaria Andreina?

            Guardò il suo Dario, Sebbene l’aria di montagna gli avesse giovato, non poteva fare a meno di cogliere nel pallore del suo viso segni che non presagivano nulla di buono. Si rendeva conto che il tempo passava veloce, troppo veloce.

- Sei mesi, massimo un anno, signora. Mi dispiace, ma la malattia di suo figlio non gli concede altro. L’unica consolazione, se consolazione può essere, è che se ne andrà senza soffrire, senza accorgersene, forse nel sonno.

            I sei mesi erano passati da un pezzo e l’anno si sarebbe compiuto alla fine dell’inverno. E la fine dell’inverno si avvicinava a passi spietati. Non volle pensarci. Trattenne le lacrime per non farsi veder piangere da Dario e uscì.

            Nel corridoio si appoggiò alla parete. Dario aveva subito ripreso a leggere la fiaba. Andreina doveva essere ritornata. Senza far rumore si diresse verso la cucina dove la Lena, da poco arrivata, stava lavando i piatti.

            Vedendo le galosce bagnate che la donna ancora indossava e pensando alle impronte umide nella stanza del figlio, le chiese:

- Lena, è forse andata in camera di Dario?

- No, signora, quando lo sento parlare in camera sua non ci vado per non disturbarlo.

- Lena, lei sa chi è Andreina?

            La donna non rispose.

- C’è nei dintorni qualche bambina che si chiama Andreina? - insistette.

- Che io sappia no - rispose la donna a bassa voce.

- Ma il nome Andreina non le ricorda nulla?

- Per la verità c’è stata in paese una bimba chiamata Andreina. Ma questa è una storia di tanti, tanti anni fa.

- Me la racconti.

La donna rimase un poco in silenzio, poi, alzate le spalle, cominciò a parlare.

- Ricordo che eravamo ai primi di marzo. Alcuni boscaioli trovarono una bimba di circa dieci anni semi assiderata dal freddo. Quando la raccolsero, là proprio dietro quel gruppo di abeti - disse la Lena, indicando la macchia verde che nascondeva  la radura, -  indossava un vestitino di lana e aveva attorno alla testa e al collo una lunga sciarpa rossa. La portarono dal dottore che la curò per alcuni giorni. Si era buscata una broncopolmonite e non sopravvisse. I carabinieri fecero ricerche per sapere da dove fosse venuta e chi fossero i suoi genitori, ma non vennero a capo di nulla. Qualcuno disse che la notte prima del ritrovamento aveva visto passare un carrozzone di zingari e tutti pensarono che la bimba fosse stata abbandonata. Prima di morire disse di chiamarsi Andreina e non aggiunse altro. Venne sepolta nel nostro cimitero e poi tutti si dimenticarono di lei. In fondo era passata come una stella cadente nel cielo del nostro paese.

            Una bella immagine, pensò la donna.

- Lo ha mai raccontato a Dario?

- Non ricordo. Sa, quando sono col suo Dario io parlo di molte cose e molte gliene ho raccontate. Può anche darsi che gli abbia raccontato la storia di Andreina.

            La madre ne era certa. Dario aveva una fervida fantasia; aveva ascoltato la storia di Andreina, gli era piaciuta e della bimba ne aveva fatto l’immaginaria compagna dei suoi passatempi.

            “Ma può una immagine lasciare orme? “ si chiese.

            Meglio non pensarci e lasciare che Dario si godesse gli ultimi giorni di vita come meglio gli piaceva.

                                               ***********

            Sebbene facesse sempre freddo, ormai si cominciavano a cogliere le prime avvisaglie dell’arrivo della primavera. Bastava affacciarsi alla finestra per vedere il fondo valle ancora chiazzato di neve, ma anche larghe macchie di verde tenero che si allargavano di giorno in giorno nelle zone più esposte al sole. I ruscelli erano ingrossati per la neve che si andava sciogliendo e gli alberi con i rami liberi dal peso della coltre nevosa che li aveva piegati, svettavano liberi verso l’alto.

- Non ne siamo ancora fuori, signora, bisogna aspettare l’ultima neve, quella di primavera; ma vedrà che arriverà presto - aveva sentenziato la Lena, vedendo la donna guardare il cielo attraverso la finestra.

            E, infatti, arrivò. Arrivò di notte e non fu una nevicata abbondante, ma bastò a ricoprire tutto il terreno in modo uniforme.

            Quando la donna si svegliò, vide attraverso la finestra una coltre bianca di nubi che, spinta dal vento,  si andava diradando. Solo allora si accorse di non aver chiuso le imposte.  Era piacevole starsene nel tepore del letto e guardare la neve che si era accumulata sul davanzale. Ma era anche giocoforza alzarsi per preparare la colazione per Dario. Si alzò, si avvolse nella vestaglia e andò alla finestra.

            Sebbene vi fosse ormai abituata, rimase affascinata dal biancore latteo che circondava la casa. La neve aveva ammantato anche il pupazzo e ricoperto la sciarpa rossa. Si stirò, alzando le braccia ...

            E mentre si stirava, le vide...

            E rimase con le braccia a mezz’aria.

            Piccole, nitide orme nella neve fresca, provenienti dalla radura. Giravano tutt’attorno all’omino di neve e poi si dirigevano verso la porta di casa.

            Le aveva ormai dimenticate, ma adesso erano di nuovo lì, a testimoniare che qualcuno era venuto prima dell’alba.

            A far che?

            Poi vide anche le altre!

            Erano orme lasciate da due persone, orme piccole, orme di bambini, affiancate, quasi i fanciulli, camminando uno a fianco dell’altro, si fossero tenuti per mano.

            Ma le orme, stavolta, erano dirette in senso contrario alla casa; se ne allontanavano, si dirigevano verso gli abeti, in direzione della radura.

            Solo allora la madre comprese e si premette i pugni sulla bocca. Poi, urlando il nome  del figlio, si precipitò verso la stanza  e spalancò la porta.

            Dario dormiva o almeno sembrava che dormisse. Se ne stava composto, con la testa pesantemente appoggiata al cuscino, il volto cereo, esangue. Un lieve sorriso sulle labbra.

            Ma non dormiva.

             Se n’era andato nel sonno così come le aveva detto il dottore. Lei non c’era mentre si avviava verso... verso chissà dove; ma c’era stato qualcun altro. Lo dimostravano alcune orme bagnate sul tappeto e in prossimità della porta, orme di scarpe in direzione del letto; orme di scarpe che se ne allontanavano.

            Andreina!

            Fu il primo pensiero che le venne. Andreina, l’amica immaginaria, era stata al fianco di suo figlio, gli aveva forse tenuto la mano e gli aveva accarezzato la fronte mentre Dario si preparava ad affrontare un lungo viaggio senza ritorno. Gli aveva dato coraggio. Per questo Dario non aveva avuto paura, anzi aveva sorriso. Aveva sorriso alla sua compagna.

            Come in trance, la donna uscì di casa e seguì le orme nella neve. Raggiunse il gruppo degli abeti e poi la radura.

            Le doppie impronte si fermavano a metà.

            La donna non volle pensare che coloro che le avevano lasciate fossero stati inghiottiti.  Guardò in alto. Due colombe volavano in tondo. Parevano in attesa di qualcuno o di qualcosa. Quando la videro fecero ancora alcuni giri e poi sparirono lontano, oltre le nubi.

            La donna si lasciò cadere a terra e pianse. Lacrime di dolore e al tempo stesso lacrime di speranza e di gioia perché il suo Dario avrebbe volato a fianco di una compagna, Andreina,  guardando dall’alto pascoli verdi e perché no? anche pianure innevate, luccicanti, pure.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

UN QUADRO DIABOLICO

 

 

            Un vecchio alpinista gli aveva detto: “Quando scali una parete o quando sali verso la cima di un monte, guarda a valle solo per ammirare il  paesaggio e non per valutare il cammino percorso”. Un consiglio messo in pratica dal ragionier Ginetti sin da quando aveva iniziato a percorrere lo stretto sentiero che si inerpicava verso il Colle del Gigante.

Aveva lasciato l’albergo di Entrèves allo spuntar dell’alba, non certo con l’intenzione di raggiungere la vetta del  Colle del Gigante, ma per salire più in alto possibile e godersi lo spettacolo mattutino delle valli investite dal sole e ancor più assistere ai giochi di luce sul vasto ghiacciaio della Mer de Glace.  All’albergo un cameriere gli aveva consigliato un percorso poco conosciuto. Lo avrebbe portato sino ad un pianoro da cui si poteva godere di un ampio panorama sul ghiacciaio, sul massiccio del Monte Bianco e sulle sottostanti valli dell’Arve e di Chamonix.  Si era pure offerto di procurargli una guida perché, disse: “E’ buona norma in montagna avere sempre a fianco un compagno, meglio se esperto della zona”, ma  il ragionier Ginetti si riteneva abbastanza pratico di sentieri alpini  e poi amava la solitudine. Troppa gente lo circondava in città, nel suo caseggiato, nel suo ufficio per averne bisogno anche quando era in vacanza. Quel breve periodo di assenza dal lavoro doveva servire a disintossicarlo dallo smog cittadino, dai fumi del gas, dalla confusione e non era certo sua intenzione avvalersi di una guida forse ciarliera. Lo avrebbe sicuramente distratto dal godersi il  panorama.  

- No, grazie, preferisco andare da solo. Sarò di ritorno verso le due. - E messo a tracolla il vecchio zaino, compagno di molte ascensioni, contenente  alcuni panini, delle tavolette di cioccolato e un thermos pieno di caffè, si era messo in cammino.

            Salendo con passo calmo, da vero montanaro, il ragioniere aveva visto aprirsi lentamente squarci sempre più ampi del panorama. In alto il ghiacciaio, un perfetto diamante, risplendente sotto i raggi solari, e giù, nelle valli le ombre sempre più vaghe e sottili quanto più il sole saliva verso lo zenit. Paesini arroccati alle rocce, circondati da folte abetaie, case isolate davano l’idea di un presepe costruito da una mano gigantesca, capace di raggiungere ogni angolo dell’immenso territorio. Non mancavano i nastri lucenti dei torrenti gonfi d’acqua, né quelli più opachi delle strade che con curve e tornanti salivano verso l’alto per perdersi all’improvviso in folte macchie e diventar sentieri scoscesi percorribili solo a piedi. Uno spettacolo indimenticabile e il ragionier Ginetti se lo godeva interamente, sedendosi ad intervalli per mangiare un pezzo di cioccolato o bersi un sorso di caffè caldo.

            Diede poca importanza alla prima avvisaglia di un cambiamento del tempo  e ai primi gruppi di nubi che lentamente si andavano ammassando in basso, togliendogli squarci di panorama. La televisione  la sera prima aveva annunciato bel tempo su tutto l’arco alpino, quindi quei banchi simili a  immensi fiocchi di lana non lo impensierirono affatto. Decise di raggiungere comunque il pianoro. Secondo le indicazioni del cameriere dell’albergo, non doveva essere lontano.

            Sebbene il ragionier Ginetti fosse consapevole  e sapesse che le distanze in montagna sono spesso ingannevoli a causa delle difficoltà sempre in agguato, quando arrivò al pianoro si accorse di aver impiegato più tempo del previsto e si accorse pure che non bisogna mai prendere come oro colato le previsioni dei vari esperti  in meteorologia comunicate dal piccolo schermo.

            Mentre saliva, un vero mare di nubi si era andato formando in basso, cancellando ogni valle e cominciava pure ad avvolgere anche le cime più alte. Erano nubi gonfie di pioggia e nevischio, minacciose e pericolose perché avrebbero ridotto la visibilità a pochi metri. L’aver  raggiunto il pianoro non  era servito a nulla se non ad isolarlo dal resto del mondo e a seppellirlo in una coltre ovattata presaga di pericoli. Un vento freddo e gelato lo investì all’improvviso mentre si accingeva a riprendere la via del ritorno  e un nevischio sottile iniziò a cadere. Con cautela, data la scarsa visibilità, affrontò la via del ritorno, confidando nella sua esperienza e cercando di seguire punti di riferimento notati durante l’ascesa. Per un poco tutto procedette normalmente, ma quando la neve si infittì e il vento prese a soffiare con maggiore intensità, l’uomo si accorse di essersi smarrito e di non saper più da quale parte dirigersi in mezzo a quella caligine bianca che lo circondava.

            Ne era  certo. All’albergo, non vedendolo ritornare, qualcuno avrebbero dato l’allarme, ma non sarebbe stato facile per i soccorritori trovarlo, finché non vi fosse stata qualche schiarita. Ora aveva anche smarrito il sentiero e sedersi per attendere i soccorsi in mezzo a quella tormenta  era impensabile; se fosse durata a lungo sarebbe morto assiderato.

Quel  mattino la giornata si era preannunciata chiara, limpida e lui aveva giudicato inutile indossare abiti pesanti. L’unica possibilità di venir fuori da quella situazione era trovare un rifugio temporaneo, qualche anfratto, qualche minuscola grotta in cui proteggersi dal vento e dalla neve, dove potersi rintanare e aspettare.

            In mezzo al nevischio più fitto, continuò cautamente a scendere, tastando a volte il terreno nel timore di mettere un piede in fallo. Vagò a lungo e, senza accorgersene, si trovò a singhiozzare per la sua stupidità e per non aver accettato il consiglio di farsi accompagnare da una guida esperta della montagna. La fatica cominciò a farsi sentire e il freddo pure. Il caffè nel thermos era ormai finito da un pezzo e di mangiare un panino non se la sentiva. Solo il desiderio di trovare un riparo lo spingeva a vagare. Si accorse con rabbia di aver rifatto lo stesso tragitto e pensò di aver inutilmente girato in tondo perdendo tempo prezioso.  Le ore passavano veloci e le quattordici, l’ora di rientro comunicata al cameriere, erano passate da un pezzo.

            Con paura si accorse che la luce cominciava ad affievolirsi e le ombre della sera sarebbero presto calate e allora...

            Diede un urlo di sollievo quando gli si parò davanti una massa scura, non molto alta,  liscia, d’un color bruno, simile al legno. Pareva la parete di una baita. Salendo verso il pianoro, non l’aveva vista,  ma chissà quale percorso aveva seguito dopo aver smarrito il sentiero.

            Si precipitò verso la baita e, raggiunta la porta, l’aprì senza bussare e se la rinchiuse alle spalle con un colpo secco.

- Benvenuto, - lo accolse una voce. - Si tolga quegli abiti bagnati e se ne vada vicino al caminetto.

            Il ragionier Ginetti guardò verso un soppalco. Un uomo, con un ampio cappello in testa, una zimarra lunga sino al polpaccio, tutta imbrattata di colori diversi, un pennello in una mano e una tavolozza nell’altra, lo guardava, stando a fianco di un cavalletto su cui era posata una tela.

- Brutta giornata, vero? - disse il pittore, picchiettando il  pennello sulla tavolozza e continuando a dipingere alla luce di due candelieri posti ai lati del cavalletto. - Fa piacere, in giornate come queste, avere un poco di compagnia, anche se a me piace la solitudine.  Si è smarrito sul pianoro, vero? Quel pianoro è una zona ingannevole, facile a raggiungersi, ma difficile ad allontanarsene, specie in un giornata come questa.

- A chi lo dice!  Permette? Sono il ragionier Ginetti.

- Piacere, - rispose il pittore senza precisare il suo nome. Poi aggiunse: - Guardi in quell’armadio, troverà qualche indumento asciutto. Lo indossi pure  perchè la sua permanenza sarà lunga. Mi intendo un poco di meteorologia e una bufera come questa durerà fino a domani.

- Vuol dire?

- Certo.

- Allora i soccorsi...

- Non si aspetti che qualcuno venga a cercarla. Sarebbe da pazzi avventurarsi in mezzo alla nebbia.  Incominceranno le ricerche dopo la fine della tempesta e con la prospettiva di  trovarla semiassiderato se non...

- Ho capito, non aggiunga altro.

- Be’, poiché dovremo passare un po’ di tempo assieme, si cerchi qualcosa da fare, se ne ha voglia oppure si stenda su una di quelle brande e si riposi. E’ sempre piacevole ascoltare la voce del vento quando si è al riparo.

- Non vorrei interrompere il suo lavoro - disse il ragionier Ginetti, tenendo entrambe le mani davanti al caminetto dove ardevano alcuni ceppi.

- Ah, non intendo affatto interromperlo proprio adesso! Sto per completarlo. - Stette un istante con il pennello in aria e sorridendo, disse - To’ che bell’idea! Potrei mettere pure lei nel quadro

            Il ragioniere lo guardò incuriosito. Gli pareva una assurdità, pensò: un pittore  sta dipingendo un quadro e, quindi, ha già in mente il soggetto, non lo cambia all’improvviso per inserirvi la figura di uno sconosciuto, capitato nel suo studio per caso. Ma prima di poter rispondere, il pittore continuò:

- Non le sembra una bella idea, vero?  Lo leggo sul suo volto. D’altronde non intendevo affatto aggiungere altri personaggi se non quelli già fissati in mente. Si rassicuri, quindi, signor Ginetti.

            Il pittore riprese  a lavorare e il ragioniere, ormai a suo agio in quell’ambiente nuovo per lui, si mise a guardar meglio tutt’ attorno.

            La baita era formata da una sola stanza, molto ampia. In un angolo c’era il caminetto, un tavolo e alcune sedie in legno. Una madia e un armadio completavano quell’angolo-cucina. Dalla parte opposta, in piena luce vicino alla finestra, stava un soppalco su cui era sistemato il cavalletto e un tavolo da lavoro, imbrattato di molti colori, con sopra, buttati alla rinfusa, tubetti e tubicini, bottigline di solvente, acqua ragia e stracci.

              Su entrambi i lati delle altre due pareti erano collocate due brande di tipo militare. Appesi alle pareti dei quadri, tanti quadri formavano una specie di singolare tappezzeria colorata, inusuale, fuori del comune. Per terra, appoggiati alle pareti, distesi su telai improvvisati costruiti, con ogni probabilità, dal pittore stesso, si vedevano molte tele.  Oltre ai due candelabri situati ai lati del cavalletto, un lampadario a petrolio spandeva tutto attorno una luce biancastra.

            Il ragioniere si avvicinò ad una parete per esaminare i quadri.  Si  trattava di opere di un pittore naif, dotato di una buona pennellata,  ma nulla più. I soggetti erano tra i più vari. Animali, piante, persone, mostri, nani, giganti, esseri nati dal parto di una fantasia sfrenata. Donne bellissime. Se quell’uomo, invece di dedicarsi alla pittura si fosse dedicato alla letteratura - pensò fuggevolmente il ragionier Ginetti - sarebbe diventato un ottimo favolista o un inventore di trame fantastiche e avventurose. Ogni suo quadro rappresentava una storia, una storia completa. Gli passò per la mente che fosse un illustratore di libri e glielo chiese.

- No, non ho mai illustrato libri. Preferisco inventarmi le storie e poi costruirle sulla tela. Vede, ad esempio, ora sto disegnando una storia strana, ma non gliela racconterò. Devono essere gli altri a ricostruirla o a reinventarla in base alla scena dipinta sulla tela. Si avvicini, guardi, guardi pure e mi dica cosa immagina.

            Il ragioniere si avvicinò al cavalletto. Guardò il dipinto e subito colse  il contrasto con quanto si vedeva attraverso i vetri della finestra della baita. Di fuori nebbia, alberi agitati, piegati, frustati dal vento furioso. Turbini di neve si abbattevano sui vetri e molta  neve si andava ammassando intorno alla baita. Nel quadro incompiuto, invece, colpiva subito la calma. Una calma irreale gravava su tutta la scena. Rappresentava una giungla avvolta nel giallo chiarore del sole e si coglieva la sensazione del caldo, un caldo afoso e appiccicoso, trasudante dal sottobosco ricoperto di muschio, un caldo capace di spremere tutto il sudore dalla pelle. Sulla sinistra della tela, in mezzo ad una folta vegetazione di piante strane, di felci nate ai piedi di alti banani, di palme da cocco, di alberi del pane da cui pendevano lunghe liane, stava un uomo dai lineamenti scimmieschi, col muso prognato,  i capelli lunghi e arruffati ricadenti sulle spalle nude. Le braccia molto lunghe pendevano ai lati del corpo e terminavano con mani possenti, unghiute, artigliate quasi. Corpo e braccia, interamente  ricoperti da una bruna peluria, erano  nudi. Ma era il viso ad impressionare perchè, nella sua mostruosità, lasciava balenare attraverso gli occhi vividi e acuti una curiosità e un interesse particolari per quanto gli stava attorno. Al centro del quadro alcuni animali: leoni, tigri, gazzelle, pecore. Nessuno di essi manifestava la sua natura di aggressore e neppure mostrava timore per chi gli stava vicino.

            Sulla destra della tela campeggiava un albero frondoso i cui rami, carichi di frutta matura, pendevano verso terra, quasi a voler dire “Siamo a tua disposizione, coglici!”. I frutti.  rossi, tondi, polposi suggerivano l’idea di  essere succosi e profumati. 

            A parte l’albero non c’era altro o per essere più esatti, rimaneva  uno spazio vuoto, bianco, in attesa di altri dettagli.

- E allora, le sue impressioni? - chiese il pittore. Si era messo in disparte a guardare il suo ospite mentre esaminava l’opera.

- Una scena in terra d’Africa -  rispose. - Gli animali e le piante lo  suggeriscono. L’uomo dall’aspetto scimmiesco fa pensare a qualche aborigeno che vive in mezzo a quella natura incontaminata da cui ricava il suo sostentamento: la carne dagli animali presenti  e la frutta dagli alberi del pane, dalle palme da cocco, dai banani e  da quell’altro con i  pomi.

- Non c’è  male come interpretazione.

- Potrei anche suggerirne altre.

- Aspetti e mi lasci completare la scena, poi mi dirà. Ora pensi a riposare.

            Il ragionier Ginetti cominciava ad avvertire una strana sonnolenza. La giornata era stata estenuante e la fatica dell’ascesa  cui si era aggiunta l’ancor più dura fatica durante  la lunga ricerca  di un riparo per la notte, lo spinsero a coricarsi su una branda, ad avvolgersi in una coperta e a chiudere gli occhi. Non si accorse nemmeno di  scivolare in un sonno profondo  e ristoratore.

            Quando si svegliò una luce biancastra, intensa, penetrava attraverso i vetri della finestra e illuminava ogni angolo della baita.  Il pittore sembrava non essersi mai allontanato dal cavalletto e il ragioniere lo ritrovò nello stesso atteggiamento in cui l’aveva lasciato quando si era coricato sulla branda. 

- Ha dormito bene, signor Ginetti?

- Ottimamente. Com’è il tempo?

- La neve non cade più, il vento è calato e le nubi si sono alzate.

- Allora potrò ritornare  a valle. Eviterò l’invio di qualche squadra alla mia ricerca.

- Se è per quello, penso sia già partita, ma non verso la baita.  Lei si è allontanato molto dal sentiero che porta al pianoro per cui  in questo momento la stanno cercando da tutt’altra parte.  Ho preparato  il caffè. Ne beva una tazza prima di partire.

- Ha terminato il quadro?

- Sì.

- Posso vederlo?

- Deve vederlo. Ora  è completo e potrebbe modificare la sua prima impressione.

            Tenendo tra le mani la tazza di caffè, il ragionier Ginetti si avvicinò al cavalletto e guardò la tela. La scena era completa. Sulla destra, dove la sera prima c’era uno spazio bianco, ora era occupato da una donna nuda, bellissima, in stridente contrasto con l’uomo scimmiesco dipinto sulla sinistra, un contrasto che faceva vieppiù risaltare la morbidezza della pelle della donna, la sua carnagione rosea, i suoi occhi splendidi, la capigliatura, color dorato fluente sul petto a ricoprire il seno come un velo semitrasparente sebbene ne lasciasse capire la rotondità.  Teneva un braccio teso verso un ramo indicando un frutto e l’altro verso l’uomo, quasi ad invitarlo ad avvicinarsi e a cogliere proprio quel frutto. Il suo aspetto e il suo atteggiamento erano oltremodo invitanti.

- Che mi dice? - chiese il pittore.

- Be’ adesso la sua intenzione è chiara. Ha voluto dipingere il biblico Eden nel momento in cui Eva tenta Adamo, indicandogli il frutto proibito, il pomo nato sull’Albero del Bene e del Male. Sì, si tratta proprio dell’Eden: ci sono gli animali di quel Paradiso Terrestre,  l’uno accanto all’altro senza timore. “Pascolerà l’agnella vicino al leone”, così sta scritto nella  Bibbia. Non capisco solamente perché ha dipinto un Adamo scimmiesco e una Eva simile ad una dea.

- Secondo lei,  Adamo era un uomo bello?

- Seguendo la Bibbia, direi di sì. Sta, infatti, scritto: “E Dio creò l’uomo a sua somiglianza”. Può essere brutto Dio?

- Dio è tutto, - gli rispose il pittore.

- Allora tanto valeva fare una Eva simile al suo uomo, brutta anche lei.

- Inizialmente volevo farlo; volevo imitare Masaccio e rifarmi alla sua Eva tormentata, brutta. Ma quella era il ritratto di una Eva la quale aveva già  disubbidito e già aveva peccato; la mia doveva essere un richiamo per il suo uomo, una bellezza sublime, capace di attirarlo verso l’Albero del Bene e del Male. Il bene lo si accetta da chiunque, ma per spingere al male occorre qualcosa di allettante, qualcosa capace di soffocare, di nascondere il male che nascerà .  Ecco perché la mia Eva è bella. Pensi alle sue parole rivolte ad Adamo: “Vieni, uomo,  avvicinati, mangia il frutto e la tua bruttezza sparirà. Diventerai bello come me! Vieni, mordi il frutto dell’Albero del Bene.

            Il ragionier Ginetti teneva tra le mani la tazzina vuota di caffè. Gli pareva di star facendo una discussione assurda, strana, fuori del comune. Ma, pensò, gli artisti sono fatti così e a loro poco importa se si trovano in un museo, in una piazza, in una stanza o in una baita circondata dalla neve.

- Mi è venuta una idea, signor Ginetti. Le regalo questa tela. L’appenda nel suo salotto e quando la guarderà potrà valutare la mia interpretazione o cambiare idea.

            Senza attendere risposta, il pittore prese la tela ancora umida, vi pose sopra un foglio di carta oleata e,  dopo averla arrotolata con cura, la introdusse in un tubo di cartone.

- Ecco, signor Ginetti. E’ sua! Le nubi si stanno diradando,  può andare. Segua sempre il limitare del bosco e troverà il sentiero.

            Ciò detto, il pittore gli voltò le spalle.

            Borbottanto parole di ringraziamento, probabilmente inascoltate dal  pittore,  il ragioniere aprì l’uscio della baita e uscì in mezzo alla neve. Gli fu facile trovare il sentiero e, con lo zaino in spalla dove aveva riposto la tela, cominciò a scendere verso il fondo valle.

            La prima persona a venirgli incontro prima di lasciare il sentiero e immettersi sulla strada statale  fu un boscaiolo il quale si fermò a guardarlo.

- Lei, ci scommetto, è il ragionier Ginetti. Stamattina tutti parlavano di lei. - disse. - Allora ce l’ha fatta a superare la tempesta.  Ieri sera si era sparsa la voce del suo mancato rientro da una ascensione al pianoro e con la  nevicata di stanotte... meglio così. Ma come mai  scende da questa parte della montagna? La squadra inviata alla sua ricerca si è diretta verso l’altro versante.

- Mi sono perso nella tormenta.

- Ha avuto fortuna. Non ci sono molti ripari da queste parti, ad eccezione di qualche ammasso roccioso e di piccoli anfratti.

- Sì, ho avuto fortuna nel trovare una baita.

- Quale baita?

- La baita dove vive il pittore. Ho trascorso lì la notte.

            Il boscaiolo sputò la cicca di tabacco che aveva continuato a masticare mentre parlava e guardò fisso il ragioniere. Poi si guardò attorno.

- Senta, amico, sarebbe opportuno per il suo bene se non rivelasse a nessuno di essere stato ospite del pittore. Quella è una persona che in passato non ha mai incontrato  le simpatie di nessuno. Sin dal suo arrivo da queste parti  tutti hanno cercato di stare alla larga da lui. Mi dia ascolto, non ne parli. Se qualcuno le chiederà come è riuscito a scampare alla tormenta, dica di aver trovato riparo tra gli ammassi di rocce  situate ai margini del  bosco. E lasci perdere il pittore.

            Ritornato all’albergo, fu subissato di domande. Ognuno voleva conoscere i particolari della sua avventura. Il ragioniere fu tentato di accennare al pittore e all’aiuto ricevuto, ma una strana reticenza lo trattenne dal farlo. Si limitò a seguire le indicazioni del boscaiolo e si attenne alla spiegazione delle rocce provvidenziali.

            Tornato in città, il ricordo di quell’avventura si affievolì a poco a poco e si rannicchiò in un angolo della mente. Riaffiorava solo quando il suo sguardo cadeva sul quadro donatogli dal pittore naif, incorniciato e appeso in salotto.

 

                                               §§§§§§§§§§§§§§§

            Una giornata di quelle oltremodo stressanti; capitano una sola volta all’anno, e lasciano il segno.

            Quel mattino il direttore aveva voluto il bilancio aggiornato; il ragioniere capo non si era presentato al lavoro (gli era morta la suocera); un’impiegata, considerata dal ragionier Ginetti il suo braccio destro, era in ferie alle Baleari (beata lei!) per cui tutto il lavoro era ricaduto sulle sue spalle e aveva dovuto fare salti da prestigiatore per consegnare il bilancio in tempo. Nel pomeriggio poi una riunione sindacale gli aveva dato il colpo di grazia e, tornato a casa, dopo un hamburger, sbocconcellato più per mettere qualcosa nello stomaco che per fame, e una birra gelata che non aveva contribuito alla digestione, accesa la televisione, unica compagnia della sua vita solitaria,  si era disteso sul divano.

            Quella sera però gli spettacoli trasmessi non lo interessavano. Quasi fosse in trance, coglieva le immagini sul piccolo schermo senza cercare di collegarle a quanto diceva il commentatore. Era una specie di mormorìo, un sottofondo ai suoi pensieri. A tratti la noia lo induceva a chiudere gli occhi.  Quando li riapriva, a causa della musica salita di tono, in occasione di qualche messaggio televisivo diffuso con un volume sonoro più alto della media,  il suo sguardo si posava sul quadro del pittore naif, appeso proprio sopra la televisione. Vedeva Adamo, brutto, scimmiesco, ed Eva , bellissima, avvolta nei suoi capelli biondi, invitante, piena di un fascino perverso e tentatore. Poi si riappisolava.

            Quando, per l’ennesima volta, riaprì gli occhi assonnati, gli venne in mente un passo della Bibbia. “Poiché hai mangiato il frutto proibito, sia maledetta la terra  per quello che hai fatto; da lei trarrai con grandi fatiche il nutrimento per tutti i giorni della tua vita”.  Certo, pensò, se tutti i giorni fossero simili a quello di oggi ci sarebbe da spararsi. E tutto per quella là, quella Eva tentatrice e il suo pomo maledetto. Sua la colpa se siamo stati cacciati dall’Eden e costretti a lavorare!

            Cullato da un tenue motivo musicale, stava per socchiudere nuovamente gli occhi e abbandonarsi al sonno, quando colse, improvviso, un movimento nel quadro.  Dapprima pensò ad una illusione ottica prodotta dallo schermo. Era l’unica fonte di luce ad illuminare la stanza immersa nel buio, ma il movimento si ripeté.          

            La figura scimmiesca di Adamo si era mossa. Aveva fatto un passo avanti.

            Immerso in quello stato di semincoscienza, preludio al sonno, in quel torpore che pareva ottundere la mente, gli parve persino di udire una voce dolce, melliflua, invitante.

“Vieni, Adamo, eccoti la mela, vieni, è dolce, profumata. Ti darà la bellezza,  ti darà la forza, il potere, la ricchezza. Vieni, ti renderà simile ad un Dio. Ti basterà un morso per suggerne ogni dolcezza.”

            Il ragioniere vide la figura scimmiesca avanzare indecisa, dondolando  ora su un piede, ora sull’altro; camminava lentamente senza guardarsi attorno, attirata solo da quel braccio teso, da quella mano col pomo maturo, da quella voce suadente e armoniosa.

 “Il piacere, Adamo, - diceva Eva, agitando il capo e lasciando i capelli, muovendosi qua e là, e scoprirle a tratti il seno, - non dimenticare! La forza, il potere su tutto, Tutto, TUTTO.

- No, - si trovò a gridare all’improvviso il ragioniere - no! Fermati! Non ascoltarla!

            E vedendo  l’uomo continuare a procedere... si gettò in mezzo ai due, ponendosi di fronte alla donna e tendendo le braccia in avanti quasi a voler respingere l’incauto Adamo. La voce continuò a blandire dietro le sue spalle come se lui non ci fosse. Quello che accadde poi si confuse nella sua mente. Avvertì qualcuno colpirlo, sentì le unghie simili ad artigli  graffiargli il volto, le braccia, il petto. Poi due mani possenti lo afferrarono per la gola e vide su di sé un ghigno scimmiesco, una bocca aperta da cui usciva un fetore insopportabile e due zanne simili a quelle di un felino, pronte a morderlo e a ferirlo. Perse i sensi e cadde a terra.

 

                                               §§§§§§§§§§§§

            Quando aprì gli occhi si trovò disteso su un letto, in una stanza bianca. Bianco il soffitto, bianche le pareti completamente nude. In un angolo l’unico mobile presente, un armadio di ferro. Provò a muoversi  ma un bruciore in tutto il corpo lo costrinse a rimanere immobile.  Sentì l’uscio della stanza aprirsi con cautela, ma non poté vedere il visitatore. Udì solo una voce.

- Finalmente! Credevo volesse dormire tutto il giorno. Sentiamo il polso.

            Il suo interlocutore si avvicinò e si chinò su di lui. Vedendo un camice bianco, pensò ad  un dottore.

- Dove mi trovo, dottore?

- In ospedale, signor Ginetti.

- E come ci sono capitato?

- Come la maggior parte dei degenti. L’ha portato ieri sera una ambulanza. Era conciato male e abbiamo dovuto ricucirlo un po’.

- Che mi è successo?

- Questo dovrà spiegarcelo lei, signor Ginetti. Anzi lo spiegherà alla polizia. C’è un agente qui di fuori, impaziente di porle qualche domanda. Se la sente di rispondergli?

            Il ragioniere fece cenno di sì col capo.

            Appena entrato, l’agente si qualificò:

- Sono il brigadiere Tarcisi. Come si sente, signor Ginetti?

- Mi sembra di essere caduto in mezzo ad un roveto. Sento bruciature dappertutto.

- Ricorda qualcosa dell’aggressione?

- Quale aggressione!

- Quella da lei subita ieri sera in casa sua.

- Io non ricordo nulla.

- Il dottore mi ha avvertito. Lei è ancora sotto choc, quindi le spiegherò quanto è a nostra conoscenza e  poi mi dirà i suoi ricordi. Procediamo in ordine. Ieri, verso le ventidue, i suoi vicini di casa hanno telefonato al posto di polizia per segnalare grida di aiuto e rumori di colluttazione provenienti dal suo appartamento. Avevano cercato di intervenire, ma per quanto suonassero il suo campanello, lei non venne ad aprire. Quando arrivò la nostra pattuglia, fu costretta a forzare l’uscio. Lei era in salotto, disteso a terra, con tutti gli abiti stracciati, profonde ferite in tutto il corpo e, come diagnosticò in seguito il  medico, qualcuno aveva tentato di strangolarla. In casa trovammo solo lei, anche se la finestra del suo appartamento, quella sul giardino era aperta. Probabilmente il suo aggressore è fuggito di là. Questo è quanto sappiamo. Ora tocca a lei.

- Io non so nulla. Non ricordo niente.

- Neppure di essere stato aggredito?

- No.

- E tutte quelle ferite... il tentativo di strangolamento? Non vorrà negare l’evidenza.

- Non nego nulla, solo  non ricordo di essere stato aggredito.

- Ha dei nemici?

- Che io sappia, no.

- Ci pensi bene:  qualcuno  la odia, che so,  nel caseggiato, sul posto di lavoro...

- Nessuno.

- Non ha quindi idea di chi l’abbia aggredito?

- Francamente no.

- Per noi si tratti di aggressione a scopo di furto, ma non abbiamo potuto appurare se in casa sua manca qualcosa. Le sarei grato di farci pervenire l’elenco di eventuali oggetti rubati.

- Pensate, quindi,  a un furto?

- E a che altro se no.

- D’accordo, brigadiere. Le sarò preciso non appena mi dimetteranno.

 

            Non mancava nulla.  Il ragionier Ginetti al suo rientro a casa, tutto incerottato e in qualche parte ancora bendato, fece una accurata ispezione. Non teneva oggetti di grande valore, ma c’era un poco di argenteria, lasciatagli dai nonni paterni, qualche oggetto d’oro nascosto in fondo ad un cassetto. Nulla era stato toccato. Aveva fatto l’inventario per scrupolo, anche se in partenza era convinto di non essere stato derubato.

            Durante il soggiorno in ospedale aveva avuto tutto il tempo di pensare alla sua disavventura e aveva subito scartato quanto era affiorato dal suo subconscio. “Suvvia, si era detto, quando mai i personaggi di un quadro si  mettono a vivere e ad agire! Il suo era stato un incubo dovuto all’eccessivo logorìo  mentale di quel giorno di lavoro, allo stress, alla stranezza di quel quadro. Non poteva negarlo: quando lo guardava avvertiva sempre  una strana sensazione; ma di lì ad ammettere che prendesse vita e uno dei due personaggi l’avesse aggredito, graffiato, morso, e avesse addirittura tentato di strangolarlo, questo proprio no!”. Non voleva crederlo. Ma allora, quale altra soluzione ci poteva essere? L’aggressione da parte di un ladro il quale non aveva potuto rubar nulla per l’intervento inatteso dei vicini e l’arrivo della polizia? Una spiegazione più che plausibile, anche se poco convincente. Il ladro avrebbe potuto limitarsi a dargli una bella botta in testa e basta: perché infierire  con unghiate,  graffi, morsi e addirittura con un tentativo di strangolamento? Quella è la reazione di chi è contrastato nel raggiungimento di un obiettivo e attacca con tutte le armi a disposizione. E l’Adamo del quadro aveva a sua disposizione la forza bruta,  braccia possenti, e mani le cui dita terminavano con unghie lunghe e affilate.

- Ma quali assurdità sto immaginando! - esclamò ad alta voce il ragioniere Ginetti, girandosi con cautela sul divano su cui si era sdraiato, appoggiando su un cuscino il braccio destro, quello su cui l’aggressore pareva aver infierito con più accanimento.

            I vicini, che sino a quell’ora gli avevano tenuto compagnia, se n’erano andati, lasciandolo solo nel salotto debolmente illuminato da una minuscola lampada posta sulla televisione la cui fievole luce investiva il quadro.

            Il quadro era stata l’unica cosa trovata fuori posto al suo rientro dall’ospedale. Era caduto a terra ed era rimasto in piedi, appoggiato al muro. Lo aveva rimesso al suo posto e ora lo osservava, sorridendo per le strane idee suscitate da quell’opera naif.

            Improvvisamente il sorriso gli si spense sulle labbra.

            Come già era accaduto la sera dell’aggressione, gli parve di vedere un movimento nell’uomo e di udire una fievole voce. Guardò la figura della donna: aveva cambiato atteggiamento. Non stava più tendendo il frutto maturo verso l’uomo del quadro, ma verso di lui. Il suo braccio nudo, roseo, tornito, invitante, usciva dalla tela per offrirgli il frutto.  La voce aumentò di tono. “Vieni, vieni all’Albero del Bene. Qui troverai tutto, Tutto, TUTTO. Desideri, aspirazioni, speranze, forza, potere, ricchezza... Vieni!”.

  La voce suadente, melliflua, simile al canto di una sirena ammaliatrice, lo fasciava, gli penetrava nelle orecchie, raggiungeva i più remoti meandri della sua mente. Cullato da quella voce il ragioniere si alzò dal divano e si avvicinò al quadro, con gli occhi fissi su quel frutto invitante e allettante. Lo distrasse un movimento sulla sinistra. L’uomo del quadro lo guardava con occhi di brace, arrossati, irosi, simili a quelli di un lupo famelico che guata la preda ed estrae  gli artigli per meglio colpirla. La donna, invece, stava immobile col braccio sporgente dalla tela. L’uomo cominciò a muoversi nella sua direzione con fare minaccioso.

- No, - gridò ad alta voce il ragioniere - no! - E, strappato il quadro dal muro, corse in cucina,  accese i fuochi del fornello a gas e, con un gesto di rabbia e di liberazione assieme, ve lo  pose sopra.  E guardò

            Le fiammelle azzurre del gas cominciarono a sciogliere i colori oleosi i quali si fusero in un unico amalgama, mentre minuscole bollicine crescevano sulla tela e scoppiavano; poi le fiamme presero a propagarsi e a distruggere la scena. L’Adamo del quadro cercava di allontanare da sé le fiamme e di sottrarsi ad esse. Solo la donna, l’Eva primordiale, sembrava insensibile al fuoco. Non se ne curava: continuava a mostrare la mela, ad offrirla col sorriso sulle labbra. Poi le fiamme la raggiunsero, corrosero il suo magnifico corpo, bruciarono la splendida capigliatura e solo allora il suo volto, quel volto magnifico, ammaliatore, cominciò a cambiare, si tramutò in un ghigno malvagio, malefico, diabolico finché non bruciò interamente e della tela rimase  poca cenere sparsa sul fornello.

             Il ragionier Ginetti, chiuso il gas, prese la cornice vuota, la portò sul poggiolo e se ne andò a letto.

            Quella notte dormì saporitamente e senza sogni.

 

                                               §§§§§§§§§§§§

            Quell’anno l’estate era giunta improvvisa  e un caldo afoso proveniente, si diceva, dal Sahara, aveva allontanato e spinto verso i monti e verso il mare la maggior parte degli abitanti delle grandi città. Come sempre anche il ragionier Ginetti aveva seguito la corrente migratoria e come sempre, innamorato della montagna, si era diretto verso le Alpi, verso la cittadina di Entrèves di cui nei precedenti soggiorni aveva scoperto le bellezze. Trovò posto nello stesso albergo e fu subito riconosciuto: merito della sua precedente disavventura.

            Oltre alle attrattive turistiche, un altro motivo lo aveva spinto a rivedere quei luoghi. Dopo la distruzione del quadro, nulla era più accaduto, ma la curiosità di saperne di più non si era mai acuita. Voleva incontrarsi col pittore, chiedergli spiegazioni. Dove fosse la baita non lo sapeva e, dopo il consiglio del boscaiolo, aveva timore a chiedere in giro, a porre domande. Decise di ritrovare proprio quel boscaiolo, l’unico a sapere dove aveva trascorso la notte della tormenta e quindi l’unico a potergli dire dove si trovasse la baita del pittore.

            Trovare il boscaiolo fu facile. Gli bastò descriverlo e lo indirizzarono verso una casa in legno, costruita a mezza costa, dove abitava il vecchio Giovanni con la figlia e il genero.

            Lo trovò seduto sotto un abete, intento ad intagliare una statuina in un pezzo di legno.

- To’, l’uomo della tormenta! - lo salutò il vecchio appena lo vide. - Ancora da queste parti? Mi lasci scommettere di nuovo, lei è venuto a trovarmi per farmi qualche domanda, o sbaglio?

- Non sbaglia affatto. Dopo la disavventura dell’estate scorsa, e dopo il suo consiglio di non parlare con nessuno del mio incontro il pittore, mi sono capitati alcuni fatti strani, incomprensibili ai quali solo il pittore può dare una spiegazione.  Son venuto da lei perché mi accompagni alla baita, le pagherò il disturbo.

- Risparmi i suoi soldi, ragioniere. Io non l’accompagnerò.

- Se non se la sente, mi indichi qualcun altro affinché mi faccia da guida.

- Non troverà mai nessuno disposto ad accompagnarla.

- Ma io devo parlare con quel pittore, a tutti i costi.

- Non può. - Tacque per un istante e poi riprese. - Non può perchè il pittore è morto.

- E quando?

- Ormai sono più di sessanta anni.  Sì, direi proprio sessanta perché io a quel tempo avevo sì  e no dodici anni.

- Ma se io l’ho incontrato lo scorso anno! - esclamò stupito il ragioniere.

- Ecco perché le consigliai di non dire a nessuno di aver trascorso la notte in compagnia di un pittore morto da oltre mezzo secolo: l’avrebbero preso per un visionario o per un pazzo.

- Ma io l’ho visto e gli ho parlato! - ripeté il ragioniere, quasi parlando a se stesso.

- La montagna gioca spesso brutti scherzi, in particolar modo quando uno si trova solo e abbandonato in mezzo alla furia degli elementi e l’istinto di sopravvivenza prevale su tutto, anche sulla ragione. In qualche modo, per sentito dire o per averlo letto da qualche parte, lei venne a conoscenza dell’esistenza di quel pittore, del suo desiderio di solitudine, della baita solitaria in cui viveva e quella notte, al riparo di qualche ammasso di rocce,  ha immaginato di trovarsi in compagnia del pittore. Ecco la spiegazione del suo incubo.

- Ma gli incubi non regalano quadri, -  mormorò il ragioniere.

- Quale quadro?- volle sapere il vecchio.

            Il ragionier Ginetti gli parlò del quadro che il pittore aveva finito di dipingere mentre si trovavano assieme nella baita.

- E dov’è il quadro?

- L’ho bruciato.

            Il vecchio Giovanni lo guardò in modo strano e con un certo scetticismo nello sguardo.

- Non mi crede, vero? Allora ascolti quanto mi è capitato l’inverno scorso.

            Il boscaiolo, continuando  a intagliare la sua statuina, ascoltò attentamente tutta la storia, senza mai interrompere. Alzò il capo solo dopo aver appreso della distruzione della tela.

- E’ stata una saggia decisione. Ora con lei potrò essere anche più esplicito e poi ha il diritto di sapere quanto io so e quanto tutti i vecchi qui sanno. Dopo la guerra, mi riferisco alla prima guerra, quella terminata nel diciotto, capitò da queste parti un uomo. Probabilmente il luogo gli piacque perché si fermò e andò ad abitare in una baita  rimasta disabitata. La rimise in sesto e ne fece la sua dimora. Costui era un pittore, un uomo di poche parole, riservato, strano. Alcuni pensavano fosse cecoslovacco, altri lo dicevano nativo della Moldavia. Non si è mai saputa la sua origine. Sua unica passione era la pittura. Una volta al mese veniva dalla Francia un mercante. Si fermava in una locanda per incontrare il pittore e per acquistare i suoi quadri. Come le ho detto quel pittore era così amante della solitudine da apparire villano e scostante. Nessuno riuscì a stringere amicizia con lui e i pochi che lo tentarono ne furono dissuasi dai suoi modi bruschi. Si diffuse la diceria  che quell’uomo, oltre ad essere pittore, fosse anche un poco mago. La diceria era derivata dai suoi quadri. Il commerciante francese, prima di imballarli nel salone della locanda, li guardava e tutti potevano vedere i soggetti dipinti. Io ero allora ragazzo, comunque ricordo chiaramente i soggetti di alcune tele: esseri strani, mostruosi; scene bellissime mescolate a particolari orrendi, talvolta osceni; donne stupende a fianco di streghe e megere. Della bellezza dei nostri monti  e della serenità delle nostre valli non traspariva nulla. Quel pittore avrebbe potuto dipingere quei quadri standosene in una città, chiuso in una stanza. Non si capiva perchè avesse scelto di abitare in montagna.

            Il boscaiolo interruppe il racconto, si alzò, andò a prendere una brocca di vino e due bicchieri, li riempì e ne porse uno al suo ospite. Dopo aver bevuto, riprese il racconto.

- Una sera d’estate, verso mezzanotte, la campana della chiesa prese a suonare. Qualcosa di grave stava accadendo.  In breve sulla piazza si radunarono molti uomini e uno di essi disse che la baita del pittore era in fiamme. C’ero anch’io. Ci dirigemmo verso la baita, pur consapevoli, per la distanza, di giungere in ritardo, ma c’era pur sempre la possibilità di portare soccorso al pittore. Quando raggiungemmo la baita non c’era più nulla da fare. Della costruzione rimanevano le fondamenta in legno ancora fumanti. Cercammo inutilmente tracce del pittore: non ne trovammo. O si era messo in salvo ed era fuggito lontano, oppure era bruciato come la baita e le sue ceneri si erano mescolate a quelle del suo cavalletto, della sua tavolozza, delle tele dipinte. Immaginare la causa dell’incendio fu facile. Il caminetto acceso, la baita interamente costruita in legno, una scintilla e poi l’incendio. Da quel giorno non si parlò più del pittore e nessuno ne ebbe più notizia. In seguito sorse la leggenda: qualcuno affermò di aver nottetempo visto un’ombra aggirarsi sul luogo dell’incendio. Si parlò di un ritorno del pittore; di un fantasma vagante alla ricerca di chissacché, di maledizioni e altro.  I resti bruciati della baita sparirono presto. La natura riprese il sopravvento e nessuno oggi saprebbe con certezza indicare dove sorgeva. Ecco perché non potrà parlargli né trovare qualcuno per accompagnarla.

            I due uomini rimasero in silenzio a guardare la valle sottostante, verde, fresca, brillante nei colori dell’estate.

- Ma il quadro! Il quadro! - mormorò il ragioniere. - Quello non me lo sono sognato. E queste come me le sono procurate? - aggiunse, tirando su la manica della camicia e mostrando sul braccio i segni di lunghe cicatrici.

- Il suo assalitore, un ladro probabilmente.

- No, non ci credo alla teoria del ladro. E poi secondo il medico del pronto soccorso solo  degli artigli potevano aver provocato ferite simili a quelle che avevo. Mi chiese persino se ero finito in qualche gabbia di orsi o pantere.

- Quindi per lei la spiegazione, diciamo, biblica è l’unica valida? E’ stato l’Adamo del quadro ad aggredirla perché voleva impedirgli di raggiungere l’Albero del Bene e del Male?

- Non so più che pensare.

- Mi dica: perché, vedendo l’uomo del quadro muoversi, ritenne di doversi intromettere per impedirgli di raggiungere il pomo offerto dalla donna?

- Chissà! Forse mi ero illuso di potergli impedire di compiere l’atto che avrebbe condizionato e rovinato la vita sua e di tutti i suoi discendenti.

- Ma quell’atto era già avvenuto; Adamo aveva già disubbidito e la  sua intromissione a distanza di tanto tempo era perfettamente inutile. O riteneva di poter modificare i disegni del Creatore? Forse in quel particolare momento poteva anche pensarlo; ma non si rendeva conto di peccare di presunzione. Forse per questo ha subito una punizione.

            Tacque a lungo e poi riprese:

- La seconda volta, invece, era più cosciente e non reagì alle tentazioni di Eva. Preferì bruciare il quadro. E fu la cosa più sensata da fare perché allontanò per sempre ogni tentazione. Posso offrirle una spiegazione del quadro  e cioè la tentazione a cui ognuno di noi durante il corso della sua vita è soggetto, in particolar modo quando si trova di fronte ad un problema di scelta tra bene e male. Sarebbe troppo facile se si potesse disporre di una Eva con un pomo in mano, un pomo capace di risolvere la situazione. Non ci sarebbe più il libero arbitrio e verrebbe meno la capacità di scegliere. Il quadro rappresentava per lei una Eva pronta ad offrirle un pomo, il pomo della sicurezza, ma al tempo stesso un pomo capace di toglierle il gusto della vita. Ha fatto bene a rifiutarlo e a bruciare la tentazione racchiusa nella tela. Bene e male, signor Ginetti, esisteranno sempre: fanno parte della natura umana, si controbilanciano. Apra un giornale, ascolti la radio, la televisione. Le notizie si alternano sempre: massacri, delitti, furti, uccisioni da una parte; nuove scoperte, atti di solidarietà, gesti di amore, offerte di aiuti,  speranze dall’altra. Il biblico Albero del  Bene e del Male altro non è se non una bilancia i cui piatti sono sullo stesso piano e se talvolta uno prevale sull’altro, è sempre l’uomo a riportarli in parità.

            Il ragionier Ginetti guardò il vecchio boscaiolo. Non avrebbe mai immaginato in lui tanta saggezza, eppure gli aveva fornito una spiegazione. Poco importava se aveva passato una notte in compagnia di un pittore morto da oltre sessant’anni; poco importava se aveva avuto tra le mani una tela il cui soggetto era l’Eden biblico con Adamo e Eva.

             Ma l’aveva veramente posseduta quella tela? Ora che non c’era più, ora che l’aveva bruciata, cominciava a dubitarne.

            Rimase in silenzio e lasciò liberamente vagare il suo sguardo sul verde delle valli circostanti.

            Il  vecchio accanto a lui aveva ripreso tra le mani la sua statuetta e incideva con delicatezza il legno per modellarla.